Promuovere il cambiamento in azienda: la leadership flessibile

Siamo consapevoli che sono stati scritti fiumi di parole sul cambiamento nel mondo delle organizzazioni. C’è ben poco da aggiungere a ciò che si è già affermato riguardo all’urgenza di adeguarsi, sia da parte dei singoli che dei collettivi, ai repentini mutamenti degli scenari micro e macro-economici in cui professionisti e imprese agiscono quotidianamente.

Proprio per questo emerge la domanda: come mai, nonostante si sia al corrente dell’inevitabilità del cambiamento, si sia ben predisposti a cambiare e si disponga degli strumenti materiali e immateriali per fare il grande passo, poi, alla fine, non si cambia?

Perché, inoltre, il più delle volte si esortano gli altri a cambiare senza prendere in considerazione quanto si è disposti, in prima persona, a mettere in discussione i propri standard decisionali?

Proviamo a riflettere su alcune possibili cause di quest’immobilismo non desiderato eppure, spesso, ben radicato nella struttura comportamentale di un professionista o di un’intera organizzazione.

  1. In alcune circostanze il cambiamento è interpretato come un via da e non come un verso. Chi è coinvolto nel processo di mutamento ha ben chiaro da cosa deve staccarsi ma non cosa, poi, acquisisce. Il cambiamento, in tal caso, è visto come rinuncia a qualcosa di noto per muoversi verso l’ignoto. Emerge, perciò, una visione del mutamento come rischio/sacrificio. Ci si domanda, allora: Ne vale la pena? È veramente necessario cambiare? In attesa di darsi una risposta si reitera la nota e comoda routine, anche se improduttiva, e intanto la performance ristagna.
  2. Altre volte il cambiamento viene considerato un evento improvviso, radicale e totalizzante, insomma una sorta di fatto epocale e rivoluzionario. In questa prospettiva il mutamento è interpretato come un rimedio necessario e spaventoso e, proprio per questo, difficile da realizzare. Questa è la visione dello stregone, del guru, del guaritore. Si tratta di una prospettiva che conduce il singolo professionista, o il manager di una grossa azienda, a domandarsi: Ne sarò capace? In attesa della risposta, come è prevedibile, si resta lì dove si è, semmai si va anche un po’ più indietro.
  3. In un’ulteriore circostanza, riferita in modo specifico ai singoli, il cambiamento viene assimilato alla modifica del carattere e del senso di identità. La convinzione su cui poggia questo tipo di visione è così sintetizzabile:
    Per cambiare il mio/ suo comportamento devo cambiare il mio/suo carattere.
    In tal modo il mutamento è inteso come giudizio/correzione rispetto a ciò che si è o riguardo a ciò che l’altro è. Così facendo si mette in atto una generalizzazione che estende all’intera persona l’intervento su un singolo aspetto comportamentale. Un simile punto di vista spinge le persone a radicalizzare ancora di più i propri “difetti”, finendo con lo “sbagliare” di più e meglio.
  4. Da un’ultima angolazione il cambiamento è inteso come segno di fallimento: si deve cambiare perché, prima, si è sbagliato tutto (questa è la convinzione che si radicalizza nella mente di chi è coinvolto nel processo di trasformazione). Perciò non si cambia e ciò al solo scopo di non dovere ammettere il fallimento.

In un’organizzazione che mira al cambiamento la leadership deve spesso confrontarsi con una di queste prospettive, se non con tutte. Si tratta, infatti, di punti di vista che a volte si intersecano, si sostengono, si sostituiscono l’uno all’altro e ciò sempre in nome della difesa dello status quo.

A tale proposito, rispetto al punto 1) ossia il cambiamento inteso come procedere verso l’ignoto, il leader deve definire chiaramente qual è il punto di partenza del percorso di trasformazione e qual è, poi, quello di arrivo.

Tale affermazione è meno scontata del previsto: in alcuni casi, infatti, l’enfasi posta sull’urgenza del cambiamento diventa più una sorta di slogan pseudo-motivazionale che un effettivo progetto aziendale. Quando l’obiettivo non è chiaro, prevalgono il senso di rinuncia e di confusione: la persona, sollecitata a cambiare (non si sa bene cosa né perché), si percepisce come una specie di viandante nel deserto, che vaga senza meta.

Come il viandante che il destino spinge contro la sua volontà in un ambiente ostile, e che teme di restare in balìa delle dune sabbiose senza acqua né cibo, così quella persona ha paura di intraprendere un percorso che lo condurrà chissà dove e chissà per quanto, restando in balìa degli eventi.

Il cambiamento, invece, ha un inizio e una fine: è un percorso e chi lo compie è come il pellegrino, che attraverserà pure il deserto ma lo fa ben consapevole sia del luogo di partenza che di quello di arrivo. Che ha le scorte giuste per far fronte alle avversità e ai bisogni che emergeranno lungo il cammino.

In riferimento al punto 2), il leader dovrà esorcizzare il “fantasma della rivoluzione” elaborando un piano di azione in cui il cambiamento risulti fatto per piccoli passi, che sia progressivo, continuo, che risolva step by step i vari nodi che ostacolano la trasformazione di cui l’azienda necessita.

Il cambiamento, insomma, non è l’evento unico e totalizzante preconizzato dallo “stregone” di turno bensì una sorta di mosaico, che si completa tassello dopo tassello.

Il punto 3) è quello che, forse, costituisce il nodo più aggrovigliato da sciogliere. Qui, infatti, la prospettiva personale prevale su quella professionale. Ogni azione, propria e altrui, viene filtrata attraverso il sistema di riferimento personale: emozioni, convinzioni, sentimenti personali hanno la meglio sui ruoli, i compiti, le regole e le procedure che orientano generalmente la vita di un’impresa. Nel momento in cui si verifica questa sovrapposizione, lo scopo ultimo di ogni azione è avere la conferma delle proprie convinzioni. Diventa prioritario, insomma, avere ragione.

In queste circostanze si attivano quei meccanismi mentali noti come profezia che si auto-avvera e bias di conferma. Nel primo caso si mettono in atto, inavvertitamente, comportamenti che alla fine rendono concreta la propria previsione. Nel secondo, in sintesi, si svalutano tutte le informazioni che non collimano con l’idea di partenza.

Anche in questo caso diventa prioritario, per la leadership, definire chiaramente gli obiettivi del cambiamento, quali comportamenti specifici – dei singoli o dei gruppi – devono essere modificati e come è opportuno modificarli. Tale specificazione è l’antidoto, anche, alla resistenza al cambiamento quando questo è inteso come esito di un fallimento.

Si delineano, perciò, le linee guida di una leadership flessibile, che è tale quando:

  • definisce chiaramente motivi e obiettivi del cambiamento;
  • individua i vari step del processo;
  • indica le modalità con cui metterlo in atto e le risorse da utilizzare;
  • si focalizza sui punti forti dei singoli e del collettivo;
  • monitora il processo nelle sue varie fasi, senza giudizi ed interpretazioni;
  • partecipa essa stessa al processo di cambiamento.

 

Articolo a cura di Alfonso Falanga

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