Tra il personale e il professionale: perché, nel lavoro, è bene non essere sé stessi

L’enfasi sull’elemento personale rischia di produrre a medio e lungo termine un calo della performance, individuale e di gruppo, apparentemente inspiegabile. Lo si attribuisce, in genere, a una flessione della spinta motivazionale, a un calo di interesse verso il proprio lavoro, a un mancato senso di responsabilità professionale. Si confondono questi eventi, che sono effetti, con le cause del problema.

Decenni di enfatizzazione – in ambito aziendale – delle spinte motivazionali, del “volere è potere!”, del “ci devi credere!” e “insegui i tuoi sogni!”, hanno generato in molti settori l’assunto che il lavoro ben fatto abbia come premessa privilegiata la dimensione personale e ciò a scapito del metodo, del sapere, della competenza.

È indubitabile che l’elemento caratteriale abbia il suo valore. È altrettanto certo che a ogni professionista faccia bene, di tanto in tanto, sentire un bel “dai, che ce la fai!”. È quel genere di esortazione che, in Analisi Transazionale, viene definita “carezza positiva incondizionata”. E come diceva Eric Bern, che ne fu il fondatore, le carezze aiutano l’individuo a stare con la schiena diritta.

I cali produttivi inspiegabili: che c’entra la dimensione personale?

Il fatto è che l’enfasi sull’elemento personale rischia di produrre a medio e lungo termine un calo della performance, individuale e di gruppo, apparentemente solo in apparenza. In questi casi l’origine dell’evento viene indicato in una flessione della spinta motivazionale, in un calo di interesse verso il proprio lavoro, in un mancato senso di responsabilità professionale. Si confondono queste dinamiche, che sono effetti, con le cause del problema. Ed ecco che si procede con nuove e più vigorose iniezioni di motivazione, di “ci devi credere!” ecc. Non facendo altro che dare nuova linfa alle origini stesse del calo di performance.

Il rischio è ancora più alto in questo momento storico-sociale in cui la collettività intera è alle prese con il problema sanitario e, di conseguenza, molti vivono uno stato di incertezza in merito al proprio destino, se non privato, certamente professionale. È un momento in cui l’elemento personale è già di per sé indebolito da una condizione ansiogena latente, causa spesso di deconcentrazione e demotivazione che non trovano spiegazioni chiare e immediate.

A questo si aggiungono pregiudizi ormai sedimentati in una quota considerevole dell’immaginario sociale, secondo cui:

  • la pratica vale più della teoria, a cui si associa il motto secondo cui un conto è la teoria, tutt’altra cosa è la pratica sul campo;
  • ciò che conta è l’esperienza, intesa come numero di anni accumulati in quella medesima mansione e non necessariamente come competenza e conoscenza che, originata dalla pratica in un settore, è esportabile in altri settori;
  • se non hai svolto un lavoro, non lo puoi capire (per la serie io sono uno di voi) …dimenticando che, se non ha svolto quel lavoro, lo puoi studiare, osservare, approfondirne le dinamiche forse con maggiore intensità rispetto a chi vi è coinvolto direttamente (e poi, per risolvere i miei problemi, non mi rivolgo a uno come me bensì a qualcuno diverso da me, semmai migliore di me)

e quant’altro vada a corroborare la generale svalutazione, ormai fenomeno/problema di portata sociale, dello studio e dell’apprendimento. Da cui deriva la svalutazione di un metodo, di una strategia, del valore dell’impegno ad apprendere.

Il rischio generato, in azienda, dal clima familistico

Ciò che qui si intende sottolineare è che, quando il personale prevale sulla sfera professionale, accade che il compito assegnato venga svolto attraverso il ricorso agli automatismi comportamentali tipici della dimensione convenzionale, quotidiana, privata. Ovvero è forte il rischio, ad esempio, di relazionarsi a un cliente, a un collega oppure a un dipendente o al Team leader, come se ci si rivolgesse al vicino di casa o a un amico/familiare/conoscente.

Senza dimenticare che affidarsi all’elemento personale rischia di generare la dipendenza, più di quanto non sia lecito, dell’esito del proprio lavoro dalla condizione emotiva del momento. Dunque si lavora tanto, sì, ma affidandosi al caso.

Sfera privata e sfera lavorativa si confondono, anzi si fondono, con quel che ne consegue in termini di efficacia ed efficienza comunicativa, di concentrazione, di consapevolezza strategica. Di risultati. Il recente ricorso obbligato allo smart working (o meglio al working from home), ad esempio, ha messo in luce in modo eclatante i rischi di questa confusione.

Si genera, dunque, una mescolanza di ruoli, anzi i ruoli professionali sono del tutto bypassati: ciò può verificarsi, ad esempio, tra l’azienda e l’esterno (i clienti) e all’interno della stessa azienda (tra Team leader e operatori, tra Management e Team leader). Si afferma così, in azienda, come accennato, una dimensione familistica che rischia di rallentare i ritmi della produzione: basti pensare alle inutilmente lunghe e logoranti riunioni di inizio settimana, o inizio mese, in cui tutti dicono la propria e alla fine si parla di tutto tranne che del motivo per cui aveva avuto inizio la riunione medesima.

E come sottolineato poc’anzi, in questo momento storico di generale incertezza il rischio di trovare conforto alle proprie ansie, manifeste e latenti, in un ambiente lavorativo accomodante è forte. Con ciò che ne consegue, però, in termini di risultati.

Che fare?

Bisogna essere allora rigidi, autoritari, distaccati, anaffettivi quasi?

Per niente. Ciò che conta è recuperare i confini di ruolo, ciò per ognuno dei membri della gerarchia organizzativa, e comunicare a partire dal ruolo, non dalla persona.

Ciò è tanto più necessario oggi. La confusione e l’incertezza necessitano di direttive chiare, autorevoli, funzionali alla realizzazione di obiettivi altrettanto chiari.

L’atteggiamento compiacente/compassionevole alimenta, invece, la confusione e l’incertezza.

La comunicazione a partire dal ruolo, al contrario di quello che in genere si ritiene, non è una comunicazione robotizzata, bensì è una comunicazione in cui la meta aziendale è sempre prioritaria. Sempre presente.

In ciò emerge più che mai il ruolo del leader e la sua responsabilità nell’orientare il gruppo verso l’obiettivo comune.

 

Articolo a cura di Alfonso Falanga

Profilo Autore

Formatore specializzato in Analisi Transazionale.

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