Clima organizzativo e leadership: dal successo del singolo alla forza del gruppo

“Un’analisi di clima è un po’ come guardarsi allo specchio: chi dirige un’organizzazione si specchia nell’immagine che il personale, rispondendo alle domande, fornisce dell’organizzazione stessa”.
Bolognini, L’analisi del clima organizzativo (2007)

La passione a volere ricercare il “vero”, il valore reale dei vocaboli, apre squarci inaspettati verso la conoscenza facendo scoprire l’intimo significato delle parole (dal greco ἔτυμος). Dall’etimologia [ἔτυμος + λόγος (studio)] si riceve spesso ausilio inaspettato verso la comprensione.

È così che prima di dedicare il nostro interesse di studio al concetto di “clima” nelle organizzazioni ci siamo imposti di comprendere [prendere con = avere piena consapevolezza] il significato di questo termine giungendo così alla sua vera radice, il verbo greco κλίνω, le molteplici traduzioni del quale affascinano non poco [inclino, piego, appoggio, accosto…] inducendo a ritenere, infine, che il termine, al di là delle costruzioni che lo hanno reso strategico, rispetto alla scienza della meteorologia, ha un imprescindibile collegamento con il valore dello “stare” in un luogo.
Da qui la profonda convinzione che il “clima” sia strettamente correlato al “benessere, vale adire allo “stare”…“bene”. “Elementary, my dear Watson” direbbe Sherlock Holmes, lo splendido personaggio dei romanzi di Arthur Conan Doyle.

Per questo il nostro desiderio di analizzare il tema del “clima organizzativo” intendendolo come assai prossimo, se non addirittura connesso, a quello del “benessere organizzativo”. Ancora verrebbe di ripetere la celebre frase di Sherlock Holmes, giacché “elementare” nel latino medioevale altro significato non ha se non “che riguarda gli elementi e la loro natura”.

Allora, ecco l’arcano: il “clima organizzativo” non può che riguardare la natura stessa di un’organizzazione, che come noto è costituita dai fini (obiettivi, strategie) e dalle risorse (materiali e immateriali), elementi su cui esercita una rilevante influenza l’ambiente (interno, operativo, esterno). Verso questi elementi gli studiosi della sociologia e della psicologia – al pari di quelli dell’economia, come pure dell’antropologia – hanno rivolto considerevole attenzione trascurando, invece, l’opportunità di un dovuto rilievo verso quello “stare” della organizzazione che, per quanto innanzi esposto, riteniamo di potere asseverare essere il “clima organizzativo”.

I primi autorevoli autori che hanno indirizzato il proprio interesse a questo elemento dell’organizzazione compaiono nel 1939.

All’esito della ricerca svolta presso la Iowa Child Welfare Research Station con l’intento di accertare il rapporto esistente tra il raggiungimento di un obiettivo lavorativo (la realizzazione maschere teatrali da parte di due differenti gruppi di scolaresche composte da ragazzi dai dieci agli undici anni) e le diverse atmosfere determinate dai leader dei rispettivi gruppi, infatti, Kurt Lewin, Ronald Lippitt e Ralph K. White[1] giunsero ad affermare che la combinazione strutturata di singole percezioni, frutto di relazioni ed esperienze maturate dalle persone che operano in un’organizzazione, costituisce il “clima” dell’organizzazione stessa.

Ma il vero merito di avere collegato il “clima” agli effetti che esso può avere con riguardo al servizio ai clienti rilevando nel contempo il valore del potere (quindi della forza, dell’autorità) insito nella organizzazione, rispetto ad esso, va riconosciuto a Benjamin Schneider, David E. Bowen, Mark G. Ehrhart e Karen M. Holcombe[2]. Il loro lavoro ha certificato il ruolo delle persone, dei singoli individui, nel processo di costruzione del “clima organizzativo” e ha portato ad evidenziare l’intimo collegamento tra le azioni poste in essere dal “leader” ovvero da chi gestiste la organizzazione e le persone che in essa operano; dal che, l’evidente conclusione che “clima organizzativo” e “leadership” restano il connubio inscindibile per rendere possibile il successo di una organizzazione.

A conferma di questa affermazione basti il contributo di Douglas McGregor, che nei suoi studi sulla teoria X e teoria Y[3] si sofferma sul contributo dei capi nel generare quello che egli definisce “managerial climate[4]. Per le persone al lavoro, come sostengono Gian Piero Quaglino e Mauro Mander, il “clima” è l’insieme delle percezioni soggettive, socialmente condivise il cui contenuto riflette sensazioni, vissuti e stati d’animo presenti nelle relazioni tra gli individui e l’organizzazione stessa[5].

Senza scomodare ulteriori menti, risulta di tutta evidenza come “clima” e comportamento organizzativo, vale a dire l’insieme delle esperienze vissute e dei processi mentali individuali (con riguardo alle persone al lavoro) siano un tutt’uno. Molti manager, purtroppo, continuano in modo errato a convogliare le loro energie principalmente verso il registro produttivo della organizzazione manifestando riluttanza e – talvolta – persino negando la presenza del registro psicologico; le difficoltà che essi incontrano nel riconoscere i problemi connessi al clima sembrano riflettere la loro incapacità di ricondurre compiutamente all’uno o all’altro registro[6].

Per la gestione del “clima organizzativo” il manager potrà disporre degli ordinari strumenti utilizzati per il governo dei fenomeni socio-organizzativi.

Si tratta quindi di mettere mano alla struttura, vale a dire al coordinamento tra i ruoli e le funzioni: insomma curare l’anatomia della organizzazione (si pensi ad esempio alla enfatizzazione dei ruoli nel caso si scelga una struttura di tipo divisionale ovvero alla cooperazione tra gli individui laddove si sia optato per una struttura a matrice). Altro strumento essenziale di gestione è costituito dal reclutamento, che deve consentire la scelta delle persone avendo riferimento anche alle caratteristiche attitudinale e ai comportamenti, che devono essere quanto più possibile congruenti con gli indirizzi di sviluppo scelti dal management. Al reclutamento si collegano, da un lato, la valutazione come opportunità per correggere i comportamenti, individuando quelli che potenzialmente siano più funzionali vieppiù se non ancora utilizzati, dall’altro, gli strumenti di incentivazione come le dinamiche retributive piuttosto che la mobilità o le opportunità di carriera.

Ma la chiave di volta della gestione del “clima organizzativo” è costituita senza ombra di dubbio dalla formazione, che va indirizzata verso la sensibilizzazione delle persone e l’accrescimento della consapevolezza dei propri carismi e competenze alla stregua di un processo eudemonico in grado di dare senso alla presenza delle persone al lavoro, che dunque percepiranno pienamente l’essere parte integrante nella organizzazione e, ancora di più, valorizzate in quanto tali e non perché strumento immateriale. Rispetto a questo percorso virtuoso gioca un ruolo di primo piano l’utilizzo della comunicazione intesa quale canale per alimentare le relazioni istituzionali coinvolgendo le persone, che acquisiscono piena identità e assumono un ruolo da negoziatore; il tutto a vantaggio della immagine dell’organizzazione, che sicuramente è in grado di restituire identità organizzativa, presupposto irrinunciabile per la “dichiarazione di esistenza in vita” della organizzazione (e della sua buona salute)[7].

A questo punto si converrà agevolmente che il tema della leadership diventa strategico ed essenziale al buon andamento di qualsivoglia organizzazione[8].

Studi condotti su gruppi sperimentali hanno dimostrato che, rispetto al ruolo di management, quasi mai i due tipi di attività riescono ad essere controllati o svolti al meglio dalla stessa persona; per ogni gruppo è possibile operare una distinzione tra il leader strumentale (lo specialista delle idee) e il leader espressivo (lo specialista della simpatia)[9].

Da queste ricerche emerge un modello di leadership a due: un leader provvede alle esigenze lavorative del gruppo; l’altro alle esigenze emotive. Ma l’aspetto più rilevante, messo in luce anche da ricerche successive, è il fatto che tra i due leader si forma una coalizione implicita, appunto perché entrambe le dimensioni di cui si fanno portavoce sono indispensabili al successo organizzativo[10].

La letteratura che contempla le qualità necessarie per fare di un capo un buon leader si arricchisce così di nuovi elementi, spostando l’attenzione da forme di potere autoritario all’importanza di qualità più soft, quali ad esempio una buona comunicazione tra il leader e il suo gruppo. È proprio la capacità di comunicare bene con il gruppo che rende possibile il raggiungimento di qualsiasi obiettivo. Quindi i primi passi che un leader deve compiere sono:

  • fare della comunicazione una priorità assoluta;
  • aprirsi ai collaboratori;
  • creare un ambiente positivo per la comunicazione.

Un buon leader deve essere un esempio, un professionista motivato, perseverante, assertivo dal momento che la leadership si fonda sulla capacità di influenzare gli altri e motivarli a lavorare, per conseguire gli obiettivi generali dell’organizzazione, oltre che i propri obiettivi particolari.

Resta una convinzione piuttosto diffusa che la leadership sia una qualità innata, richiesta solo alle persone che all’interno dell’azienda ricoprono le posizioni di vertice. Invece, è possibile sviluppare una leadership a tutti i livelli dell’organizzazione, come si è provato a chiarire in precedenza, citando il complesso rapporto tra autorità ed autorevolezza. Pertanto, la leadership non può essere in nessun caso imposta, ma deve sempre essere riconosciuta dagli altri. Soltanto in tal caso, allora, si può dire di essere leader di un gruppo, altrimenti ci si limita ad essere un capo.

La distinzione tra leadership formale e informale si ricollega, per taluni aspetti, a quella tra il leader imposto dall’esterno, il capo gerarchico, e il leader espresso dall’interno, ovvero il trascinatore, il “profeta”.
In larga misura, si riprende qui la differenziazione tra la headship e la leadership, distinzione che rimanda alla differenza tra autorità e autorevolezza. Mentre la leadership si basa su una concessione di potere da parte dei subordinati, che riconoscono in una persona il proprio punto di riferimento, la headship si fonda sulla successione del potere, tramite la nomina attraverso un ristretto numero di votanti[11]. Parlando di headship facciamo pertanto riferimento a una forma di leadership intesa come fenomeno-funzione, ovvero concentrata esclusivamente sugli aspetti burocratici dell’organigramma e finalizzata al raggiungimento degli obiettivi prestabiliti. Tale prospettiva si discosta molto dal modello di leadership inteso in termini informali, non burocratici, strettamente collegata ad una gestione del potere di tipo carismatico.

Il problema eterno per chi dispone di headship è quello di dare corpo al simulacro, di riempire di sostanza informale il proprio ruolo, di conquistare, accanto alla nomina del ruolo, almeno un parziale consenso dei subordinati, per trasformare la legittimazione della guida del gruppo da legale in reale[12].

Molte sono le sfumature sufficienti a modificare comportamenti e clima organizzativo, atteso che la considerazione di cui gode il capo all’interno di un’organizzazione è importantissima e in grado di influenzare l’atmosfera e la produttività organizzativa.

«Un individuo la cui posizione non sia riconosciuta o che non viene considerato esperto in un certo settore avrà molte più difficoltà nel convincere i suoi ascoltatori della bontà e giustezza del suo suggerimento di quanto ne avrà, invece, colui che possiede credenze di esperto»[13].

Assumere il ruolo di capo presuppone quindi la conoscenza del contesto nel quale si lavora, la fiducia nelle competenze possedute e la consapevolezza del proprio atteggiamento nei confronti dei collaboratori ma, anche, la capacità di farsi ascoltare senza ricorrere a sanzioni o punizioni.

 

Note

[1] Lewin K., Lippitt R., and White R. K., “Patterns of Aggressive Behavior in Experimentally Created ‘Social Climates'”, Journal of Social Psychology, 10 (1939): 271–99.

[2] Schneider B., Bowen D. E., Ehrhart M. G., Holcombe K. M., “The climate for service : evolution of a construct”, Handbook of organizational culture and climate. – Thousand Oaks, California (2000): 21-36.

[3] McGregor D. M., L’aspetto umano dell’impresa, Franco Angeli, Milano, 1972.

[4] In estrema sintesi McGregor sostiene che la gran parte delle soddisfazioni che il dipendente ricava dalla sua vita lavorativa dipende dal rapporto che il diretto superiore è capace di instaurare con lui. Questo rapporto a sua volta, viene determinato dalla visione che il superiore ha della natura umana. I capi, secondo l’autore, mettono in campo comportamenti che riflettono le proprie convinzioni sulla natura delle persone che, inevitabilmente, condizionano i rapporti che essi instaurano con i collaboratori.

[5] Quaglino G.P., Mander M., I climi organizzativi, Il Mulino, Bologna, 1987.

[6] Bochicchio F., Di Sabato T., Lineamenti di organizzazione e gestione delle risorse umane, MoviMemdia, Lecce, 2007.

[7] Tanccredi M., “Ipotesi di un’ecologia aziendale”, in Studi Organizzativi 1990, n. 2, pp. 261-271.

[8] De Giosa V., La leadership, Carocci, Roma, 2010.

[9] Cfr. Smelser N. J., Manuale di sociologia, Il Mulino, Bologna, 1987, p. 151 nel quale si riportano i risultati degli esperimenti condotti da Bales e Slater nel 1955, i quali formarono un certo numero di piccoli gruppi di studenti. Ogni gruppo, fingendo di essere un’équipe di amministratori che doveva assumere una decisione, doveva incontrarsi ripetute volte. Dopo 40 minuti di discussione i ricercatori chiedevano al gruppo, che nel frattempo veniva osservato attraverso uno specchio a due vie, di prendere una decisione collettiva. Ciò che emerge dalla ricerca è la comparsa di due specialisti: un leader strumentale (lo specialista delle idee) e un leader espressivo (lo specialista della simpatia), non coincidenti tra loro.

[10] Cfr. Philips M., Small Groups in England, Methuen, London, 1965.

[11] Cfr. Bellandi G., Il talento del leader. Crescere nella vita professionale e personale attraverso una leadership etica e responsabile, Franco Angeli, Milano, 2006, p. 31.

[12] Cfr. Trentini G., Oltre il potere. Discorso sulla leadership, Franco Angeli, Milano, 1995, pp. 38-39.

[13] Simon H. A., Il comportamento amministrativo, il Mulino, Bologna,1967, p. 204.

 

Articolo a cura di Vanessa De Giosa e Tommaso Di Sabato

Profilo Autore

Dottore di ricerca in Sociologia e docente a contratto di Sociologia del lavoro e delle organizzazioni presso l’Università del Salento, si occupa anche di cultura e comunicazione, svolgendo attività di studio su teorie organizzative e metodologie della ricerca.
Attualmente Capo Ufficio Piani Formazione e Sviluppo competenze, è stata nominata componente di UniSalento in seno all’assemblea del Consorzio Interuniversitario sulla Formazione CO.IN.FO.

Profilo Autore

Docente presso la Scuola di Alta Formazione della UNINT- Roma e Collaboratore del Consorzio Interuniversitario sulla Formazione – Torino.
Già Direttore vicario della Ripartizione Risorse Umane di UNISALENTO e Professore a contratto dei Corsi di Laurea in Scienza dell'Amministrazione - Facoltà di Giurisprudenza di UniTELMA – Roma.

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