Come Cambia la Formazione Aziendale

Sebbene sulla formazione aziendale sia stato detto moltissimo e fiumi di libri siano stati scritti negli anni su metodologie didattiche vecchie e nuove, teorizzate e applicate, c’è in realtà sempre da capire e valutare questo tema, soprattutto quando tutto intorno e dentro le aziende si modifica quotidianamente. AIF (associazione italiana formatori) e AIDP (associazioni italiana per la direzione del personale) si interrogano insieme su quali cambiamenti sono in atto, ritenendo che la formazione ha ancora tanto da dire, che resta uno straordinario strumento che rinnova se stessa e le organizzazioni nelle quali viene utilizzata. La formazione resta oggi lo strumento che risponde meglio ai bisogni di cambiamento dell’individuo, delle organizzazioni, della società. La formazione continua ad essere uno dei pochi strumenti che mantiene nel tempo l’employability delle persone, aiutandole a stare nel mercato del lavoro o ad entrare in esso e contrastando la velocissima obsolescenza delle competenze; la formazione continua ad essere oggi la protagonista delle politiche attive del lavoro ed è la protagonista del processo di inserimento dei migranti nella nostra società.

Allora ci siamo chiesti come sta cambiando oggi la formazione?

Proviamo a capirlo non da studi o riflessioni di altri ma andando noi stessi a “guardare in giro”. L’AIF Puglia e l’AIDP Puglia si sono interrogate al proprio interno, coinvolgendo poi l’Università. Abbiamo fatto alcune ipotesi. Ne è nato quindi, circa un anno fa, un progetto di ricerca sul campo che abbiamo successivamente implementato. Abbiamo usato una metodologia adattata alle necessità, incrociando due metodi: il metodo Delphi semplificato in base al quale abbiamo interpellato in forma separata e anonima diverse persone competenti (accademici, imprenditori, manager d’aziende manifatturiere, di banche, di società di servizi, di enti di formazione). Poi abbiamo fatto una verifica dei dati raccolti con un focus group più ristretto, per poter rielaborare tutti gli aspetti emersi. Ne abbiamo ricavato un quadro ricco e diversificato, uno scenario di luci ed ombre, opportunità e minacce che qui tenteremo di sintetizzare in una serie di punti specifici.

  1. Un primo aspetto trasversale è relativo al fenomeno recente (ultimi 5-8 anni) della forte diminuzione di formazione realizzata all’interno delle aziende per il proprio fabbisogno. Oggi quasi tutta la formazione aziendale è quella finanziata dai fondi interprofessionali o dai bandi europei; la formazione autofinanziata dalle imprese, un tempo preminente si è ridotta quasi a zero per effetto dei tagli e compressione costi, Ciò comporta la conseguenza che le tematiche della formazione aziendale vengono orientate dall’esterno in base alle politiche elaborate altrove e non orientate dall’interno in base ai reali fabbisogni formativi delle organizzazioni. Si tratta spesso di realizzare corsi su temi di moda, “a ondate”, del tipo l’internazionalizzazione, il marketing digitale e oggi l’onnipresente Industry 4.0.

 

  1. Un secondo aspetto è quello relativo al cambiamento delle figura di chi gestisce i processi formativi. La figura del formatore sta cambiando: docenti sempre più quasi colleghi dei partecipanti, consulenti quasi docenti che tendono a confondersi e ad alternarsi sempre più. La differenza di status gerarchico- organizzativo si perde, la differenza di competenze si assottiglia perché anche i discenti sono in grado di insegnare molte cose ai docenti e lo fanno, l’informalità è sempre più la principale modalità di comportamento. Il linguaggio si semplifica. In merito ai contenuti corsuali, le teorie elaborate dall’accademia vengono sostituite da approcci concreti, più operativi, più rispondenti alle esigenze contestuali dei partecipanti. Il cliente interno della formazione è il partecipante, verso il quale flettere e orientare “in itinere” i contenuti proposti, anche a rischio di sconvolgere le scalette didattiche o le agende corsuali. Le metodologie diventano sempre più interattive e coinvolgenti (l’aula tradizionale accanto a nuovi strumenti in modo stratificato).

 

  1. I millennians: La generazione dei nati dopo il 1990 (i c.d. Millennials, Generazione Zero o quant’altro) stanno crescendo e influenzeranno sempre più i processi organizzativi e formativi. Cominciano ad entrare a lavorare nelle imprese emettendo segnali forti e di tipo nuovo. Entro il 2025 rappresenteranno il 75% della forza lavoro mondiale. Essi sono i nuovi protagonisti del mercato del lavoro. Sono nativi digitali, con competenze digitali di gran lunga superiori a chi li ha preceduti solo pochi anni fa; l’80% di loro possiede uno smartphone, una console ed un laptop; sanno raccogliere e gestire informazioni ovunque, dispongono di “data base” enormi. Hanno una straordinaria abilità e velocità di comunicazione sui social. Sono portatori di nuove esigenze e nuovi comportamenti: vogliono garantirsi tempo per se stessi e non sono disposti a fare sacrifici, curano molto gli aspetti estetici, sono molto attenti al ruolo professionale che potranno avere in azienda e al proprio livello di coinvolgimento, vogliono essere ascoltati e interpellati. Una volta assunti, bisogna poi saperli trattenere (e bisogna farlo molto velocemente perché cambiano idea e colgono nuove opportunità molto rapidamente). Servono nuovi modi per motivarli ed ingaggiarli sul lavoro. Nessuno oggi, e tanto meno loro, pensano di restare con lo stesso datore di lavoro tutta la vita (tanto più che oggi le carriere monoaziendali sono malviste anche dai selezionatori). Non riconoscono l’autorità e gerarchie bensì l’autorevolezza e la coerenza. Non hanno avuto o vissuto conflitti generazionali, hanno avuto percorsi facili nel periodo economico precedente alla crisi, sono quindi tendenzialmente sicuri di se stessi e consapevoli del loro valore sul mercato del lavoro. Quindi formare i millennials sarà più difficile. Bisogna selezionare metodi e approcci formativi nuovi. Infine, come si è riscontrato dalla survey realizzata, i millennials stanno avendo l’effetto di spingere le organizzazioni verso la meritocrazia, la coerenza e l’etica.

 

  1. Aged people/workers: bisognerà fare grandi sforzi per “acculturare” i lavoratori delle generazioni precedenti a quella dei millennians, piuttosto carenti di conoscenze informatiche e digitali. I cosiddetti “aged people” (gli ultracinquantenni per intenderci) rappresentano oggi una fetta notevole di forza lavoro attiva. Sono più garantiti e meglio pagati degli altri ma spesso poco duttili e poco flessibili professionalmente. Per molte aziende sono percepiti come un’area lavorativa tendenzialmente a bassa produttività (specie nella P.A.). Bisogna operare con massicci interventi formativi mirati e ben pianificati per riqualificarli e consentire loro di valorizzare la ricca esperienza acquisita. Gli aged workers sono portatori di esperienza, quindi come fare reverse mentoring con i Millennians? Ci sono già le prime bellissime esperienze formative in tal senso.

 

In ambito formativo quello che oggi sta incidendo maggiormente è probabilmente l’impatto dei cambiamenti digitali (la cosiddetta Digital transformation) e allora è opportuno dedicare attenzione al fenomeno analizzando questa dimensione, interrogandoci su quali impatti tutto ciò ha sulla formazione.

La CULTURA della DIGITAL TRASFORMATION

Nei film degli anni 70/80 si annunciavano le tante cose che sarebbero accadute poi, un modo futurista e futuribile impregnato di tecnologie, di macchine intelligenti e interattive, bene: oggi quel mondo ipotizzato è arrivato, è qui; che ci piaccia o meno, dobbiamo sempre più farci i conti. Gli investimenti in tecnologie e digitalizzazione di prodotti e processi aumentano progressivamente in portata e frequenza. Gli impatti saranno sempre più estesi: basti pensare alla diffusione dello Smartworking e flexible working, oggi anche presente nella recentissima normativa nazionale e nei contratti sindacali, che mette in discussione la forma stessa del rapporto di lavoro legandolo ad attività finalizzate e circoscritte.

Nelle valutazioni degli esperti che abbiamo interpellato c’è la presa d’atto dell’importanza delle nuove tecnologie e della D.T. nella vita quotidiana delle imprese, il loro impatto è sempre più irruento, pervasivo, sta cambiando e cambierà in poco tempo il modo di organizzare il business e il modo di lavorare. Ciò comporta non solo un FARE DIGITALE ma un PENSARE DIGITALE.

La trasformazione digitale non solo impatta le competenze da sviluppare in azienda ma anche sul modo stesso di fare e intendere la formazione. Bisogna però prima di tutto partire dalle attività formative “di governo e gestione” degli elementi chiave della vita organizzativa, scindendo queste dalle opportunità tecnologiche, ovvero l’insegnare a usare nuovi strumenti just in time/everywhere, quelli di comunicazione informale e così via.

Lo scenario generale che emerge dalle valutazioni degli esperti è di duplice valenza. Da un lato essi dicono che la digital trasformation è necessaria, inevitabile, con grandi opportunità e potenzialità positive (dirompente anche nell’ambito nei processi formativi), dall’altro lo scenario comporta ombre da non trascurare.

  1. L’uso della tecnologia senza un disegno progettuale a monte del fabbisogno reale e preciso dell’organizzazione ha portato e porterà la moltiplicazione dei problemi interni invece che la loro risoluzione. Manca spesso la capacità di governare, di indirizzare i processi di cambiamento. Se aggiungiamo l’incapacità e l’inadeguatezza delle persone che devono implementarle a valle, gli insuccessi e le frustrazioni sono quasi certi. Spesso, nella prassi, i nuovi progetti di D.T. rallentano l’operatività e devono essere riavviati con un ripensamento dei processi chiave dell’organizzazione. L’apprendimento organizzativo può essere largamente migliorato dalle tecnologie laddove il governo dei processi “core” sia stato pensato e progettato correttamente, a monte dell’uso degli strumenti. L’uso di tecnologie senza visione sistemica e ben finalizzata può addirittura essere controproducente. L’impiego delle tecnologie senza una adeguata formazione è rischioso.

 

  1. Il sistema industriale italiano e ancor più quello locale non è ancora pienamente consapevole e quindi pronto a gestire questo tipo di processo innovativo. Non c’è oggi il senso dell’importanza e dell’urgenza verso la D.T.; il distacco aumenta progressivamente fra imprese italiane e resto del mondo avanzato; nelle PMI troviamo ancora atteggiamenti scettici, attendistici o addirittura fatalistici. C’è poca capacità di andare verso le nuove tecnologie, non come “moda”, ma come fattore strategico per la sostenibilità delle imprese, poca capacità implementativa per sfruttare tutto ciò sul piano della competitività internazionale. La gestione di tale complessità non può essere confinata alla sola funzione IT, ma diventa obiettivo primario per tutta l’azienda, come fatto trasversale, ancor più, culturale generalizzato.

 

  1. Per muoversi in questa direzione le organizzazioni necessitano di leaders con una chiara visione di come sia possibile sviluppare, applicare e gestire le tecnologie digitali per ottenere un vantaggio competitivo reale. Migliorare competitività e performance aziendali significa avere nuovi leaders (E-LEADER) non necessariamente informatici, che necessitano di integrare soft skill e conoscenze tecniche, che abbiamo la cultura della sperimentazione continua, del “tenta, sbaglia e riprova”, la cultura del rischio, la tolleranza all’errore.

 

Gli e-leader non sono necessariamente degli esperti IT, ma delle figure in grado di integrare le diverse competenze presenti in azienda (competenze di IT management, competenze di management, di relazioni complesse e architetture aperte, competenze di dominio e di contesto e soft skills) al fine di muovere l’organizzazione verso la trasformazione digitale desiderata.

Questi soggetti potranno supportare lo sviluppo della digital transformation anche mediante nuovi percorsi di formazione,

I nuovi strumenti di formazione. La trasformazione digitale dei processi formativi dovrà includere:

  • la digitalizzazione dei contenuti formativi in formati accattivanti e coinvolgenti, compatibili per una fruizione su dispositivi mobili, in modo da facilitare l’accesso alle conoscenze just in time, in qualunque luogo e momento;
  • tecniche di gaming per aumentare il coinvolgimento emotivo e la motivazione degli utenti finali;
  • piattaforme di knowledge management che favoriscano l’apprendimento collaborativo, la creazione di comunità di pratica e l’apprendimento informale;
  • formazione e-learning che permette di separare contenuto da interrelazioni, in modo da ottimizzare i due distinti aspetti.

Avremo quindi l’aumento dell’utilizzo di piattaforme e-learning popolate con videolezioni e webinar, learning objects, giochi interattivi, a partire dai quali si può raccogliere il pensiero di ogni discente tramite forum con thinking types, chat, lavori collaborativi, per una creazione condivisa di conoscenza ed esecuzione collaborativa di task lavorativi.

A proposito di video-lezioni che sono state le prime ad annunciare la Dig Tr: nella formazione, alcuni esperti dicono che da essere il “cuore” della formazione a distanza stanno diventando lo strumento a minor valore aggiunto proprio perché impediscono l’interazione sincronica e diacronica. Inoltre, se non aggiornate con frequenza, rischiano di apparire desuete, “vintage”.

Per concludere, riteniamo infine che i centri di formazione e i formatori professionisti possono giocare un ruolo rilevante nei cambiamenti in corso. I centri di formazione possono e devono giocare un ruolo più avanzato in questo momento di transizione, un ruolo “faro” verso l’innovazione. Essi devono seguire l’evoluzione delle nuove metodologie formative per poterle poi diffondere alle PMI del territorio, ma anche nel sistema scolastico. I formatori possono contribuire a ridurre il crescente distacco fra PMI italiane e quelle dei paesi avanzati. Questo, riteniamo, sia il compito che devono ritagliarsi le istituzioni formative, sia pubbliche che private, se vogliono garantire l’innovatività del proprio messaggio (offerta di business).

A cura di: Vito Carnimeo

Profilo Autore

Esperienza ventennale di direttore del personale in quattro aziende, una esperienza di direzione generale e di amministratore delegato. A lungo consulente direzionale per decine di imprese nell'ambito del cambiamento gestionale, passaggio generazionale. Docente a cattedra per l'università di Bari in Organizzazione aziendale, Gestione del personale, soft skills.

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