Piano Impresa 4.0 – trasformazione del lavoro, formazione, occupazione e crescita

Che il Piano nazionale abbia portato buoni risultati è un dato di fatto. Una spinta considerevole in termini di innovazione è stata data dagli investimenti in “macchinari e altri apparecchi” che le imprese hanno realizzato cavalcando l’onda degli incentivi legati alle misure del super e iper ammortamento e della c.d Nuova Sabatini.

Dalla recente presentazione dei risultati 2017 del Piano Industria 4.0 – ora “Piano Impresa 4.0” – è emerso che, grazie a questi strumenti, gli ordinativi interni sono cresciuti dell’11%, con picchi del +13% per macchinari e +7% per apparecchiature elettriche, cifre che si attestano sui livelli massimi del 2010, facendoci vantare 10 punti di crescita in più sui macchinari rispetto ai cugini tedeschi. Anche l’andamento della spesa in Ricerca, Sviluppo e Innovazione 2017 registrato da Unioncamere a confronto rispetto all’anno precedente, sorretta dal credito d’imposta sugli investimenti strumentali, ha visto 11.300 imprese aumentare tale spesa, in media del 10-15% rispetto allo scorso anno, considerato che nel 2016 ben 4.500 imprese non hanno investito affatto in R&S.

Una reazione c’è stata e la direzione intrapresa è certamente positiva. Alcune incognite certamente restano; viene da chiedersi, ad esempio, se gli investimenti effettuati siano stati frutto di un mero restyling o rappresentino, come si auspica, primi passi verso un percorso di trasformazione tecnologica sistemica e profonda che investa non solo la parte strumentale ma i modelli organizzativi e produttivi e soprattutto la sfera delle risorse umane.

Il rischio è quello di “avere una Ferrari e non saperla guidare”.

La vera innovazione sarà data dalla trasformazione del lavoro che va accompagnata, senza strappi, verso la “sua” dimensione 4.0.

Lasciando perdere i noti studi, le cifre gettate al vento e le riflessioni spesso catastrofiche sul pericolo della c.d. “disoccupazione tecnologica” che, a dire di molti, aleggia all’orizzonte, è certo che il lavoro cambierà volto nei tempi, modi, nella tipologia di mansioni e con professioni del tutto nuove che si affacceranno sul mercato del lavoro.

Tutto il sistema/ecosistema che ruota intorno è chiamato a prenderne atto e armonizzarsi il più rapidamente possibile. La posta in gioco è notevole. Un ritardo eccessivo potrebbe far perdere all’Italia un treno importante verso la ripresa e – finalmente – la crescita: la svolta che il Paese attende da tempo nella modernizzazione del mercato del lavoro.

La criticità più forte che si frappone all’obiettivo è il gap di competenze digitali che contraddistingue la forza lavoro nostrana, causa principale del forte disallineamento tra domanda e offerta. Questo il vero tallone d’Achille.

I dati 2017 parlano chiaro. Sul piano delle competenze 4.0 l’Italia sconta uno skill mismatch notevole: solo il 29% di high skills digitali rispetto alla media europea del 37% (dati Eurostat 2016) e un gap di 3,4 punti percentuali rispetto alla media dell’Ue per quanto riguarda la partecipazione dei lavoratori – di età compresa tra i 24 e i 65 anni – ai corsi di formazione.

Con Industria 4.0 il quadro si è aggravato e ampliato: secondo i dati Eurostat 2017 il vacancy rate di Eurolandia (rapporto tra vacancies e posti di lavoro disponibili) è ai massimi storici, l’1,9%, con una disoccupazione non certo ai minimi. La situazione italiana rispecchia in pieno questo trend negativo: un livello di vacancies pari all’1% nel terzo trimestre 2017 con una disoccupazione al 10,6%. Nei prossimi 5 anni dovrebbero esserci oltre 200.000 richieste di personale ad elevata specializzazione e l’offerta potrebbe non riuscire a tenere il passo.

Anche il Governo si è finalmente reso conto della gamba zoppa del Piano Nazionale – la formazione 4.0 – e ha pensato di farvi fronte introducendo, tra le altre misure, in via sperimentale per il 2018, tramite la Legge di Bilancio, il credito d’imposta 4.0 a favore delle imprese che effettuino spese in attività di formazione nel periodo di imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2017. Anche questo è certamente un primo passo ma troppo timido.

Da sola tale misura, tra l’altro anche sperimentale, non può certamente rappresentare il cambiamento necessario per la vera svolta sul versante della formazione e delle competenze. Gli strumenti vanno resi strutturali e organizzati in chiave sistemica con obiettivi chiari e definiti.

Il riequilibrio del divario sulle competenze deve partire dalle radici ossia dalla riforma del sistema educativo/scolastico italiano, un sistema che viri verso il modello duale tedesco in cui i due mondi, scuola e impresa “dialogano” costantemente e si contaminano a vicenda, utilizzando come leve l’apprendistato (I° e III° livello) e l’alternanza scuola-lavoro rispetto al quale, dopo tanti claim, siamo, in concreto, solo alle prime mosse. La relazione tra questi due attori se ben strutturata consente la maturazione di quelle competenze digitali e specialistiche in grado di governare la trasformazione tecnologica e i processi correlati. Solo integrando, fin da subito, la formazione teorica con quella on the job è possibile costruire, passo dopo passo, il lavoratore del domani, renderlo occupabile in prospettiva e garantendogli una sorta di credito sul suo futuro lavorativo.

Altro gap risiede certamente nella carenza nostrana di ITS, solo un centesimo rispetto alla Germania. L’altra scommessa, pertanto risiede proprio nella crescita di tali Istituti tecnici, liberandoli dal pregiudizio culturale che li fotografa nel giudizio comune come percorsi di “serie B”; tutt’altro: proprio tali percorsi sono in grado di formare giovani altamente specializzati sul piano tecnologico con un tasso di inserimento nel mondo del lavoro dell’80% all’indomani del diploma.

A questo ovviamente si aggiunge l’istruzione permanente (life long learning), altra componente fondamentale per allineare le competenze dei lavoratori alle esigenze, sempre più mutevoli, del mercato del lavoro, assicurandosi occupabilità e spendibilità a 360 gradi.

Ma il motore sono i manager, per la cui diffusione andrebbero previsti incentivi ad hoc. L’approccio Industria 4.0 richiede un mix di competenze manageriali più articolato e con una forte propensione all’innovazione. In particolare, occorre intervenire prioritariamente nell’ambito della suddetta e-leadership: per riallineare la cultura manageriale e imprenditoriale all’era del digitale servono tanto le capacità di individuare e pesare le carenze più rilevanti quanto l’offerta di percorsi di aggiornamento in grado di colmarle e far sì che i manager di sempre divengano “e-Leader”, ossia “trascinatori di innovazione”. Questo soprattutto per le figure manageriali senior e per tutte quelle chiamate a confrontarsi con nuovi mestieri e nuove skills – dalla gestione della e-Reputation alle nuove forme di comunicazione, al teamworking, ecc…. Questi i paradigmi della leadership del futuro.

Dunque investimenti sulle competenze – oltre e più che sulle tecnologie – per imparare a gestire il cambiamento in chiave digitale. Questo il leitmotiv alla base dell’iter tracciato, una strada da percorrere con costanza e convinzione affinché il combinato disposto “industria 4.0, formazione, occupazione e crescita” non sia più un percorso a singhiozzo ma diventi sempre più una sequenza logica e naturale.

A cura di: Mario Cardoni

Profilo Autore

Direttore generale Federmanager

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