Il tempo del lavoro e il tempo della vita per vivere il lavoro. Una prospettiva filosofica del benessere organizzativo

“Voi potete comperare il lavoro di un uomo, la sua esperienza, i suoi consigli, ma non potrete mai comperare l’entusiasmo, l’iniziativa, la devozione del cuore, della mente, dell’animo. Queste cose le dovete meritare con la vostra lealtà verso di lui”.
Platone

Esiste una dimensione della vita dell’uomo che, collocata nel contesto lavorativo, viene considerata parte integrante di un processo produttivo all’interno del quale la persona che lavora viene considerata “risorsa”, parola la cui semantica, benché dal punto di vista connotativo puntualizzi un valore diverso da quello di lavoratore, semplifica la parte uomo nell’acronimo HR.

La locuzione “risorse umane” (Human Resource) viene usata nel linguaggio manageriale e dell’economia aziendale per indicare il personale che presta la propria attività lavorativa in un’organizzazione, considerato nei seguenti aspetti: insieme delle capacità, conoscenze, competenze possedute per le attività che svolgono o potenzialmente potrebbero svolgere; caratteristiche oggettive (età, titolo di studio), comportamenti organizzativi (assenteismo, turnover, stato delle relazioni interpersonali, ecc.) e, soprattutto, attese ed aspettative.

Come si potrà rilevare, i contenuti presi in esame sono misurabili solo prendendo in considerazione, come metodo di valutazione, il fattore umano.

Il fattore umano non è dunque solo un mezzo di produzione. Percorriamo con quattro mosse il pensiero filosofico che ha preso in considerazione l’uomo dal punto di vista della sua essenza.

Nella Politica (in greco, τὰ πολιτικὰ) Aristotele definisce l’uomo per natura, ovvero per nascita e per essenza, come politikòn zoòn, animale politico. Scopo e finalità proprio dell’uomo è quello di vivere in società, altrimenti, afferma perentorio Aristotele, non si tratterebbe più di uomo, ma di Dio o di belva. Questa tesi è sostenuta da una causa biologica che la motiva: solo gli animali e gli dèi sono autonomi, bastanti a se stessi, mentre invece gli uomini sono imperfetti, bisognosi di sostenersi a vicenda. Ne consegue una riflessione: non è pensabile un essere umano che sia al di fuori dell’ambito sociale, linguistico e razionale. Un “essere vivente” privo di tali facoltà non può essere umano.

“L’uomo è un animale sociale: tende per natura ad aggregarsi con altri individui e a costituirsi in società”.
Aristotele

Secondo Cartesio l’uomo ha coscienza di sé come essere pensante. L’essenza dell’uomo è la sola sostanza pensante. Con res cogitans si intende la realtà psichica a cui Cartesio attribuisce le seguenti qualità: inestensione, libertà e consapevolezza. La res extensa rappresenta invece la realtà fisica, che è estesa, limitata e inconsapevole, ovvero tutto ciò che è estensione materiale e movimento meccanico.

“Lo spirito umano, riflettendo su sé stesso, conosce di non essere altro che un elemento che pensa”.
Cartesio

Hobbes, contrariamente ad Aristotele, non pensa che l’uomo sia un animale politico-razionale per natura: anzi, ciò che caratterizza gli esseri umani nella loro costituzione originaria è semmai l’elemento della ferocia e dell’animalità. Secondo Hobbes, la natura umana è fondamentalmente egoistica, e a determinare le azioni dell’uomo sono soltanto l’istinto di sopravvivenza e quello di sopraffazione (homo homini lupus). Egli nega che l’uomo possa sentirsi spinto ad avvicinarsi al suo simile in virtù di un amore naturale. Se gli uomini si legano tra loro in amicizie o società, regolando i loro rapporti con le leggi, ciò è dovuto soltanto al timore reciproco.

“I patti senza la spada sono solo parole e non hanno la forza di difendere nessuno”.
Hobbes

Per Spinoza è importante che l’uomo riconosca sempre dove risiede la necessità naturale, e dunque anche nei propri impulsi ed emozioni. Conoscere ed accettare tale necessità è un atto della ragione, quello che viene definito amore intellettuale di Dio, perché riconosce le cose sub specie aeternitatis, nella loro assolutezza.

“Le azioni umane non vanno derise, compiante o detestate: vanno comprese”.
Spinoza

Per Schopenhauer tutta la realtà è riducibile alla volontà dell’uomo di vivere, dai gradi più bassi delle forze naturali a quelli più alti, celati nei processi del cervello inteso come mezzo della volontà che, proprio tramite il cervello, produce un mondo ordinato per meglio affermarsi.

“Tutta la mia filosofia si lascia riassumere in una frase: il mondo è la volontà che conosce se stessa”.
Schopenhauer

Per Nietzsche la volontà di potenza è l’intima essenza dell’essere e, dunque, anche dell’essere umano. La volontà di potenza intende ugualmente la vita in termini di autoaffermazione e propagazione, dirette però non tanto verso un fine quanto verso un perenne superamento, una libera produzione di sé. L’essere umano è il libero creatore di sé e del senso degli eventi, la sua è  una continua interpretazione dell’intera esistenza umana.

“Che cosa dice la tua coscienza? – «Tu devi diventare colui che sei»”.
Nietzsche

Kierkegaard propone la visione dell’essere umano esposto alla possibilità negativa, al nulla del suo progetto di vita, all’angoscia, alla disperazione, e proprio l’incertezza derivata dalla possibilità costituisce insieme la sua libertà, ma anche l’elemento paralizzante della sua esistenza.

“Il dubbio è la disperazione del pensiero, la disperazione è il dubbio della personalità; e per questo che tengo tanto alla determinazione della scelta”.
Kierkegaard

Il riconoscimento della propria individualità all’interno della società in cui si vive – e, quindi, anche in quella che si colloca nell’ambito lavorativo – può avvenire solo da parte della collettività riguardo alla validità del proprio progetto di vita, personale o cooperativo. Per la persona umana la vita sociale non è una qualcosa di secondario, ma è richiesta dalla sua natura: la persona cresce e adempie la propria vocazione solo in unione con gli altri e comunicando con gli altri.

L’“animale-uomo” non diventa umano vivendo da solo, ma interagendo con i nostri simili. L’umanità è una condizione che si realizza solo venendo a contatto con la vicinanza dell’altro. E, forse, anche perché “Ciò che d’altra parte rende gli uomini sociabili si è che essi sono incapaci di sopportare la solitudine e di sopportare sè stessi quando sono soli. Ed è dal loro vuoto interno e dalla stanchezza di sè stessi che sono spinti a cercare la società, a correre paesi stranieri e ad intraprendere viaggi continuamente” (Arthur Schopenhauer).

Per le scienze sociali, la nozione di gruppo rappresenta uno dei cardini concettuali per comprendere il rapporto che l’individuo instaura con gli altri individui e con la società nel suo complesso. Tra i membri che costituiscono una determinata organizzazione del lavoro si sviluppa un “continuum”, uno scorrere di scambi relazionali che contribuiscono a definire significati e conoscenze con le quali interagire e connotano l’insieme delle condizioni psicologiche che stanno alla base dell’atmosfera emozionale che la caratterizza unitamente alle categorie che la compongono: aree, divisioni, settori o reparti.

La socialità si veicola, dunque, attraverso la comunicazione. Il potere della comunicazione consente all’uomo di esprimere e trasferire ad altri idee, sentimenti, affetti, paura, gioia, emozioni, carezze, offese, apprensioni; ma anche dati, fatti, progetti, nozioni, principi, concetti, regole, insegnamenti, precetti, prescrizioni, ecc. Non solo la parola che passa da un uomo ad un altro costituisce una forma irrinunciabile di partecipazione, ma anche un gesto, un sorriso, uno sguardo. Uno sguardo che può contenere rabbia, amore, paura, concentrazione, preoccupazione, rimprovero, attenzione. Ovvero significati. Uno sguardo che ci attribuisce un contenuto provocato da un’espressione che ci rende umanamente significanti.

Il modo di esprimere i sentimenti attraverso lo sguardo costituisce la manifestazione del modo di vivere nel suo incessante sviluppo: un tremito, un trasalimento, un’esclamazione, le espressioni di gioia, di sorpresa, di paura, di stizza, di raccapriccio, di superbia, di rabbia e gli aspetti stereotipati che troviamo nelle formule di saluto, nelle interlocuzioni, nel modo d’esprimersi, nell’intonazione e nei segnali paralinguistici.

E sono le nostre emozioni che possono iniettare nella nostra socialità un malessere che potremmo definire l’inquietudine di non dover rimanere da soli e di dover ammettere di avere necessità delle emozioni degli altri.

“La solitudine è come una lente d’ingrandimento: se sei solo e stai bene, stai benissimo, se sei solo e stai male, stai malissimo”.
Leopardi

Alcuni uomini sono più “socievoli” degli altri, intendendo per socievole chi ama avere molte conoscenze, mentre con “poco socievole” si indica chi vuole coltivare poche e selezionate amicizie, ha difficoltà a trovare argomenti di conversazione o, più generalmente, preferisce sottrarsi ai normali contatti sociali. Le persone desiderose di fare nuove amicizie sono caratterizzate dalla capacità di aprirsi e di far nascere rapporti di fiducia e di collaborazione. Una chiusura verso l’esterno può essere generata anche da una chiusura verso sé stessi, che considera la propria unicità e la propria irrinunciabile particolarità assolutamente incompatibile con la convivenza e la dipendenza dagli altri. Ovvero una scuola di pensiero che considera la socialità come una limitazione alla libertà personale e si ribella sostenendo che l’uomo non sia ciò che vorrebbe essere, ma finisca per diventare quello che altri esigono che sia.

“Il mio potere è la mia proprietà, il mio potere mi dà la proprietà. Io stesso sono il mio potere e per esso sono la mia proprietà. Non cerchiamo la comunità più estesa, la “società umana”, ma vediamo negli altri unicamente mezzi e strumenti da adoperare come nostra proprietà”.
Max Stirner, L’Unico e la sua proprietà

La costituzione, nel diritto, è l’atto normativo fondamentale che definisce la natura, la forma, la struttura, l’attività e le regole fondamentali di un’organizzazione sociale. Sotto il profilo sociologico, è il frutto di secoli di evoluzione storico-politica europea e occidentale. L’articolo 1 della nostra Costituzione stabilisce: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.

Il lavoro comprende molte e diverse attività e determina, in quanto svolto con (e per) gli altri, il ruolo sociale. Il lavoro mette in contatto con altre persone; e le valutazioni che provengono dagli altri sono una fonte importante di informazione su sé stessi e possono essere confrontate con i risultati del proprio lavoro. L’obbligo etico, che costituisce le fondamenta del lavoro, è connesso all’utilità di partecipare in maniera attiva e dinamica alla società, dove la stessa attività lavorativa costituisce il mezzo per acquisire i valori sociali (socializzazione indotta dal lavoro) in contrapposizione al non lavorare, vissuto come elemento di isolamento e di inutilità nei confronti degli altri.

“L’uomo sereno procura serenità a sé e agli altri”.
Epicuro

Il lavoro è un processo dinamico, è un mezzo di espressione delle risorse fisiche, intellettuali ed emotive delle persone, è un intervento di cambiamento sia sull’oggetto su cui si esercita l’attività lavorativa sia del soggetto che la compie, il quale, nello scambio con l’ambiente fisico e sociale, sviluppa capacità ed affina sensibilità che altrimenti potrebbero rimanere sopite.

Il lavoro è un elemento essenziale nella vita dell’uomo; è una sequenza produttiva in quanto finalizzata a conseguire un risultato utilizzabile e consumabile, un territorio nel quale si attivano rapporti e stili di relazione e di convivenza caratteristici di uno specifico e determinato contesto politico, economico, culturale e sociale. Il lavoro costituisce una ricompensa o una sanzione, può avvilire o spronare, affaticare o ristorare, frustrare oppure appagare, dà e toglie, condiziona il tono dell’esistenza e, attraverso l’auto-realizzazione, dell’umore di tutti i giorni.

Vi sono lavori ingabbiati da procedure rigide; protocolli, supervisioni autoritarie, mancanti di qualsiasi delega, controllati da responsabili accentratori. In sintesi, lavori privati di dignità. Il lavoro deve poter concedere iniziativa e possibilità di rendere la risorsa proattiva. Un’attività che consenta di liberare la voglia di fare piuttosto che deprimerla.

Il controllo, se gestito fiscalmente, viene generalmente inteso come un possibile attacco alla propria persona, e questa percezione non contribuisce certamente alla creazione di una situazione di benessere organizzativo. Ciò che, invece, il concetto di controllo deve implicare è la capacità delle risorse di saper applicare autonomamente le giuste strategie per valutare e migliorare i percorsi intrapresi, di volta in volta, per lo svolgimento dei compiti e il raggiungimento degli obiettivi assegnati. Fare bene il proprio lavoro e cercare di migliorarsi attraverso un attento e costante monitoraggio del proprio operato costituisce una motivazione che deve essere incoraggiata e sostenuta attraverso iniziative come la formazione e il rilascio di feedback non casuali, ma condivisi attraverso un colloquio tra capo e collaboratore.

“Dobbiamo imparare a fare il nostro lavoro ed a compiere i nostri sacrifici per amore di questo lavoro e non per amore della gloria o per evitare il biasimo”.
Karl Popper

Fare bene il proprio lavoro implica un riconoscimento che deve venire sia dalla struttura alla quale si appartiene e sia dalle altre persone che appartengono a quella struttura.

In ogni gruppo si sviluppa, con ricorrente dinamicità, una rete di relazioni interpersonali che caratterizza gli equilibri o i contrasti, il desiderio di stare insieme o di evitarsi, l’eccessiva freddezza o l’eccessivo ardore, la distanza o l’eccessiva informalità, la voglia di collaborare o di ostacolare le singole operatività, l’invidia o il compiacimento, in sintesi tutto ciò che sottende all’essere risorse, appunto, “umane”.

“Conosci te stesso (γνῶθι σαυτόν)”.
Massima religiosa iscritta nel tempio di Apollo a Delfi

Per conoscere se stessi è indispensabile essere riconosciuti dalle persone con le quali interagiamo. Per quanto possiamo ritenere critico il nostro rapporto con gli altri, questo sarà sicuramente più distruttivo come potrebbe essere una totale assenza del rapporto, ovvero il non essere riconosciuti. La comunicazione tra colleghi non può essere considerata meno importante tra tutte le altre forme di comunicazione che si sviluppano all’interno dell’organizzazione. È una comunicazione che merita un ascolto attivo e interessato e un’altrettanto importante opera di monitoraggio.

La vita all’interno di ogni gruppo di lavoro si realizza attraverso l’interazione tra ciascun membro con gli altri appartenenti e l’obiettivo (o gli obiettivi) assegnati, all’interno del contesto organizzativo. Ogni membro, all’interno del gruppo, vive l’alternarsi del bisogno di affermare sé stesso (essere autonomi, differenziarsi) e di dipendere/appartenere (non sentirsi solo, non essere isolato) e partecipa alla vita collettiva di lavoro mantenendo proprie idee e rappresentazioni sugli scopi del gruppo e di ciascun membro, i metodi di lavoro, sui ruoli da esercitare, le regole, lo stile di leadership atteso.

“L’io sociale dell’uomo è il riconoscimento che questi ottiene dai suoi simili. Non siamo solo animali gregari, cui piace la vicinanza dei nostri compagni, ma abbiamo anche un’innata tendenza a farci conoscere, conoscere e approvare, dagli esseri della nostra specie. Non si potrebbe concepire una punizione più diabolica, se fosse fisicamente possibile, di quella di vederci strappati dalla società e di essere totalmente ignorati dai membri che la compongono”.
William James

Il management deve saper favorire la rete formale e informale di relazioni che consente di facilitare la comunicazione tra colleghi per facilitare il reciproco riconoscimento. Ma può alimentare questo riconoscimento anche attraverso la valutazione delle prestazioni di ogni risorsa. La valutazione delle prestazioni costituisce un’attività fondamentale della moderna gestione delle risorse umane e si caratterizza sempre più come uno strumento di valorizzazione delle persone, di analisi e verifica della performance, oltre che una modalità riconducibile alle scelte etiche dell’impresa. L’iniziativa di valutare, incoraggiare e valorizzare i comportamenti (intesi come fattori qualificanti) di ciascuna risorsa, contribuisce a stimolare lo specifico apporto del singolo, il cui contributo costituisce uno dei più importanti fattori di competitività dell’azienda. Parallelamente, la valutazione costituisce anche un processo di apprendimento verso una nuova cultura gestionale e di responsabilizzazione del management che si traduce nella nuova visione della valutazione che non deve porre l’attenzione sul dovere di valutare, ma sul diritto ad essere valutati.

Ogni essere umano è come un fiocco di neve, unico e irripetibile. In questa univocità si genera il dissenso. Occorre essere capaci di saper gestire costruttivamente il dissenso per vivere e lavorare in modo leale, produttivo e sereno.

Perché esistono il dissenso, il conflitto o la discordia? La situazione conflittuale è parte integrante della vita dell’uomo. Il conflitto è una situazione nella quale agiscono le percezioni, le emozioni e i valori che condizionano il comportamento verso due differenti – e opposti – obiettivi: il raggiungimento di una meta o l’evitare eventi indesiderabili, in sintesi come calcolare i benefici e la disposizione a non accettare nessun patto da cui non si possa ricavare nettamente dei vantaggi.

“Per fare una discordia, vi bisogna due. A perseverare in concordia, basta che uno de’ due sia savio”.
Leon Battista Alberti

Le soggettività delle persone che si trovano all’interno di un’organizzazione, inserite in strutture caratterizzate dai ruoli, dagli status, dai regolamenti e rapporti gerarchici, sono portatrici di diversi tipi e gradi di bisogni, e di conseguenza, in maniera più o meno consapevole, agiscono comportamenti che possono condurre al conflitto o all’intesa. Soddisfazione e insoddisfazione rappresentano i poli opposti dello stesso continuum e, per la maggior parte delle persone, i bisogni insoddisfatti motivano e quelli soddisfatti non svolgono più la funzione motivante ma danno soddisfazione.

L’uomo si è da sempre organizzato in modo tale da garantirsi il massimo della concordia confidando unicamente nell’istinto sociale; tuttavia, oltre a darci la necessità della compagnia dei nostri simili, lo stesso istinto sociale ci dispone anche contro di loro. Le medesime ragioni che ci avvicinano agli altri possono fare di essi i nostri nemici. La socialità accomuna gli uomini al punto che spesso essi desiderano le stesse cose, materiali o simboliche, al punto di entrare in conflitto per poterle possedere. Spesso ci capita anche di desiderare certi beni solo perché li desiderano gli altri.

Nulla è più facile che illudersi. Perché l’uomo crede vero ciò che desidera”.
Demostene

In sintesi: ciò che unisce e mette anche gli uni contro gli altri sono gli “interessi”. La semantica della parola interesse viene dal latino e indica ciò che sta in mezzo, fra due persone o due gruppi: ma ciò che sta fra due persone, o due gruppi, serve a volte a unirli (solo insieme a te posso raggiungere ciò che cerco) e, altre, a separarli e a renderli ostili fra loro (vuoi quel che voglio io e se ce la fai tu, non ce la farò io).

Nella seconda parte del “Conflitto delle facoltà” Kant si chiede se sia possibile rintracciare nella storia umana un senso complessivo e collettivo, al di sopra della prospettiva limitata e parziale di ciascuno di noi.

Per antagonismo intendo qui la insocievole socievolezza degli uomini, vale a dire la loro tendenza ad unirsi in società, che tuttavia è congiunta ad una continua resistenza, la quale minaccia continuamente di sciogliere tale società. Nella natura umana c’è con evidenza la disposizione a tutto questo. L’uomo ha un’inclinazione ad associarsi: poiché in tale stato sente in maggiore misura se stesso in quanto uomo, sente cioè lo sviluppo delle sue disposizioni naturali. Ha però anche una forte tendenza ad isolarsi: perché trova in sé allo stesso modo la proprietà insocievole di voler condurre tutto secondo il proprio interesse, e perciò si aspetta resistenza da ogni lato, come sa di sé che egli, a sua volta, è inclinato a far resistenza verso gli altri”.

L’ammissibilità di questa tesi risiede nella razionalità e nella concretezza: il raggiungimento della concordia non si basa sul tentativo di cambiare la natura dell’uomo, ma di accettarla, e di trovare invece una forma in grado di rinchiudere la volontà di annichilimento dell’uomo, evitando così la nascita dei conflitti.

Gli uomini non possono essere liberati dal naturale legame ai loro interessi per essere rispettosi di un interesse collettivo, o a un bene comune, determinato da un’aliena forma di saggezza; occorre generare la concordia facendo riferimento proprio agli uomini, prendendo in considerazione le loro ragioni e le loro passioni, le loro discordie, la loro tendenza all’egoismo predatorio, ma anche il loro bisogno di essere riconosciuti dalla propensione sociale degli altri.

Una efficace comunicazione faccia a faccia implica lo sviluppo di reciproci interessi, la considerazione per l’altro, l’eventuale sostegno in caso di necessità, la solidarietà, i rapporti di fiducia e di stima reciproci. Più gravemente, la mancanza di chiarezza nella comunicazione avviene quando fra gli interlocutori si instaura la volontà di nascondere le ragioni vere e profonde che stanno alla base dei messaggi. Si può non voler comunicare per paura di essere giudicati, per eccessivo timore reverenziale, per gelosia, per danneggiare, per ostruzionismo o per qualche misura di sicurezza.

Per affrontare i ruoli che di volta in volta devono essere assunti, le persone devono conoscere il copione più adeguato ad ogni tipo di situazione, considerando che il più piccolo evento comunicativo costituisce una relazione complessa, composta da elementi di significazione e interpretazione, che contiene una certa dose di conflitto e che rappresenta sempre un’occasione nel quale i significati condivisi sono continuamente riscoperti, rielaborati e confermati. L’accettazione reciproca, a tutti i livelli, del ruolo ricoperto è garanzia per un’eccellente gestione dei rapporti interpersonali.

“Non troverai mai la verità se non sei disposto ad accettare anche ciò che non ti aspetti”.
Eraclito

“L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (Costituzione della Repubblica italiana, art. 41).

La dignità dell’uomo è inviolabile e affinché un lavoro sia dignitoso occorre che esso rispetti la vita delle persone, così come pure i suoi ritmi e le esigenze connesse alla sua socializzazione.

“È con il lavoro che si paga la propria dignità umana”.
Focilide di Mileto

In cosa consiste la dignità umana?

Il rispetto della dignità della persona è garantito dal fatto che, nell’applicazione di regole gerarchiche nei rapporti con i collaboratori, non si manifestino occasioni in cui l’esercizio del principio di autorità sia lesivo della professionalità e della autonomia delle risorse e che fra colleghi vi sia la disposizione a riconoscere i diritti, il decoro, la dignità e la personalità stessa di ognuno, e quindi ad astenersi da ogni manifestazione che possa offenderli. Occorre saper utilizzare e valorizzare pienamente tutte le professionalità presenti nella struttura, mediante attivazione delle leve disponibili per favorire lo sviluppo e la crescita dei propri collaboratori e l’armonia dei loro rapporti interpersonali. Nessuna risorsa deve subire discriminazioni a causa della propria razza, colore, sesso, preferenza sessuale, stato civile, gravidanza, maternità o paternità, religione, opinioni politiche, nazionalità, origine etnica o sociale, stato sociale, invalidità, età, appartenenza sindacale.

 “Strana epoca quella in cui ci vuole più energia per spezzare un pregiudizio che per spezzare un atomo”.
Albert Einstein

L’organizzazione del lavoro deve garantire un luogo in cui nessuno viene abbandonato, sopprimendo le teorie che tendono a omologare le persone, negandone l’autonomia e la responsabilità, nonché riducendole a meri “esecutori” delle più generiche operatività. Ad ogni persona deve essere riconosciuto il diritto di non essere utilizzata od oppressa dagli altri come semplice strumento, nella prospettiva che non possano esistere diritti “umani” collettivi, per lo stesso motivo per cui non ci sono esseri “umani” collettivi.

“La libertà non consiste tanto nel fare la propria volontà quanto nel non essere sottomessi a quella altrui”.
Jean-Jacques Rousseau

Il riconoscimento dell’autonomia di ogni individuo per poter concepire progetti esistenziali e termini di riferimento personali di eccellenza, deve essere garantito senza ulteriori limiti che l’uguale diritto degli altri alla stessa autonomia.

“Non devi adoperarti perché gli avvenimenti seguano il tuo desiderio, ma desiderarli così come avvengono, e la tua vita scorrerà serena”.
Epitteto

L’organizzazione dell’impresa deve provvedere all’inserimento e all’integrazione delle proprie risorse, progettando piani formativi e di affiancamento che consentano di comprendere credenze, valori e regole del contesto organizzativo in cui si trovano a operare e armonizzare i bisogni individuali con quelli del gruppo.

Vivere bene in azienda significa vivere bene insieme agli altri.

“Bisogna fare della vita un’opera d’arte”.
Gabriele D’Annunzio

 

Articolo a cura di Antonello Goi

Profilo Autore

Laureato presso l’Università Statale di Milano in Filosofia, ho acquisito un’esperienza nell’ambito delle Risorse Umane.
In particolare ho assunto la responsabilità, in azienda Leader delle telecomunicazioni, della Selezione del personale, della Formazione, Gestione HR, Relazioni Industriali.
Collaboro per gambelassociati per quanto riguarda la Formazione Manageriale Aziendale e Interaziendale, attraverso attività di consulenza, progettazione ed erogazione di corsi di formazione.

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