Lo specchio del manager. Come siamo veramente?

Il segreto del successo è la sincerità. Se impari a fingere è fatta.
Bart Simpson

Nella vita di tutti i giorni il manager si trova a dover decidere quali azioni intraprendere, come impostare le modalità per conseguire quanto voluto e deciso allo scopo di influire significativamente sul corso degli eventi che governano l’impresa. Gli eventi si susseguono l’un l’altro, senza necessariamente dover ottemperare a quanto deciso dal management, così che questa situazione di inesorabile prospettiva costituisce la differenza tra prevedere e realizzare. La realtà si presenta con due modalità diverse: una fisica, empirica e una virtuale. La realtà è raffigurabile come un grande specchio che riflette l’universo materiale, ma può sottrarre alla percezione l’insieme delle varianti che costituiscono tutti gli scenari attuabili da cui possono derivare le intuizioni, le previsioni, le illuminazioni e i sogni.

Il manager, affascinato dallo specchio, è convinto che il riflesso che vede sia l’effettiva realtà. L’effetto speculare riproduce l’illusione che il mondo esterno esista di per sé e che sia vero solo quello che si vede.

Quante volte ci siamo guardati allo specchio?

Allo specchio ci si può “riflettere” quando è necessario acconciarsi, truccarsi, pettinarsi, indossare le lenti a contatto, fare il nodo alla cravatta, osservare lo stato di salute della lingua o, più semplicemente, tutte le volte che dobbiamo controllare la nostra figura. È lo specchio che abbiamo in bagno, nell’anta principale della camera da letto, nella borsetta, in anticamera, nell’ascensore, ecc. Ma può avvenire che ci si voglia “rimirare” solo per dirci che siamo bravi. Allora lo specchio non riflette più fedelmente la nostra immagine. Questo è lo specchio nel quale cerchiamo solo ciò che vogliamo vedere mentre fingiamo di non vedere ciò che non desideriamo. In questo caso lo specchio può divenire, da puro riflettore di una immagine virtuale, uno strumento di distorsione della verità, un miraggio di noi stessi fabbricato dalla nostra fantasia, sostenuta da un eccesso di vanità che costituisce una letale dicotomia fra io pubblico ed io privato.

Il manager dovrebbe guardarsi un uno specchio speciale che riflette solo i comportamenti erronei e che generosamente, ma impietosamente, possa guidare a riconoscere come si è e non come si crede, o si vorrebbe essere. Uno specchio che “gli altri” costantemente ripuliscono dalla nostra immagine, dai falsi riflessi presentati da quelle caratteristiche straordinarie che crediamo fortemente di possedere.

Per guardarsi in questo specchio occorre attivare un’irriducibile volontà di venire alle prese con noi stessi, distillare una spietata onestà nel riconoscerci come siamo e non come vorremmo essere.

L’incontro con il momento dell’autodiagnosi deve essere visualizzato come l’appuntamento con un amico, un mentore sul quale si può sempre fare affidamento. Un ostacolo all’auto-collaborazione può verificarsi dallo scontro di due forze contrastanti: da una parte il desiderio di mantenere lo status quo per non scoprire una realtà diversa da quella che ci siamo artificialmente creati, dall’altra la sfida verso noi stessi e il desiderio di vedere quanta corrispondenza ci sia tra realtà e verità.

È il momento di diventare coach di sé stessi. E allora, guardiamoci allo specchio del manager.

Prima di iniziare a leggere questo articolo compilate questo “specchio” attribuendovi un punteggio per ogni tratto del vostro modo di essere manager. Il criterio dell’autovalutazione di merito prevede un giudizio di 1 (adeguato), 2 (superiore), 3 (eccezionale). Rispondete come se davvero vi guardaste in uno specchio valutando l’immagine che istantaneamente vedete di voi stessi.

Poi, dopo aver letto la descrizione di ogni comportamento, auto-valutatevi nuovamente.

Autostima

L’immagine che ognuno di noi ha di sé acquista una formidabile importanza nella determinazione del successo o del fallimento delle aspirazioni. Può avvenire che l’immagine si eccessiva, oppure scadente. In entrambe i casi occorre correggerla.

Se l’immagine che abbiamo di noi è eccessiva, saranno i risultati a ridimensionarla. Sentirsi grandi dà adito a comportamenti di grandiosità, non di grandezza. È un’illusione credere che sentirsi migliori sia un successo: in realtà rappresenta una pericolosa fonte di ansia e stress e può portare verso un senso di isolamento, separazione dagli altri che crediamo meno meritevoli di noi. Oppure daranno agli altri motivo per evitarci perché infastiditi dalla nostra presunzione.

Se l’immagine è scadente, occorre ragionare sulle sue cause.

Le esperienze negative o di disconferma della nostra persona, in ambito lavorativo (ma non solo) possono iniziare a creare in noi l’immagine di una persona incapace, lenta a capire, incompetente, anche se questo convincimento è molto lontano dalla realtà dei fatti. Una tale auto-percezione non potrà che generare sofferenza e inciderà in modo negativo sui nostri progetti di vita, sulle scelte affettive e professionali, ma anche su molte decisioni quotidiane, solo apparentemente banali.

Dobbiamo vedere nello specchio la nostra immagine come quella della persona che vorremo essere. Così, se ci percepiamo come timidi o remissivi, cerchiamo di vederci come persone che agiscono con calma e coraggio. Questo “allenamento” nel vederci come vorremmo essere consentirà che i tratti della personalità che vogliamo costruire si imprimano gradualmente nel nostro modo di essere. L’arma vincente per difendersi dal lasciarsi prendere la mano dal pessimismo, dall’autocommiserazione o, peggio, dal riversare la colpa sugli altri è quella di avere sempre un’ottima autostima.

L’autostima non è una competenza da attivare allorché le esigenze di lavoro la richiedano, ma è un processo, un modo di relazionarci al mondo e alle persone, un modo per interpretare e dare un significato alle situazioni in cui siamo coinvolti. L’autostima è il complesso equilibrato di valutazioni complessive che effettuiamo su noi stessi e che riguardano diversi aspetti della nostra persona, come ad esempio: bellezza, intelligenza, cultura, posizione sociale, competenze professionali, potere economico, diritto di essere amati, adeguatezza nel ruolo di moglie, di figlio, di amante, di genitore, e così via. E di essere manager.

Sicurezza e determinazione

A volte, quando si deve scegliere tra più alternative, si rischia di arrivare a un compromesso che prevede non solo l’accettazione di quanto sia vantaggioso nell’eventualità scelta, ma anche l’accettazione dell’eventuale perdita relativa all’aver abbandonato un’alternativa risultata poi favorevole. Può avvenire che una decisione comporti uno stato di insicurezza in rapporto alla percezione di aver sbagliato o rinunciato ad altre vantaggiose opportunità.

Occorrono, quindi, sicurezza e determinazione nel prendere una decisione e volontà nel volerla realizzare. La volontà non è un tratto autonomo della personalità di ogni uomo, ma un aspetto funzionale del comportamento che può essere caratterizzato come l’impulso ad agire in situazioni di conflitto. La volontà per il manager è l’attitudine ad una reazione che ristabilisca condizioni più favorevoli per affrontare situazioni nuove. Una reazione che deve tradurre la decisione in azione sostenuta dalla costanza per raggiungere il successo. Lo svogliato, l’indolente, il noncurante potrà fare una scelta teoricamente favorevole ma non sarà capace di tradurle in concatenazioni fattive del comportamento che potrà impattare sul primo lieve scostamento.

Decidere può anche richiedere una condizione emotiva che potremo definire come il “coraggio” nel voler fare, come l’accettazione di una sfida nell’affrontare l’ignoto, come la battaglia contro il timore paralizzante e rappresenta un elemento fondamentale del successo. È necessario che la capacità di affrontare situazioni problematiche, rischiose, angosciose sia coltivata dal manager perché le tappe del successo sono quelle disegnate da decisioni coraggiose che superano l’istintiva adesione alla fuga. Coraggio e volontà devono trovare coerenza nella perseveranza, nell’insistere in un atteggiamento per il raggiungimento di una meta, per conseguire uno scopo, nel continuare un’attività o per il portare a termine un incarico.

In sintesi, la sicurezza consiste nella capacità di valutare con prontezza le situazioni assumendosene i rischi; nel considerare il rischio come elemento non limitante l’azione, non scoraggiarsi facilmente di fronte ad ostacoli nell’affrontare un problema, e soprattutto non lasciarsi fuorviare da tardivi pentimenti.

Impegno

Dietro il successo di ogni realizzazione pratica, di progettazioni ardite, di innovazioni che cambiano rotta al mercato o, più generalmente, il raggiungimento di obiettivi si trova la sintesi di un lavoro duro, di dedizione, di sacrificio e di continuità d’impegno, giorno dopo giorno.

Ed è quell’impegno quotidiano finalizzato meticolosamente e coerentemente verso un precisato scopo che consente di migliorare gli strumenti con cui lavoriamo, la capacità di persuadere nelle trattative e nel negoziato, l’abilità nella gestione delle risorse a nostra disposizione, la capacita di intrattenere valide relazioni interpersonali.

L’impegno è la linfa che alimenta quell’esperienza che ci guida a migliorare le prospettive, a correggere gli errori, ad agire coerentemente con le responsabilità accettate, influenzando attivamente e positivamente gli eventi mettendo a fuoco persone e problemi e, in sintesi, a perseverare nel raggiungimento del risultato, conseguendo gli obiettivi funzionali al risultato aziendale.

L’impegno costituisce lo statuto ontologico del manager. Attraverso la disciplina quotidiana del lavoro che ci mostra l’importanza della rinuncia all’indifferenza, alla svogliatezza, all’orientamento a rimandare a domani, a mostrarci che quello che non ci piace può non essere fatto, a non fare quella telefonata, quella riunione per addormentarsi nel quieto vivere. Occorre invece concentrare tutte le energie che abbiamo a disposizione nella direzione più faticosa, rifiutando le emozioni perturbanti, ma piacevoli, che dissipano il nostro essere risoluto. Il successo è fortemente connesso da questa accettazione, da parte del manager, del sacrificio, delle ore insonni, degli agi trascurati, degli onori disprezzati.

Non si può insegnare ad essere impegnati, ad accettare rinuncia e sacrificio, ma ci si può allenare affrontando con tenacia l’attività lavorativa concentrando tutti gli sforzi e le proprie azioni nella direzione attesa, nel perseverare nel raggiungimento del risultato anche a fronte di ostacoli e problemi, nell’individuare e ricercare tutte le strategie per conseguire il risultato, nel reagire nei momenti di crisi e prendere subito l’iniziativa e soprattutto nel non avere sempre bisogno di una spinta per agire

Fiducia verso gli altri

Per poter avere fiducia negli altri occorre prima di tutto avere fiducia in sé stessi. Le persone che hanno questa importante consapevolezza sanno trasmettere fiducia intorno a loro contagiando positivamente i pessimisti, i rinunciatari e i passatisti che nelle persone fornite di auto-fiducia individuano una guida sicura.

La persona che ha fiducia in sé lo dimostra con il suo modo di agire ed è spesso chiamata a svolgere il ruolo di guida nelle più svariate situazioni. In questo senso il manager deve avere ininterrottamente fiducia in se stesso per poter sperimentare e realizzare sul campo ipotesi strappandole alla vaghezza della probabilità, esplorare nuove opportunità, percorrere strade ancora non battute, superare insuccessi senza traumi o autocommiserazione.

Dare fiducia agli altri significa agire in modo che questi rispondano mostrando il desiderio e modalità per essere e rimanere fedeli all’immagine che abbiamo dato. Occorre mostrare con le azioni, oltre che con le parole, che bisogna agire con un fondo di ottimismo, comprendere e apprezzare i punti di vista differenti od opposti ai propri, di adattarsi alle nuove situazioni e di cambiare o accettare facilmente i cambiamenti dell’organizzazione o dei compiti della propria mansione.

Chi collabora con il manager deve poterlo fare in un contesto di fiducia per cui possa accettare la normale casualità di commettere un errore senza il timore di incorrere nel conformismo delle reazioni sanzionatorie e denigratorie.

I cattivi manager sono quelli che – contaminati dalla sfiducia, dal pessimismo, dall’arroganza che si auto genera nel brodo della diffidenza – predispongono e preparano l’inefficienza dei loro collaboratori. Sono quei manager che vivono temendo l’insuccesso, colpevolizzando gli altri e che perpetuano solo ciò che sanno fare, oscurando nuovi orizzonti impoverendo e deprimendo motivazioni e voglia di fare, che hanno contribuito alla destabilizzazione degli obiettivi e all’umiliazione delle persone affidate alla loro incompetente direzione e che si fanno notare per due fatti: un basso livello di produttività e un continuo turnover di collaboratori.

Per mostrare di aver fiducia occorre ricambiare l’apertura degli altri, ascoltare con attenzione ogni problema, dimostrare appoggio e accettazione, essere coerenti nei modelli e nei valori, non fare promesse che non si possono mantenere. Mostrare di avere fiducia significa mostrare di essere un buon manager.

In sintesi: è indispensabile alimentare la fiducia in se stessi e nelle persone che vivono e lavorano con e per noi. Se lo sapremo fare, il mondo ci darà ascolto.

Consapevolezza di sé

Conoscere se stessi significa conoscere come poter raggiungere il successo. Guardare nello specchio che si trova all’interno di sé stessi consente di poter vedere il riflesso di ciò che ci circonda.

Il benessere della mente e la riuscita delle nostre fatiche dipendono dalla obiettiva e adeguata consapevolezza di noi, dal riconoscimento e dalla accettazione dei nostri interessi e dei nostri impulsi.

Un pericolo spesso trascurato consiste nell’abbandonarsi a schemi personali e sociali rigidi, propri di una vita di routine scandita da linee guida – spesso assimilate nei master – che tendono a rinchiudere il manager in un baccello comodo che diventa una protettiva gabbia della personalità. Adagiandosi a queste modalità comportamentali fatte di automatismo e prassi consolidate, i manager gradualmente si isolano da loro stessi perdendo le capacità di adattamento e di sapersi rinnovare. Occorre, invece, avere chiaro e visibile nel nostro orizzonte ciò che veramente è importante, la convinzione di poter assolvere un compito, di assumere decisioni o di convincere gli altri in qualunque situazione, anche critica, o di reagire costruttivamente agli insuccessi.

Per conoscere se stessi significa avere consapevolezza del nostro ruolo, delle nostre competenze e dei punti di forza, dei nostri impulsi di fondo, delle energie potenziali, degli interessi che aspettano di essere portati alla luce, nell’imparare dagli errori e nell’analizzare le proprie performance in ottica di miglioramento continuo. In sintesi: il conoscere i propri limiti attiva la ricerca delle professionalità specifiche per integrare la propria competenza. Sapremo, allora, conoscere ciò che profondamente ci interessa, quali sono le convinzioni che abbiamo nel profondo per poter raggiungere gli scopi che maggiormente ci attraggono che con allarmante frequenza sono oscurate dalla noncuranza o solamente dall’abitudine.

Conoscere se stessi significa avere la mappa che ci consente di guidarci verso gli obiettivi che ci sono maggiormente congeniali e che conducono al successo.

Concentrazione

Il manager si muove in un contesto che, oltre a imporre un impegno senza soste, è immerso in una situazione dove irrompono con allarmante frequenza collaboratori, superiori, colleghi, postulanti, telefonate inutili e, a volte, dubbi e timori. L’attenzione è il processo attraverso il quale si selezionano alcuni stimoli, li si mettono a fuoco, e se ne prende una chiara visione. Ne consegue che il saper indirizzare l’attenzione e mantenerla verso un obiettivo ben identificato, verso un’idea o su un problema è una delle leve fondamentali per muoversi verso il successo. Per riuscire a concentrare l’attenzione bisogna riuscire ad eliminare dal campo della consapevolezza tutti gli altri stimoli che risulterebbero di disturbo, e sostenere lo sforzo e l’impegno per il tempo necessario. La capacità di concentrare la propria attenzione su un particolare tema o un particolare problema è un fatto molto importante per l’apprendimento e la memorizzazione dei concetti.

La concentrazione non è un fattore eccezionale né acquisito, ma il risultato di un allenamento costante che si realizza coltivando la capacità di:

  • mantenere acceso l’interesse, ovvero l’ampiezza con cui la coscienza partecipa all’attività psichica;
  • cogliere e riconoscere gli stimoli nuovi da quelli consolidati;
  • non saltare subito alle conclusioni;
  • verificare la presenza di dati critici o indispensabili;
  • mantenere continuità d’impegno, per cui, accettato un compito, occorre dedicarsi senza dubbi o posticipazioni;
  • educare, come regola, se stessi per cui la concentrazione non è una linea guida ma un’abitudine consolidata;
  • apprendere un argomento alla volta senza voler escludere idee estranee, ma impegnando la mente solo su ciò che in quel momento deve importare.

Usare abilmente lo strumento della concentrazione richiede tempo, esercizio, pazienza e soprattutto voglia di farlo, ma è uno dei gradini che portano al successo.

Entusiasmo

Occorre pensare in grande per sentirsi grande. Nel manager non deve mancare l’entusiasmo di progettare il proprio futuro, e ciò che conta maggiormente è la capacità di prevedere gli eventi in positivo, di interpretare fallimenti come opportunità per capire meglio la realtà.

Le persone che nella vita sanno farsi strada sono quelle che alimentano il motore del loro agire con l’entusiasmo e che sanno suscitare nelle persone con cui vengono in contatto un altrettanto fruttuoso entusiasmo. Il ruolo del saper fare, inteso come valore personale, come orientamento proattivo all’azione e al rischio, come atteggiamento che aiuti le persone (e l’azienda) ad agevolare e gestire le opportunità di sviluppo che il cambiamento richiede, deve essere necessariamente sostenuto dal credere in ciò che si fa appassionandosi ad esso.

Appassionarsi al proprio lavoro è un potente ricostituente per il manager che ha come effetti benefici l’approfondimento delle proprie conoscenze, la gratificazione che deprime il senso della stanchezza, l’aumento dell’auto-fiducia che tiene viva l’auto-stima e la maggior facilità a superare le condizioni di stress.

L’entusiasmo ha anche un effetto contagiante per l’ambiente circostante, generando maggior orientamento alla collaborazione e al miglioramento del benessere organizzativo del gruppo che si gestisce. Per suscitare interesse e adesione negli altri è necessario trasmettere l’entusiasmo nel rivolgersi alle suggestioni, interessi e problemi che sono intensamente percepiti dalla generalità delle persone e che toccano direttamente le loro emozioni.

È importante agevolare l’entusiasmo per prevenire la caduta in stati di malessere ed è importante recuperarlo nel momento in cui l’abbiamo perduto e ci ritroviamo in sofferenza. E bisogna alimentarlo: non vivere solo dell’entusiasmo che giunge in occasione di qualche particolare evento, ma mantenere fattiva la curiosità di conoscere sempre tutto ciò che può destare la nostra passione.

Essere entusiasti del proprio lavoro significa essere orientati a:

  • avere fiducia nel proprio futuro;
  • avere fiducia nelle proprie possibilità,
  • sentirsi protagonista del destino;
  • iniziare un lavoro senza paura di non saperlo svolgere correttamente;
  • affrontare con ottimismo la variabilità delle situazioni;
  • avere un visione positiva della maggior parte degli eventi.

In sintesi: essere appassionati ai propri compiti e suscitare entusiasmo nei collaboratori costituisce un fattore importante per ottenere successo.

Comunicazione

Le relazioni con gli altri possono essere sviluppate con modalità che caratterizzano la curiosità, l’inopportunità, insofferenza, l’intrigo, l’aggressività, oppure la docilità, la remissività, l’acquiescenza, sostenute dall’affabilità. Una comunicazione monotematica dal punto di vista della sua manifestazione priva di una necessaria alternanza di emozioni reattive ai contesti e alle situazioni è una comunicazione recitata, falsa e improduttiva nei gesti, nel suono della voce che scandisce le parole e rivelerà che si tratta di una commedia a soggetto eseguita per un fine personale, per un egoismo personale. E gli interlocutori non avranno dubbi sul tipo di interlocutore con cui si stanno confrontando. Una comunicazione sana richiede di essere nell’intimo franchi, leali, aperti, sinceri, interessandosi con empatia delle necessità delle persone con cui si viene in contatto.

Gli elementi fondamentali della comunicazione riguardano ciò che si dice, come lo si dice e ciò che non si dice, ovvero i segnali non verbali emessi coscientemente o, molto più spesso, inconsciamente. Il risultato fondamentale della comunicazione non è comunque ciò che è stato detto ma ciò che è stato compreso: e questo giustifica perché le persone reagiscano con manifestazioni di simpatia, antipatia, insofferenza, senza motivi propriamente riconducibili all’intenzionalità di chi ha trasmesso i messaggi.

La comunicazione è una funzione del management che ha lo scopo di definire, pianificare e gestire l’immagine dell’azienda, la reciproca informazione con il pubblico esterno ed interno da cui dipende il successo della stessa azienda. Da una parte l’immagine aziendale rappresenta il volto che l’organizzazione intende offrire al mondo esterno, dall’altra la cultura aziendale, ovvero lo spirito che anima la “comunità” aziendale. Il potere del manager nel gestire la comunicazione è riferito alla legittimità che gli viene attribuita in quanto calata “dall’alto” ed alla sua valenza di funzione strategica. Ma è una legittimità che deve sostenersi nel voler riconoscere e accettare noi stessi con le nostre virtù ma anche i nostri difetti, le nostre capacità e mancanze, per evitare di nascondere e deprimere ciò che pensiamo e percepiamo davvero.

Bisogna ammettere l’importanza di produrre una comunicazione chiara e convincente e intraprendere delle verifiche per accertare se la direzione presa sia quella attesa, se esistano aree di confusione e di disorientamento, quale genere di informazioni vengano date per scontate e, soprattutto, cosa non sia stato comunicato in maniera chiara ed esaustiva (o addirittura non sia stato detto).

In questa prospettiva per il manager non è sufficiente una corretta formulazione dei messaggi, ma l’abilità nel saper selezionare il grado di chiarezza e precisione che i singoli contesti richiedono. Il posizionamento emotivo di una buona comunicazione conta almeno tanto quanto le regole di chiarezza.

Carriera

Ogni persona ha una propria particolare visione di ciò che potremmo definire competizione sociale, le cui mete fondamentali sono nell’avere una consistente considerazione dagli altri e avere la medesima considerazione per noi stessi. Cerchiamo il riconoscimento dagli altri per rafforzare la percezione del nostro valore e il desiderio di riconoscimento progredisce proporzionalmente alla volontà di raggiungere nuovi traguardi in ambito professionale e di carriera e al desiderio di eccellere.

La personalità di ciascuno di noi riceve, elabora e inietta nel profondo le esperienze del mondo esterno che guidano lo stile di vita fornendo un modello a cui attenersi e che non è fine a se stesso. Agiamo nella cornice di questo modello nella prospettiva di realizzare i nostri obiettivi che, in realtà, hanno tutti la stessa matrice: il bisogno di possesso e di potere.

La competizione sociale, in una organizzazione, si genera per il sovrapporsi di interessi e orientamenti finalizzati ad esprimere e realizzare le proprie potenzialità.

Una corretta gestione della competizione sociale deve evitare di manifestare apertamente i propri programmi di carriera, per non provocare reazioni di invidia, suscitando antagonismo, ma cercare e incoraggiare l’approvazione di tutte le persone (colleghi, collaboratori e responsabili) con cui si viene in contatto, stabilire rapporti positivi con le persone che occupano una posizione di rilievo e che si ritiene di poter sostituire, sviluppare una rete informale di comunicazione per monitorare i feedback sulla propria persona a qualsiasi livello, farsi conoscere in tutti i settori al di fuori di quelli nei quali agite normalmente e non fidarsi eccessivamente degli altri.

L’ambizione si ricollega alla motivazione intrinseca di una persona verso una meta, all’apprendimento, alla responsabilità, alla voglia di costruire un percorso di crescita, al bisogno di migliorare e di realizzare i desideri di sviluppo. È importante distinguere tra soddisfazione e motivazione. La soddisfazione è il modo in cui le persone sentono il proprio lavoro e i differenti aspetti che lo qualificano, la motivazione è il grado in cui un individuo vuole scegliere di impegnarsi in comportamenti determinati, è, quindi, l’energia psichica interna indispensabile per raggiungere prestazioni superiori.

In sintesi, la competizione sociale e il desiderio di procedere nella carriera risultano produttivi quando si realizzano attraverso l’orientamento a:

  • un’adeguata percezione del potere;
  • confrontare le proprie abilità e i propri risultati con quelli degli altri;
  • collocare fra i propri valori primari il successo;
  • voler “bene apparire” agli altri;
  • tenersi informati sugli indicatori di successo aziendale;
  • agire sulla base dei valori che caratterizzano l’organizzazione di appartenenza;
  • agire nel rispetto del modello interattivo dell’organizzazione con la flessibilità necessaria;
  • migliorare i propri punti di debolezza.

La competizione sociale può agevolare la carriera quando il tessuto sociale consente di trasformare l’efficienza in efficacia. È inutile e dannoso partecipare alla competizione in una situazione disorganizzata, priva di regole adeguate ed eccessivamente autocratica, dove si rischia di raccogliere solo delusione e frustrazione.

La carriera è possibile solamente dove si può procedere con una dinamica produttiva per il nostro benessere, e per quello delle persone che agiscono con e per noi.

Conclusioni

L’autovalutazione effettuata non è certamente esaustiva, ma può essere un inizio per procedere autonomamente prendendo in considerazione altre competenze.

Trasportate nello “specchio della verità” il giudizio che vi siete attribuiti nella prima valutazione e quelli che avete deciso di assegnarvi durante la lettura dell’articolo. Il Δ (ovvero la differenza tra la prima impressione e ciò che ritenete sia realmente la vostra percezione), se calcolerà zero, vi restituirà la vostra vera immagine: i valori positivi corrisponderanno a un’immagine sovradimensionata e quelli negativi a una sottodimensionata.

SPECCHIO DELLA VERITÀ

Prima

Comportamento

Dopo

1 2 3 1 2 3 Δ

Autostima

Sicurezza

Impegno

Fiducia verso gli altri

Consapevolezza di sé

Concentrazione

Entusiasmo

Comunicazione

Carriera

 

Articolo a cura di Antonello Goi

Profilo Autore

Laureato presso l’Università Statale di Milano in Filosofia, ho acquisito un’esperienza nell’ambito delle Risorse Umane.
In particolare ho assunto la responsabilità, in azienda Leader delle telecomunicazioni, della Selezione del personale, della Formazione, Gestione HR, Relazioni Industriali.
Collaboro per gambelassociati per quanto riguarda la Formazione Manageriale Aziendale e Interaziendale, attraverso attività di consulenza, progettazione ed erogazione di corsi di formazione.

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