Paura, rancore, rassegnazione e coraggio nell’affrontare la complessità

L’Italia del rancore è lo scenario che emerge dal 51° Rapporto CENSIS sulla situazione del Paese al dicembre 2017. I sentimenti diffusi oscillano tra nostalgia e risentimento, nonostante la ripresa dell’export e la crescita della ricerca del benessere individuale, come indicano l’aumento delle spese per l’estetica e il tempo libero. Ciononostante merita, allora, particolare attenzione l’ipotesi CENSIS che alla base del rancore per l’attualità e della nostalgia per il tempo che fu (ripensando agli anni pre crisi 2008), sia la percezione della maggioranza degli italiani che persista il blocco dell’ascensore sociale e che, anzi, sia più facile scendere verso il basso che salire verso l’alto, rischio che l’Ente di ricerca qualifica come fantasma sociale.

E si sa che i fantasmi spaventano, in modo dichiarato o latente.

Ecco allora che fattori paralleli come il crollo demografico e un tasso d’immigrazione percepito maggiore dei dati che lo caratterizzano, soprattutto a seguito della sensazione diffusa d’incertezza e d’insicurezza, sensazione che aumenta verso un futuro che non s’intravede con speranza, ma che si teme, conducono all’assenza di una forte energia propulsiva. Anche con questi dati diventa dunque maggiormente comprensibile l’indirizzo che ha caratterizzato le campagne elettorali recenti e il loro esito.

Quali ripercussioni di tutto ciò nel quotidiano del vivere organizzativo per le persone che lavorano in situazioni complesse e contradittorie? Che cosa succede alle persone che fino a poco tempo fa erano quasi “abituate” a condurre la propria attività lavorativa in un’atmosfera d’impresa dove la positività era un must della cultura manageriale che andava dal pensiero obbligatoriamente “positivo”, passando per pseudo-motivatori aziendali da strapazzo e banalizzatori, fino alla formula penso positivo simpatico, semplice, coinvolgente, ballabile e cantato preferibilmente in gruppo evocata da una canzone di Jovanotti? (alzi la mano chi non ha mai ballato, ritmato o solo sentito io penso positivo perché son vivo, perché son vivo [… ] io penso positivo ma non vuol dire che non ci vedo)

Tutto questo in molti ambienti ha assunto però una forma stressata e stressante di obbligo alla felicità, cui da una parte legittimamente si aspira e cui si ha, per certi versi, diritto – basti pensare che, ad esempio, la Costituzione Americana prevede il diritto, appunto alla felicità -, ma forse dall’altra urge una riflessione sulle implicazioni psicologiche e sociali dell’estremizzazione di questa ricerca-dovere della felicità…

Perché l’altra faccia della medaglia di questa ricerca, quando spasmodica e bulimica, è il rischio di rassegnazione prima e /o depressione poi.

In sostanza, cosa si nasconde, dietro l’affascinante motore dello YES, WE CAN quando esso è esasperato?  E’ in agguato la stanchezza e i suoi pericoli derivanti dal non sentirsi più in grado di fare qualcosa, sentirsi in colpa per questo e quindi cadere in prospettive e comportamenti autodistruttivi. E’ questa un’interessante chiave di lettura proposta da Byung-Chul Han, filosofo sudcoreano, docente all’università di Berlino, tra i maggiori esponenti della filosofia contemporanea. Per Han la depressione è la malattia di una società che soffre dell’eccesso di positività (2012).

E’ intrigante allora prendere spunto anche da alcune considerazioni offerte da questo studioso, che si definisce quasi apocalittico, e con un salto simbolico approdare a questioni a noi più vicine che riguardano le necessità di forme leadership in contesti di cambiamento in scenari complessi, le necessità della comprensione e del governo – per quanto umanamente possibile in nome, questo sì, del We Can! – di onde emotive che attraversano i team aziendali coinvolti in progetti di trasformazione da una parte innovativi e di visione e dall’altra – seppur sfidanti – anche frustranti, per le resistenze che s’incontrano nel percorso di coinvolgimento d’interlocutori, talvolta anche al top del vertice aziendale, in parte curiosi ma troppo spesso concentrati più sul proprio ombelico, anziché sulla visione di medio-lungo periodo e sulle opportunità rappresentate dal processo di cambiamento anche per la propria funzione.

Per convivere con alti e bassi di umane paure e rassegnazione, e talvolta anche rabbia, con tutti i rischi in cui anche chi guida forme di comunità organizzativa (o più ampia) può incappare, o che può addirittura prediligere e cavalcare per meglio costruire consenso a proprio favore – per quanto demagogico ciò sia ma non è detto che tale appaia – diventa opportuno e fondamentale, a tutela del benessere proprio e organizzativo, assumere o riscoprire una qualche forma di coraggio.

Altrimenti prende il sopravvento quella che Jung ha definito la maschera sociale: “ Il soggetto sente se stesso vuoto, falso, inadeguato rispetto alle richieste della società e degli altri, timoroso di fallire, privo di principi di orientamento, ma alla ricerca della fama, della popolarità, del denaro, della bellezza, dell’apparire, del mostrarsi ed essere visibile; il fare orientato al sostenimento dell’immagine prende il posto dell’essere, la persona – la maschera sociale, ciò che si mostra al mondo esterno, secondo Carl Gustav Jung (1928) – occupa tutto lo spazio psichico. Ecco così emergere il distacco emotivo e l’inaccessibilità, la tendenza a giudicare severamente gli altri e a ritenersi onnipotenti, sopravvalutando le proprie doti, l’esibizione di un’artefatta sicurezza in se stessi, fino all’arroganza e alla prevaricazione sugli altri, l’uso strumentale delle persone come sostegni di stima personale. In questi soggetti vi sono la paura e il terrore di inadeguatezza, incompletezza, debolezza e inferiorità, il sentimento della vergogna e dell’invidia, e la minaccia costante del fallimento e dell’isolamento. Sono questi stati emotivi profondi, tutti coperti e ipercompensati da ciò che diviene visibile all’esterno. Nel mondo organizzativo tali persone mirano al successo per essere ammirate, emulate e adulate, coronando così il loro sogno e potendo usare ancor meglio gli altri in modo manipolatorio per i propri scopi personali; i danni sociali e personali, organizzativi e tecnici che questi soggetti inevitabilmente arrecano sono abilmente mascherati e razionalizzati come un prezzo da pagare per realizzare il loro (bi)sogno, anch’esso mascherato come obiettivo da raggiungere a tutti i costi” (Castiello d’Antonio, d’Ambrosio Marri, 2017).

Ecco, dunque, la necessità di un nuovo coraggio.

Il coraggio di non lasciarsi solo andare all’emozione o al dettato del momento nel puro nome della “spontaneità”, il coraggio che deriva dall’assumersi una responsabilità, di comportamento e di idee, anche quella di andare eventualmente contro corrente rispetto a luoghi comuni, al mito dell’urlato e della novità tout court a prescindere dalla competenza, al mito della visibilità a prescindere dal significato e dall’utilità, al mito del selfie e dell’autoreferenzialità a scapito dell’ascolto e dell’attenzione a ciò – e a chi – è altro da sé (in pratica a scapito del rispetto), al mito del always to be connect rispetto al diritto a uno spazio di assenza e di silenzio.

In questo, il concetto di Mindfullness aiuta e, soprattutto, aiuta la sua la pratica quotidiana come approccio esistenziale. Perché vivere la pienezza dell’esperienza, secondo Jon Kabat-Zinn (1990, 2003), uno dei suoi fondatori, implica dedicare attenzione al presente che si vive senza attivare il pensiero subito giudicante. Non certo come strada di accettazione passiva degli eventi, ma come percorso di consapevolezza piena di sé e di sé negli accadimenti. E in tal senso, anche entrare in relazione col negativo – che naturalmente il vivere implica – aiuta a identificare meglio le soluzioni migliori per risolvere i problemi. Quindi la mindfullness è uno stimolo anche alla creatività.

Il coraggio di cambiare, dunque, non è adrenalinica impazienza di ribaltare uno status quo o di essere solo contro; anzi, se così fosse sarebbe l’istinto di cambiare, che non ha nulla a che vedere con il coraggio.

Il coraggio nel vivere quotidiano implica convivere anche con l’attesa, il desiderio, l’azione mirata, la scelta e non il fare sempre e qualsiasi. In pratica, il coraggio della responsabilità, oltre che il piacere, di essere se stessi, con autenticità e consapevolezza delle possibilità, di ciò che è osabile anche in ottica del we can, e di qualche limite e relatività, con la connessa quota di umana frustrazione. Insomma, anche un po’ il coraggio di essere normali. E certo positivi!

Bibliografia

 

A cura di: Luciana d’Ambrosio Marri

Profilo Autore

Sociologa del lavoro, specializzata in psicologia del lavoro e esperta di gestione dei processi formativi. Da oltre trent’anni è consulente di management, in particolare per attività di selezione, valutazione, formazione, benessere organizzativo, coaching e sviluppo delle persone nel mondo delle imprese, PA e scuole di management. Si occupa di Diversity Management, empowerment e di tematiche di genere. Docente in master universitari, è autrice di numerose pubblicazioni in ambito HR, e coautrice di CONFLITTI. COME LEGGERE E GESTIRE I CONTRASTI PER VIVERE BENE (Giunti, 2019); RISORSE UMANE E DISUMANE. COME VIVERE OGGI SUL PIANETA R.U. (Giunti, 2017); YES WE STEM (SGI, 2016); EFFETTO D: SE LA LEADERSHIP È AL FEMMINILE: STORIE SPECIALI DI DONNE NORMALI (FrancoAngeli, 2011); COME MUOVERE I PRIMI PASSI IN AZIENDA (FrancoAngeli, 2010). Ha anche pubblicato DONNE ALL’OPERA CON VERDI (2013). Intervistata da riviste, radio e tv, interviene in convegni su temi di scenario e attualità. E’ sposata e ha un figlio. www.lucianadambrosiomarri.it

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