Leadership versus pandemia – primi passi per efficientare la P.A.

Quanti sostengono che la leadership va intesa come “un’esigenza organizzativa”[1] fondano la propria convinzione sulla costatazione che “leadership significa influenza interpersonale, significa dirigere persone, significa assumere ruoli di autorità”[2] ; da qui la consapevolezza che essa rappresenta una forma di controllo sociale laddove risulti in grado di traghettare l’organizzazione verso traguardi di cambiamento giacché – come ben noto – può incidere in maniera significativa sul clima e sulla cultura organizzativa.

La crisi conseguente alla pandemia da Covid-19, che sta condizionando in misura determinante l’ordinato andamento dell’economia e dei servizi pubblici ad essa correlati, pone oggi interrogativi pressanti circa i caratteri del ruolo richiesto ai leader; nel contempo sollecita azioni concrete per scongiurare pregiudizio alla sopravvivenza di aziende e alla efficienza dei pubblici uffici.

Se è certo che al leader non può mancare una capacità di vision organica, così da sapere coniugare intelligenza logico-matematica con intelligenza emotiva e contagiare positivamente la creatività degli individui verso la realizzazione di programmi[3], merita risposta l’interrogativo circa cosa ci si deve attendere da chi ha il compito di amministrare e guidare aziende o enti.

Ebbene, un leader al quale improvvisamente sia stato chiesto di fare fronte a un grave e non ben definito imprevisto – che ha investito non soltanto la sua organizzazione ma l’intero pianeta – innanzitutto deve essere in grado di cogliere la natura della crisi affinché sappia potere fornire un’interpretazione delle cause che hanno generato, in particolare, le difficoltà della struttura alla guida della quale sia posto valutando dinamiche e conseguenze delle stesse; dovrà dimostrare cioè quel sense-making necessario a risolvere l’incertezza per fornire una interpretazione autoritativa della situazione, scegliendo tra le diverse opzioni, animato dalla consapevolezza che non è solo e che, quindi, ha il dovere – prima ancora che l’opportunità – di avvalersi degli esperti e delle strutture che raccolgono e organizzano le informazioni riguardanti il fenomeno (vale soprattutto in questo grave frangente la considerazione che quando si governa una nave è impensabile di potere affrontare i marosi restando da soli al timone, senza coinvolgere il resto dell’equipaggio).

La necessità di uno stile collaborativo si appalesa cruciale vieppiù se si consideri che il passaggio conseguente e necessario (decision-making) si dovrà articolare nei due diversi momenti del “disegno della risposta” e della sua” esecuzione”, che si sviluppano in un contesto nuovo e imprevedibile. Il primo, correlato alla creatività del leader, chiamato ad adattare vecchie routine alla nuova situazione; il secondo, vincolato a sapere mettere in campo procedure e tentativi, ma pure correggere errori (fase in cui indubbiamente risulta decisivo il coordinamento e il controllo da parte del leader).

Collaborazione e coordinamento restano, tuttavia, azioni impraticabili laddove al leader manchi la capacità di comunicare ai soggetti coinvolti dalla crisi la natura della stessa e ciò che si sta facendo per affrontarla (meaning-making): la comunicazione, infatti, è strumento essenziale per qualsivoglia azione di cambiamento organizzativo, atteso che essa, oltre a mantenere la fiducia nei confronti del leader, risulta opportunità irrinunciabile vuoi per valorizzare le persone al lavoro ottimizzandone la partecipazione alla fase dei cambiamento vuoi per legittimare le azioni intraprese[4]. Pur senza scomodare l’ampia letteratura dedicata alle abilità necessarie per una buona leadership, nell’attuale contesto storico appare imprescindibile prendere in considerazione quelle sussunte nel concetto di intelligenza contestuale, che consentono di cogliere la realtà nella sua complessità mutevole e di adattarvisi mentre si cerca di influenzare gli eventi. Ecco che la situazione di crisi pretende che il leader possegga la capacità di aprirsi a nuove esperienze manifestando “la volontà di apprendere e assumersi rischi, l’abilità di cogliere le possibilità di risolvere la crisi e la ferma convinzione che, dopo la crisi, le persone e l’organizzazione emergeranno migliori”[5].

Da qui la fiducia che il fenomeno generato dal Coronavirus possa restituire leader non più immersi nell’attività “funzionariale”, poco capaci di organizzare e programmare il lavoro, quanto piuttosto, leader in grado di fare emergere quelle professionalità dotate (anch’esse) di vision, motivate a superare la crisi in atto e a conseguire livelli di efficienza. Quanto a questa attitudine, appare opportuno non sottrarsi alla necessità di svolgere alcune considerazioni con riguardo alla sponda che nel nostro Paese è risultata più fragile nel contesto pandemico, vale a dire gli uffici pubblici della nostra nazione, in ordine al mal funzionamento dei quali si sta ampiamente dibattendo, nella fiducia di mettere a fuoco – finalmente – metodiche e strumenti che producano il cambiamento da tempo atteso e ormai improcrastinabile.

Il fenomeno COVID-19 a cui si è provato a fare fronte ricorrendo – con un’accelerazione inverosimile impressa allo “smart working” (il lavoro agile da tempo auspicato e sempre negletto) -, infatti, ha evidenziato in modo marcato come la Pubblica Amministrazione italiana risulti affetta da patologie che, per essere sanate, necessitano quanto meno di incisivi interventi formativi. Da sempre dichiarata volano del cambiamento, salvo sparute esperienze, la formazione dei pubblici dipendenti, purtroppo, non è mai stata strutturata né gestita alla stregua di pilastro capace di assicurare efficacia all’azione della PA; tanto meno di sorreggerne gli obiettivi di efficacia e di economicità.

Tale formazione, pertanto, andrà ripensata (anche in forma generativa) privilegiando la qualità alla quantità, coinvolgendo soggetti portatori di competenze ed esperienze, evitando soluzioni standard inefficaci, maggiormente nel superamento di problemi complessi, non routinari (COVID-19 docet!)[6].

Accanto alla formazione come innanzi delineata si dovrà dare avvio alla realizzazione dello sviluppo digitale dei servizi pubblici. L’esperienza maturata in questi mesi ha evidenziato la ridondanza di procedimenti oltre che la farraginosità delle procedure. Una pubblica amministrazione davvero moderna e capace di velocizzare i rapporti con il sistema produttivo ha il dovere di cambiare registro ricorrendo alla digitalizzazione, presupposto per conseguire una effettiva produttività. Big data e intelligenza artificiale, difatti, possono cambiare il modo di erogare servizi aumentando l’efficienza anche in settori complessi come la sanità, l’istruzione e la tutela dell’ordine pubblico (messi a dura prova proprio dal COVID-19).

Con i big data si potrebbe fare molto in questa direzione a condizione che si avvii da subito il reclutamento, soprattutto per i ranghi dell’amministrazione centrale (ministeri, enti, società partecipate) di personale qualificato – come economisti, sociologi, statistici, informatici, data scientist – poiché oggi più che mai servono competenze organizzative, manageriali e tecnologiche per gestire i cambiamenti necessari, per pianificare e programmare il lavoro che è ormai per progetti/obiettivi e non più per atti.

La digitalizzazione dei processi, per essere efficace e produttiva, necessita di una preliminare fase di analisi delle procedure e dei servizi erogati, al fine di razionalizzarli eliminando tutte quelle criticità, di diversa natura, che appesantiscono il servizio nella situazione “as is”.

Ove si ignorasse ancora questa esigenza si determinerebbe paradossalmente che l’informatizzazione amplifichi le criticità e le disfunzioni facendo accrescere il rischio di stress correlato alle nuove modalità di lavoro[7]. Verso questo obiettivo sarà di ausilio la dematerializzazione, che, tuttavia, dovrà essere preceduta anch’essa da un’adeguata formazione del personale interessato (a partire dalla dirigenza) con riferimento anche l’attenzione all’utenza.
Sarà questa l’occasione per dare vita ad ambienti di lavoro dove la relazione fiduciaria costituisce l’elemento fondamentale per sviluppare l’idea che, al di là di una visione esclusivamente performativa, al centro del lavoro c’è la persona.

Possa essere faro del nostro agire l’affermazione di Meggison:

Potete comprare il tempo di un uomo. Potete comprare la sua presenza in un determinato luogo. Potete persino comprare un certo numero di prestazioni lavorative da svolgersi a un ritmo prestabilito. Non potete comprare l’entusiasmo. Non potete comprare l’iniziativa, la fedeltà, l’appartenenza, la devozione del cuore, della mente e dell’anima. Queste sono cose che dovete conquistare.

 

Note

[1] Cfr. De Giosa V., La Leadership Organizzativa, Leadership & Management, 19 settembre 2018.

[2] Bodega D., Le forme della leadership, Etas, Milano, 2002.

[3] De Giosa V., Di Sabato T., Le organizzazioni di successo, Youcanprint, Lecce, 2020.

[4] De Giosa V., Di Sabato T., Cambiare le organizzazioni, Libellula, Tricase, 2015.

[5] James E. H., Wooten L. P., Orientation of Positive Leadership in Times of Crisis, in Spreitzer G. M., Cameron K. S. [a cura di], The Oxford Handbook of Positive Organizational Scholarship, (pubblicato online nel novembre 2012).

[6] Bochicchio F., Di Sabato T., Apprendimento e cambiamento nelle organizzazioni, Libellula, Tricase, 2018.

[7] Hammer M., “Reengineering Work: Don’t Automate, Obliterate”, Harvard Business Review, no. 4, 1990.

 

Articolo a cura di Tommaso Di Sabato

Profilo Autore

Docente presso la Scuola di Alta Formazione della UNINT- Roma e Collaboratore del Consorzio Interuniversitario sulla Formazione – Torino.
Già Direttore vicario della Ripartizione Risorse Umane di UNISALENTO e Professore a contratto dei Corsi di Laurea in Scienza dell'Amministrazione - Facoltà di Giurisprudenza di UniTELMA – Roma.

Condividi sui Social Network:

Articoli simili