La salute psico-fisica dei collaboratori. Il ruolo del CMHO

I leader, oltre a mantenere saldo il proprio equilibrio mentale, come abbiamo visto nel precedente articolo, hanno anche il compito, non certo facile, di saper gestire quello dei loro stessi collaboratori.

La politica aziendale nel prossimo futuro dovrà perciò prevedere un approccio più determinato nei confronti delle questioni relative alla salute – in particolare quella psicofisica – dei collaboratori che operano in azienda.

In altri termini, occorre una strategia mirata per prevenire, non solo i problemi di sicurezza sul lavoro, che, soprattutto nel nostro Paese, restano particolarmente sentiti, o affrontare questioni sanitarie in vista di futuri casi di pandemia, ma anche per garantire ai collaboratori uno stato di salute e benessere psicologico, che consenta loro di confrontarsi con i problemi sempre più complessi di oggi, tanto per fare un esempio, quelli relativi alla sostenibilità ambientale o alle possibili implicazioni psicologiche di una guerra.

Le figure del CHO e del CHMO a fianco dei responsabili HR

In alcune aziende, di fronte a questi temi sono state introdotte delle funzioni che si stanno rivelando particolarmente strategiche ed utili, come quelle del CHO, Chief Health Officer e del CHMO, Chief Health Menthal Officer, figure che si affiancano al responsabile delle HR, siedono nel board e sono in grado di assumersi la responsabilità di tutti i fattori che contribuiscono alla salute fisica e psichica dei dipendenti.

La salute, infatti, va considerata in senso olistico, come una risorsa imprescindibile per la vita quotidiana di ogni lavoratore, una condizione che va preservata per favorire l’individuo affinché possa realizzare le proprie aspirazioni personali e soddisfare i propri bisogni ma anche nell’interesse stesso dell’azienda che deve fare affidamento su collaboratori attivi, motivati, performanti, in grado di affrontare con consapevolezza anche situazioni complesse.

Sulla salute in azienda: quello che c’è e quello che dovrebbe esserci

Ripensare a una seria politica sanitaria aziendale che, se necessario, preveda adeguate forme di investimento, diventa quindi estremamente importante.

Accanto ai programmi, in genere già presenti, di assistenza, di screening delle condizioni di salute dei collaboratori, l’agenda dell’organizzazione non dovrà sottovalutare, oltre a verifiche sui rischi sanitari esistenti (malattie professionali, burnout, ecc.), anche l’attuazione di iniziative in grado di monitorare il livello di ansia o depressione che in questi ultimi tempi sembra decisamente aumentato.

Ricordiamo per inciso che l’adozione, spesso accelerata, dello smart working, l’introduzione di sistemi di AI (Intelligenza Artificiale) e ML (Machine Learning), l’aumentata spersonalizzazione dei rapporti tra le persone, lo squilibrio tra lavoro e vita privata, ecc. hanno incrementato il rischio psicosociale presente in tutti i luoghi di lavoro, a maggior ragione nell’attuale situazione di crisi.

In questo quadro generale, non va sottovalutato nemmeno un altro compito delicatissimo che dovrebbe essere a capo dell’HCO, cioè il Piano di continuità operativa, detto anche Disaster Ricovery Plan, BCP, per affrontare emergenze e consentire all’azienda di continuare ad operare anche di fronte a situazioni complesse (sia di ordine sanitario, come la pandemia, che di ordine sociale, come la guerra) che potrebbero causare danni imprevedibili e incalcolabili.

Risponde il prof. Alessandro De Carlo, psicologo

A questo proposito abbiamo rivolto alcune domande ad Alessandro De Carlo, docente di Psicologia del Lavoro presso diverse università italiane.

Sta emergendo in questi ultimi tempi (innovazioni tecnologiche, pandemia, guerra, ecc.) sempre di più la necessità di introdurre nell’ambito delle imprese accanto al responsabile delle HR, anche una figura che si occupi della salute dei collaboratori, in particolare di quella psicofisica. Qual è la situazione in Italia?

La situazione ha luci e ombre. Da una parte abbiamo una legislazione che, seppur non perfetta, è stata una delle prime a prendere in considerazione la necessità di tutelare la salute psicofisica (L.81/08 – Rischio stress lavoro-correlato), dall’altra abbiamo una cultura che non sempre mette queste tematiche al primo posto. La condizione nettamente peggiorata dal punto di vista della presenza e dell’impatto degli “stressor”, con conseguente aumento di sintomatologia psicologica e psicofisica stanno cambiando rapidamente questo contesto: la necessità di prendersi cura delle persone è oggi più che mai argomento di grande attualità e interesse.

Molte aziende investono già nel benessere e nella sicurezza del lavoro dei propri collaboratori, ad esempio con gli screening della salute dei dipendenti ma, allo stesso tempo, aumentano casi di disagio, stress, ansia, depressione, burnout (oltre al fenomeno della great resignation). Dal suo punto di vista, ritiene che le aziende italiane siano diventate più sensibili a questi problemi? Cosa sarebbe necessario fare per migliorare la situazione?

Le aziende sono diventate certamente più sensibili “per necessità”. Sono anni che gli esperti del settore portano dati concreti sul ritorno, anche economico, dell’investimento sulla salute psicologica delle persone ma con scarso risultato. D’altra parte abbiamo anche tanti dati sul maggior costo, per fare un esempio, dei lavori a seguito delle alluvioni rispetto alla tutela dei boschi, ma la tendenza a non investire per tempo è radicata. Adesso abbiamo avuto l’equivalente psicosociale dell’alluvione, per cui si corre ai ripari. Bisogna anche dire che chi aveva investito si è comunque trovato di fronte a una situazione molto particolare rispetto al prevedibile: tutti stanno vedendo gli effetti negativi della pandemia e della guerra. Il primo cambiamento fondamentale deve essere culturale: il punto non è “a cosa mi obbliga la legge in tema di tutela della salute?” ma “prendermi cura delle persone significa costruire un ambiente positivo che vive meglio, lavora meglio, è in grado di superare i momenti di difficoltà”. Questa idea deve entrare nella bussola delle organizzazioni, non deve essere un corpo esterno di cui a volte ci si ricorda: deve permeare tutto dalla progettazione dei prodotti servizi, anche in chiave etica (che è una componente importante del benessere psicologico di chi lavora) alla gestione delle risorse umane, alla presenza nel mercato e alle azioni di responsabilità sociale d’impresa. Poi, tecnicamente, ci sono azioni abbastanza semplici come tenere monitorato lo stress/disagio, offrire servizi di salute, formare le persone.

Quali competenze cliniche, diagnostiche e di intervento dovrà avere il CMHO? In capo al CMHO dovrebbe, secondo lei, essere prevista anche la gestione del Piano di continuità operativa, o Disaster Ricovery Plan.

Il CMHO è un’idea che si sta diffondendo rapidamente proprio perché c’è bisogno di creare una cultura diffusa della salute. In questa prospettiva serve un ruolo apicale, non solo tecnico, che possa dialogare con i vertici e avere discrezionalità e possibilità di manovra. Inoltre si tratta di un tema pervasivo e complesso, che necessita di competenze vaste e profonde. Supportare l’introduzione di una figura di questo tipo con i piani pubblici significherebbe rendere le aziende dei presidi di salute sul territorio. Ricordiamo che la base concettuale della nostra Sanità, e la ragione per cui funziona nonostante investiamo meno dei Paesi a noi vicini, è proprio la sua capillarità. Certo, significa entrare nella logica di sussidiarietà pubblico-privato che spesso è menzionata anche nei documenti ufficiali ma che è spesso vista con sospetto o non è sufficientemente considerata. Ripeto: il punto è che l’intero sistema-paese, e le aziende ne sono parte integrante e fondamentale, diventi salutogenico. Le aziende possono e “dovrebbero volere” avere un ruolo centrale in questo processo.

Presso il PSIOP sappiamo che esiste un corso per futuri CMHO. Ce ne vuole accennare, sintetizzando quali possono essere le aree di intervento in azienda?

In PSIOP esiste solo un corso: la specializzazione quadriennale in psicoterapia, che è l’unico titolo professionale post-lauream previsto dal nostro Ordinamento giuridico. All’interno della specializzazione viene inserita la formazione utile a svolgere il ruolo di CMHO. Il punto sta proprio qui: integrare le competenze manageriali necessarie per gestire un ruolo di tale complessità e rilevanza all’interno di un percorso riconosciuto. Nella nostra prospettiva riteniamo che il CMHO debba essere di area psicologica e specialista. Di area psicologica perché gli psicologi tendono ad avere una visione più “diffusa” del concetto di salute e, nella percezione collettiva, sono meno associati al paradigma patologia-diagnosi-cura. Specialista per due motivi: il primo è che lo stato riconosce la specializzazione e quindi avere un professionista al massimo grado di formazione possibile tutela maggiormente il datore di lavoro, il secondo è che nella prospettiva di sussidiarietà di cui sopra si immagina che le aziende si interfaccino con il SSN, i cui dirigenti sono tutti specialisti medici o delle professioni sanitarie. Riteniamo che un CMHO debba potersi porre allo stesso livello nella collaborazione per la realizzazione di partnership e progetti condivisi a favore della salute.

 

Articolo a cura di Ugo Perugini

Profilo Autore

Ugo Perugini. Giornalista, blogger, collaboratore di “Vendere di più”- https://www.venderedipiu.it/, “Az Franchising” - https://azfranchising.com/az-franchising-magazine/ -, DM&C - http://www.dmcmagazine.it ; HR on line - www.aidp.it/riviste/indice-hronline.php. In passato, ha collaborato con “Beesness”- www.beesness.it ; Together HR, blog di Sky Lab http://www.togetherhr.com/bloghr-blog-risorse-umane/- “Senza Filtro” https://www.informazionesenzafiltro.it e altre pubbllicazioni
Il blog che cura è https://capoversonewleader.wordpress.com/

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