Anche il “lavoro agile” può aiutare a rinnovare l’Italia

Lo stato dell’arte del lavoro da remoto

Nel 2022 in Italia il lavoro da remoto – più comunemente definito con l’inglesismo smart working – sebbene continui a essere utilizzato in modo consistente, ha fatto registrare complessivamente quasi 500 mila unità in meno, rispetto al 2021, fermando l’indicatore delle persone al lavoro che hanno beneficiato di questa modalità operativa a circa 3,6 milioni di soggetti.

Infatti lo smart working, che risulta presente nel 91% delle grandi imprese italiane (era l’81% nel 2021 con mediamente 9,5 giorni di lavoro da remoto al mese), ha fatto registrare una tendenza opposta nelle PMI in cui la modalità operativa è passata dal 53% al 48% delle realtà (con una media di utilizzo pro unità di circa 4,5 giorni al mese). Anche nella pubblica amministrazione la diffusione del lavoro da remoto ha rallentato il suo impiego passando dal 67% dell’anno scorso a circa il 57% del 2022 (con in media 8 giorni al mese per unità lavorativa)[1].

La discesa del dato trova una sua ragione d’essere, in generale, in quella cultura organizzativa tesa a privilegiare il controllo della presenza a fronte del rilievo dei risultati; per cui lo smart working viene percepito più come una soluzione eccezionale confondendola spesso con altri istituti vocati alla conciliazione lavoro/famiglia.

Per quanto riguarda i pubblici uffici, costituisce remora all’affermarsi di questa metodologia lavorativa oltre al limite culturale prima evidenziato, il ritardo nella realizzazione dei necessari processi di riorganizzazione della pubblica amministrazione , il lento avviarsi della digitalizzazione dei processi ma, soprattutto, la scelta del Governo di volere considerare la prestazione da remoto strumento da impiegare in casi fuori dal comune, come in occasione della pandemia da COVID-19, nella infondata presunzione che privilegiare il contatto personale tra uffici e utenza possa consentire di conseguire più elevati livelli di efficienza e di efficacia.

Il lavoro da remoto e il COVID-19 nella pubblica amministrazione

La nuova modalità di lavoro è stata introdotta nell’ordinamento che disciplina il lavoro dei pubblici dipendenti dalla legge 7 agosto 2015, n. 124[2] che ha disposto l’obbligo di adottare, nei limiti delle risorse di bilancio disponibili a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, misure organizzative volte a fissare obiettivi annuali per l’attuazione del telelavoro. Con la successiva legge del 22 maggio 2017, n. 81 (meglio nota con “Jobs Act”)[3], il lavoro da remoto, voluto per “incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” verrà qualificato come “lavoro agile”.

La legge circoscrive i caratteri del “lavoro agile” richiedendo che esso vada delineato mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario e di luogo di lavoro, prevedendo che la prestazione possa avvenire in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno, senza una postazione fissa, ed entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici: da qui la rappresentazione di modalità lavorativa “agile” .

E’ però solo con la Direttiva n. 3/2017, a firma del Presidente del Consiglio dei Ministri e della Ministra Madia, che si forniscono al management della pubblica amministrazione gli indirizzi per l’attuazione di quella riorganizzazione dei pubblici servizi prevista come prodromica alla “riorganizzazione” annunciato dalla legge del 2015.

Ma ecco che i dirigenti pubblici non avevano ancora fatto in tempo a metabolizzare le novità volute dalla novella normativa, che il nostro Paese, nel contesto globale di una pandemia, è stato chiamato a fare i conti con la sciagura del COVID-19. Dinanzi alla urgente esigenza di salvaguardare la salute delle persone al lavoro assicurando al meglio l’efficienza e l’efficacia l’operato dei pubblici uffici si è di fatto realizzata un’accelerazione verso il ricorso al “lavoro agile”, assurto addirittura al ruolo di “modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni” e ciò sebbene la pubblica amministrazione non avesse ancora avviato le auspicate procedure volte a quel riordino presupposto per consentirle di produrre effetti concreti a vantaggio dell’utenza e del Paese.

Ora che sembrerebbe avviata a conclusione, almeno si spera, la fase acuta della pandemia il Dipartimento della Funzione pubblica, dimentico delle migliorie organizzative esito della esperienza emergenziale e poco curandosi delle rilevazioni compiute in ordine agli effetti prodotti dal lavoro da remoto come pure dei benefici registrati, ha deciso di avviare il rientro in presenza del personale dipendente dei pubblici uffici[4].

Per quanto riguarda i vantaggi procurati dal ricorso al “lavoro agile” vale la pena di dare atto in questa sede dei dati emersi dall’indagine svolta nei giorni tra il 14 e il 28 giugno scorso dal Politecnico di Milano che ha analizzato le risposte fornite da un campione di 2.818 persone tra dirigenti, funzionari, ricercatori. L’esito della ricerca ha accertato, ad esempio per il personale dell’Inail, come l’efficienza nello svolgimento delle attività sia sensibilmente migliorata rispetto al periodo pre-COVID-19 grazie proprio al ricorso al “lavoro agile”. I ricercatori del Politecnico lombardo, inoltre, hanno posto l’accento sul fatto che la maggioranza dei dipendenti intervistati segnala un miglioramento complessivo della conciliazione tra vita privata e lavorativa come anche nella flessibilità nella gestione delle attività con conseguente maturazione di un concreto benessere fisico e psicologico che ha riverberato efficienza nel lavoro a fronte di efficacia nella comunicazione con i colleghi.

Ma c’è di più: l’osservatorio del Politecnico di Milano ha segnalato il non trascurabile fatto che il ricorso al lavoro da remoto oltre a produrre la concreta riduzione della CO2 emessa nell’atmosfera (che risulta essere equivalente nel 2021 a quella assorbita da 24mila alberi, pari a tre volte la superficie della Città del Vaticano), con riferimento alla mobilità, ha limitato gli spostamenti dei pubblici dipendenti generando un risparmio di 80 ore all’anno pro capite e una riduzione dei costi di circa 1.400 euro annui per lavoratore.

La “mossa del gambero” e il “lavoro agile”

Con l’intento di favorire la produttività e l’orientamento ai risultati e di conciliare le esigenze delle lavoratrici e dei lavoratori con quelle organizzative delle pubbliche amministrazioni, consentendo ad un tempo l’auspicato miglioramento dei servizi pubblici e l’equilibrio fra vita professionale e vita privata, il DPCM dell’ottobre dello scorso anno, nel mentre ignora i vantaggi conseguiti e quelli ulteriori (possibili) prodotti dal ricorso al “lavoro agile”, accenna -alla stregua del movimento di un gambero- un passo in avanti indicando che per meglio organizzare il lavoro da remoto dei lavoratori pubblici è necessaria la definizione di apposite “Linee guida” da definire con il confronto con le organizzazioni sindacali[5].

L’occasione delle trattative per il rinnovo dei Contratti 2019-2021 ha giocato a favore della produzione delle predette “Linee guida” in questione che hanno visto la luce nel dicembre 2021, dopo il parere favorevole della Conferenza unificata Stato -Regioni. Si è trattato certamente di un lavoro impegnativo tant’è che la Commissione tecnica sul lavoro agile nella PA, nominata l’8 marzo scorso dal Ministro Brunetta, non ha esitato a definirlo “la cifra concreta del più generale processo di trasformazione e modernizzazione della Pubblica amministrazione e, al tempo stesso, un chiaro segnale di come il lavoro pubblico possa davvero rappresentare un tassello non marginale e non in controtendenza rispetto alle grandi trasformazioni in atto per ripensare il lavoro nel nostro Paese”.

Sulla carta le nostre “Linee guida” sanciscono che il “lavoro agile” è strumento di innovazione organizzativa e di modernizzazione dei processi, capace di conciliare le esigenze di benessere e di flessibilità dei lavoratori con gli obiettivi di miglioramento del servizio pubblico nonché con le specifiche necessità tecniche delle attività e demandano alla competenza delle singole amministrazioni , in particolare attraverso i PIAO, la individuazione delle attività che possono essere effettuate in lavoro remoto[6]. Ancora: attraverso gli istituti di partecipazione previsti dai CCNL, alle amministrazioni è richiesto di facilitare l’accesso al “lavoro agile” ai lavoratori che si trovino in condizioni di particolare necessità, non coperte da altre misure (come il telelavoro).

Non è tutto oro quel che luccica…

Un popolare proverbio recita: “se son rose… fioriranno” volendo con ciò affermare che solo il tempo permette di stabilire se quelle azioni che attualmente appaiono come potenzialità si potranno realizzare in senso positivo.

Quanti conoscono la pubblica amministrazione nazionale ben sanno, purtroppo, che il tempo e le sole condizioni poste dal legislatore o dal Dipartimento della Funzione pubblica non possono costituire mezzo in grado di produrre le attese “rose” (si pensi ai decenni trascorsi dopo l’adozione delle prime brumose norme di riordino dei pubici uffici) e ciò vieppiù se si tiene conto che buona parte delle fasi per concretizzare il “lavoro agile” costituiscono oggetto della contrattazione con le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori.

Ecco che non essendo “tutto oro quel che luccica…” occorrerà che, come esposto anche dalle colonne di questo Magazine, si insista per mettere fuoco vuoi i requisiti da richiedere alla leadership pubblica a cui va affidata l’impresa di assicurare il “lavoro agile” del futuro, vuoi le modalità di impiego degli strumenti di miglioramento delle persone al lavoro (formazione, delega e lavoro di gruppo), che possono a contribuire al successo delle organizzazioni[7].

Per un cambiamento che faccia vincere le scommesse oggi sul tavolo post-pandemico anche nel senso di rendere attuabile il PNRR, infatti, alla guida dei pubblici uffici occorrono dirigenti disposti ad aprirsi a nuove esperienze, perché dotati di “volontà di apprendere” dalle situazioni mutevoli e in grado di assumersi rischi[8] vale a dire soggetti non più immersi nell’attività “funzionariale” ma versati ad operare, come ha sostenuto recentemente il Presidente dell’ARAN, con “maggiori livelli di autonomia… con maggiori capacità di operare in contesti lavorativi con elevato grado di informatizzazione … atte a gestire gruppi ibridi in presenza e a distanza… senza trascurare il benessere delle persone e la produttività” [9].

Senza entrare nel merito di tutti gli strumenti di cambiamento, si tenga conto che poiché la formazione è il volano di ogni riorganizzazione, ci sarà urgenza di una costante e corposa progettazione di eventi formativi di tipo specialistico. Sarà opportuno privilegiare, oltre alle tecniche di impiego della informatizzazione, i saperi propri dei profili professionali da impiegare come pure le conoscenze di tipo psico-sociologico, così da rendere efficienti le relazioni e la comunicazione tra le persone al lavoro e più efficace e il confronto con l’utenza.

Con riguardo alle metodiche della formazione un posto di primo piano va riservato alle “comunità di pratica” in quanto rappresentano una forma di negoziazione implicita tra gli attori organizzativi, capace di produrre l’effetto di realizzare legami che, determinando quella intesa atta ad alimentare lo stare insieme con regolarità, hanno il pregio di porre in secondo piano i vincoli organizzativi di tipo gerarchico, che sovente rendono farraginosi i percorsi formativi generando barriere comunicative tra i diversi ruoli[10].

Alle “comunità di pratica”, infatti, va riconosciuto il merito di sapere mettere a fattor comune storie, linguaggi, routine, sistemi di attività, valori che, quindi, rappresentano l’esperienza della comunità a cui attingere. Esse, pertanto, sono finalizzate a generare apprendimento organizzativo collettivo atteso che quanti ne fanno parte sono in grado di condividere modalità di azione e d’interpretazione della realtà costituendo nel loro insieme una organizzazione informale allo interno di organizzazioni formali più ampie, articolate e complesse[11].

A queste condizioni sarà possibile un cambio nel mix di professioni attualmente presente nelle amministrazioni pubbliche, giacché il lavoro da remoto dà forza all’autonomia e, conseguentemente c’è bisogno che i pubblici dipendenti operino con un presidio più largo del proprio ambito operativo, assumendo contestualmente maggiori responsabilità. Ciò ovviamente apre la strada ad un reclutamento del personale pubblico svolto in modo adeguato alle sfide dei tempi che viviamo e in grado di surrogare le professionalità obsolete.

Vale la pena di affidarsi alla fiducia espressa dal poeta inglese Alfred Tennyson: ”Non sarà mai tardi per cercare un nuovo mondo migliore, se nell’impegno poniamo coraggio e speranza.”

Note

[1] I dati sono ricavati dalla ricerca dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, presentata durante il convegno “Smart Working: Il lavoro del futuro al bivio” il 20 ottobre 2022.

[2] La epigrafe della legge annuncia l’obiettivo ambizioso di “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, GU Serie Generale n.187 del 13-08-2015.

[3] “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”, GU n. 135 del 13 giugno 2017.

[4] Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 ottobre 2021, “Modalità organizzative per il rientro in presenza dei lavoratori delle pubbliche amministrazioni”, G.U. n. 245 del 13 ottobre 2021. Il provvedimento, che prevede il rientro al lavoro in presenza di tutti i dipendenti pubblici, dal 15 ottobre 2021, rinvia all’adozione del PIAO (Piano integrato di attività e organizzazione) delle singole amministrazioni l’individuazione delle modalità organizzative.

[5] La scelta del confronto è frutto del “Patto Governo – Sindacati per l’innovazione del lavoro pubblico e l’innovazione sociale”, sottoscritto il 10 marzo 2021 con l’obiettivo di delineare gli snodi tecnici della necessaria transizione dal lavoro agile emergenziale a una nuova organizzazione del lavoro nelle amministrazioni pubbliche.

[6] Previo confronto con le organizzazioni sindacali – fermo restando che sono comunque esclusi i lavori in turno e quelli che richiedono l’utilizzo costante di strumentazioni non remotizzabili.

[7] Si veda De Giosa V., Di Sabato T., Le organizzazioni di successo. Dall’analisi del clima organizzativo alle strategie di leadership, Youcanprint, Lecce, 2020.

[8] Si veda James E. H., Wooten L. P., Orientation of Positive Leadership in Times of Crisis, in Spreitzer G. M., Cameron K. S. [a cura di], The Oxford Handbook of Positive Organizational Scholarship, (pubblicato online nel novembre 2012).

[9] Naddeo A., “Lo smart working cambia professioni e dirigenti”, Il Sole 24 ore, 19 ottobre 2022.

[10] Si veda Wenger E., Communities of practice – Learning, meaning, and identity, Cambridge University Press, 1998.

[11] Di Sabato T., “E-learning e Comunità di pratica – antidoto agli effetti della pandemia sulla formazione”, Leadership & Management, 7 gennaio 2021.

 

Articolo a cura di Tommaso Di Sabato

Profilo Autore

Docente presso la Scuola di Alta Formazione della UNINT- Roma e Collaboratore del Consorzio Interuniversitario sulla Formazione – Torino.
Già Direttore vicario della Ripartizione Risorse Umane di UNISALENTO e Professore a contratto dei Corsi di Laurea in Scienza dell'Amministrazione - Facoltà di Giurisprudenza di UniTELMA – Roma.

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