Transfer pricing, relazione di controllo allargata nelle ipotesi di influenza economica

Con alcune recenti pronunce – Cass. Civ., n. 15668 del 17.5.2022 e Comm. Trib. Reg. Lombardia, n. 1011 del 16.3.2022 – la giurisprudenza tributaria è tornata ad affrontare il tema riguardante l’individuazione del perimetro soggettivo di applicazione delle norme sui prezzi di trasferimento nei gruppi di imprese. L’occasione è fornita all’esito di contenziosi tributari instaurati al termine di verifiche fiscali a carico di contribuenti che registravano legami partecipativi con imprese estere, nell’ambito di strutture di joint ventures paritetiche. Segnatamente, le contestazioni degli organi accertatori rilevavano l’esistenza di una relazione di controllo fra il soggetto residente e quello non residente, che giustificava il ricorso alle disposizioni in materia di transfer pricing a norma dell’art. 110, comma 7 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (“T.U.I.R.”). Al riguardo, secondo la disciplina domestica[1], le operazioni intercorse con società non residenti nel territorio dello Stato che, direttamente o indirettamente:

  • controllano l’impresa residente;
  • sono controllate dall’impresa residente;
  • sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa residente,

devono essere valutate alle medesime condizioni e prezzi che sarebbero stati pattuiti tra soggetti indipendenti operanti in condizioni di libera concorrenza e in circostanze comparabili. Le linee guida per l’applicazione delle norme sui prezzi di trasferimento, introdotte con Decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze 14 maggio 2018 (“D.M. 2018”), individuano il rapporto di interessenza (diretta e indiretta) di due entità – rilevante ai fini della disciplina sui prezzi di trasferimento – nella gestione, nel controllo o nella partecipazione al capitale di una società, in ragione della partecipazione per oltre il 50% nel capitale, nei diritti di voto o negli utili dell’altra impresa (ovvero entità partecipate da uno stesso soggetto), e nell’influenza dominante sulla gestione di quest’ultima in virtù di vincoli azionari o contrattuali.

Partendo da queste premesse, non è irrituale che l’Agenzia delle Entrate accerti l’esistenza di un controllo societario “allargato” sul (o da parte del) soggetto estero – pur in presenza di una partecipazione di diritto non maggioritaria – individuando, quale presupposto applicativo della disciplina, l’influenza dominante esercitata dall’impresa italiana sul soggetto non residente (o viceversa). Questa tesi, secondo l’Erario (e parte della giurisprudenza stessa), troverebbe sostegno fin dalla risalente Circolare Ministeriale n. 32/1980, in base alla quale il «criterio di collegamento che determina l’alterazione dei prezzi di trasferimento è costituito spesso dall’influenza di un’impresa sulle decisioni imprenditoriali dell’altra, che va oltre i vincoli contrattuali o azionari sconfinando in considerazioni di fatto di carattere meramente economico». Per cui, il concetto di controllo dovrebbe essere ampliato oltre alle casistiche di controllo “civilistico” (art. 2359 cod. civ.[2]), contemplando ogni ipotesi di influenza economica potenziale o attuale[3] del soggetto residente (controllo di fatto).

Valgano, per chiarezza espositiva e a titolo di esempio erga omnes, le casistiche affrontate nelle due sentenze citate.

Nel caso analizzato dalla Corte di Cassazione, una società italiana (distributrice di gas naturale di origine russa destinato al mercato italiano) era partecipata pariteticamente da un socio italiano e uno russo, e vendeva il prodotto unicamente ad un cliente (italiano) non appartenente al gruppo.

All’esito della verifica, si accertava che il distributore italiano svolgeva una mera attività di intermediazione a favore del socio estero (esportatore del gas) nei confronti del cliente (acquirente del gas), sollevando così una contestazione di indeducibilità di costi eccedenti il “valore normale” dei beni acquistati (secondo la previgente formulazione dell’art. 110, comma 7 del T.U.I.R., che rimandava all’art. 9, comma 3 del medesimo testo unico), poiché la società russa – fornendo alla controllata italiana la totalità del prodotto rivenduto sul mercato locale – esercitava un’influenza economica dominante su quest’ultima, che non avrebbe potuto diversamente operare senza i prodotti e la cooperazione tecnica del socio estero. La parte verificata contestava la tesi dei verificatori evidenziando invece la misura paritetica della joint venture, realizzata sia con la fornitura del gas dal socio estero e sia con la fornitura del servizio di trasporto dal socio italiano tramite metanodotto presente sul territorio austriaco (ove si realizzava la compravendita del prodotto da rivendere in Italia).

Nella seconda sentenza, i giudici tributari lombardi analizzavano invece una controversia riguardante la determinazione del tasso di remunerazione (royalty) per il trasferimento di know-how tecnico ad una società indiana di joint venture, costituita per entrare nel mercato locale del sistema di cabina per trattori agricoli, nonché per la fornitura di supporto tecnico e l’assistenza alla creazione dei processi di produzione e fabbricazione dei prodotti.

L’Ufficio rideterminava le royalties dovute dalla joint venture indiana alla società italiana dall’1,75% (contrattualmente stabilito) al 3% (inquadrandolo fra i «canoni oscillanti tra il 2 e il 5%» secondo la Circolare Ministeriale n. 32/1980) richiamando un controllo societario “allargato”, avendo accertato che l’attività della partecipata estera era sostanzialmente dipendente dalla tecnologia, dal know-how e dal marchio forniti dal soggetto italiano. Individuando un legame strategico con quest’ultimo, che forniva alla società indiana una superiorità tecnologica senza la quale la joint venture non avrebbe potuto operare, portando così ad accertare un’influenza (economica) dominante dell’entità italiana. Questa totale dipendenza tecnologica non poteva quindi essere confrontata – in misura paritetica – con gli ordinari corporate services (es. rapporti con le banche, rete commerciale e rapporti con il territorio) forniti dall’altro azionista (anch’esso di nazionalità indiana), in contrasto con la tesi del contribuente secondo cui negli anni nessuno dei due soci aveva acquisito una posizione strategica dominante sull’altro.

In entrambe le sentenze, i giudici hanno preso posizione a favore dell’ipotesi del controllo societario “allargato” per l’applicabilità delle norme in materia di prezzi di trasferimento.

In particolare, è stato chiarito che il controllo richiesto dalla norma sul transfer pricing non coincide strettamente con quello di cui all’art. 2359 cod. civ., ma si estende ad ogni ipotesi in cui venga esercitata potenzialmente o attualmente un’influenza sulle altrui decisioni imprenditoriali, desumibile da singole circostanze quali:

  • la vendita esclusiva da parte di un’impresa dei prodotti dell’altra (cfr. Cass. Civ., n. 15668/2022);
  • l’impossibilità di funzionamento di un’impresa senza il capitale, i prodotti e la cooperazione tecnica dell’altra (cfr. Comm. Trib. Reg. Lombardia, n. 1011/2022);
  • il controllo di approvvigionamento o di sbocchi.

Per cui, ritengono i giudici, «non può non tenersi conto nell’interpretazione della norma [NdA: art. 110, comma 7 del T.U.I.R.] dell’esigenza di assegnare alla stessa un tasso di elasticità che la renda capace di attagliarsi alle varie ipotesi in cui, indipendentemente dalla ricorrenza dei rigidi requisiti civilistici, possa apprezzarsi l‘influenza di un’impresa sulle decisioni imprenditoriali di un’altra»[4].

In altre parole, si deve avere riguardo non solo al controllo di diritto (secondo la nozione civilistica) ma anche al controllo di fatto, che si configura ogni volta che l’impresa può esercitare un controllo economico sulla gestione dell’altra entità. Utili indicazioni in tal senso posso pervenire dalla normativa in materia di società controllate estere (CFC)[5], dove alla nozione di controllo civilistico (art. 2359 cod. civ.) – nel caso di controllo paritetico di due società – vengono accostati anche i casi in cui uno dei due soci può condizionare di fatto le scelte della società partecipata. Ciò deve tuttavia avvenire attraverso un concreto riscontro dei poteri riservati ai soci nella joint venture, che faccia emergere il grado di influenza dominante sulla stessa[6]. Diversamente, non potrebbe individuarsi un rapporto di controllo bensì di semplice collegamento (estraneo, nel caso concreto, alla disciplina sul transfer pricing).

Il D.M. 2018 deve essere quindi interpretato nel senso di intendere l’ipotesi di «influenza dominante sulla gestione di un’altra impresa» come causa sintomatica di un controllo societario, senza però subordinarlo necessariamente alla presenza di vincoli azionari o contrattuali, che ne stringerebbero l’ambito qualificatorio non permettendo di «sconfinare in considerazioni di fatto di carattere meramente economico essenziali per disciplinare un fenomeno fiscale come quello del transfer pricing»[7].

Note

[1] Si ricorda che il primo periodo dell’art. 110, comma 7 del T.U.I.R. è stato modificato con l’art. 59, comma 1, Decreto-Legge n. 50/2017, convertito dalla Legge n. 96/2017. In tale sede, il riferimento al “principio di libera concorrenza” ha sostituito quello al criterio del “valore normale”, allineando la normativa interna all’art. 9 del Modello di Convenzione OCSE contro le doppie imposizioni (e Linee Guida OCSE in materia di transfer pricing).

[2] Secondo l’art. 2359 cod. civ., «[1] Sono considerate società controllate:

1) le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria;

2) le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria;

3) le società che sono sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa.

[2] Ai fini dell’applicazione dei numeri 1) e 2) del primo comma si computano anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta; non si computano i voti spettanti per conto di terzi.

[3] Sono considerate collegate le società sulle quali un’altra società esercita un’influenza notevole. L’influenza si presume quando nell’assemblea ordinaria può essere esercitato almeno un quinto dei voti ovvero un decimo se la società ha azioni quotate in borsa».

[3] Così anche la Risoluzione n. 18/E/2005.

[4] Ex multis, Cass. Civ. n. 27018/2017; Cass. Civ., n. 8130/2016; Comm. Trib. Reg. Lombardia, n. 2980/2017. Sul tema joint ventures paritetiche, si veda anche Comm. Trib. Reg. Lombardia, n. 2298/2020.

[5] Art. 167 del T.U.I.R.

[6] Da ultimo, si veda anche la Circolare Agenzia delle Entrate n. 18/E/2021, paragrafo 3.

[7] Cfr. Comm. Trib. Reg. Lombardia, n. 2771/2019.

 

Articolo a cura di Elio Andrea Palmitessa

Profilo Autore

Dottore Commercialista e Revisore Legale. Ha conseguito un Master in Diritto Tributario Internazionale (LL.M.) presso l’Università di Vienna ed ha ottenuto la qualifica TEP (Trust and Estate Practitioner) presso STEP Italy, la branch italiana dell’Associazione che raccoglie a livello mondiale i professionisti ed esperti del settore trust, patrimoni e successioni.
Si occupa prevalentemente di reddito d'impresa, fiscalità europea ed internazionale, prezzi di trasferimento, fiscalità delle persone fisiche e tassazione degli artisti e degli sportivi.
È autore di numerose pubblicazioni in materia tributaria e partecipa regolarmente a convegni come relatore.

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