Essere responsabili del lavoro altrui: dieci ragioni per non sottrarci alla sua fatica

LA GRANDE TENTAZIONE

E’ difficile che passi giorno senza ascoltare storie di management e di lavoro piene di rassegnazione che raccontano decisioni di “abbandono della partita” a fronte di situazioni ormai ingestibili, che t’invitano – secondo il detto popolare – ad “attaccare il ciuccio dove vuole il padrone”. Arrendersi e far finta di niente stanno diventando comportamenti sempre più diffusi negli ambienti di lavoro guidati da leadership senza volto e senza senso. In verità, un volto ce l’hanno, è quello segnato dal delirio d’onnipotenza che fa perdere il senso di realtà.

A ben vedere, queste “leadership cattive” hanno anche un senso: quello che i burattinai del momento, di cui sono espressione e strumento, assegnano all’impresa o all’organizzazione riducendola a una aggrovigliata piattaforma di interessi. Un gomitolo di cui non si trova il capo. Resta solo da domandarsi benevolmente: “che posso farci?” Executive e manager importanti, professionisti competenti e coscienziosi, anche giovani di talento raccontano di avere armi spuntate e voglia di arrendersi. Chiedono consigli. Com’è stato possibile arrivare a questo punto? I loro racconti descrivono situazioni di progressiva desertificazione del lavoro e del management che lo deve organizzare e indirizzare. Luoghi dove non scorre più acqua per coltivare esperienza, competenze, senso del bene comune, accountability; persone ormai inaridite e senza anima. La responsabilità del dover render conto a qualcuno finita polverizzata tra i denti taglienti dei meccanismi di governance, regole, policy e linee guida che con straordinaria efficacia riescono a vaporizzare, rendendolo paludoso, il campo delle responsabilità individuali.

Allora, tanto vale dire “chi se ne importa” decretando in questo modo “il successo del gioco”, ossia la circostanza per cui tutti finiamo per fare cose in cui non crediamo o, peggio, crediamo che siano proprio sbagliate e contrarie ai valori che vengono proclamati senza pudore da podi e rilanciati da social media. Le storie che si ascoltano, spesso, ricorrono alla metafora del circo per descrivere gli ambienti in cui prendono forma, luoghi pieni di figuranti, giocolieri e comparse. Il flusso organizzativo reso simile a un palco pieno di gente che va e che viene senza una direzione che segnali, in qualche modo, la presenza di progetti fondati su una visione sostenibile. Sono storie che ascolto con dolore e rabbia perché avviliscono. Soprattutto tentano.

Non risparmiano alcun settore: sono storie di donne e uomini impegnati in imprese e organizzazioni di tutte le industrie, del terzo settore e anche del mondo dell’educazione.

UNA STORIA TRA LE MOLTE

Qualche tempo fa ho ascoltato il protagonista di una di queste storie. Mi confessava, preso dallo sconforto, di lavorare in un’organizzazione le cui fondamenta avevano ceduto. Tutto poggia sul ritmo incessante di lanci di accordi, di news senza valore, di eventi senza contenuto. Contorcendosi un po’ su se stesso, mentre camminavamo per la città, ha aggiunto: “E sotto non c’è nulla, capisci?” Processi e competenze inesistenti o frammentati tanto da perdere ogni connotato. Persone impaurite e sbandate che non hanno riferimenti cui appoggiarsi. Allora gli ho chiesto: “Ma ci sarà pure qualcuno sopra, un consiglio di amministrazione, un comitato di saggi che controllano, no?” Rabbuiato in volto e un po’ irritato, il mio interlocutore mi guarda deluso replicando: “Allora non mi sono spiegato.

Chi sta sopra non guarda questo, vola alto, non si sporca le mani, è interessato soltanto a poter dirigere il casting del prossimo evento”. Prosegue dicendomi che ormai l’organizzazione in cui lavora vive per assecondare la visione personalistica del leader del momento lasciato a briglie sciolte e senza alcun serio controllo. Ma anche questo leader presto passerà, perché il gioco vuole che si lasci libero il palcoscenico per i nuovi attrezzisti che, durante la notte, hanno già cominciato a preparare il nuovo show ingaggiando vecchi e nuovi servi fedeli. Naturalmente a tempo determinato. A questo punto insisto impietosamente: “E le persone sotto che fanno?” Mi risponde, con tono compassionevole, che tra la gente che lavora c’è tanta tristezza. Anche se nei discorsi pubblici si racconta altro, la verità è che le persone cercano di sopravvivere senza motivazione e coinvolgimento. Ciascuno si aggrappa goffamente ai galleggianti più vicini e fa quello che gli si dice di fare, senza nemmeno più domandarsi che senso abbia. Stiamo diventando tutti corpi docili e addomesticati. Dopo una pausa, riprende a parlare con uno sguardo che chiede comprensione: “Anch’io devo sopravvivere. Sto male, però, e dormo sempre meno. Perché non so più come guardare in faccia i miei collaboratori. Ma non ho alternative”.

E’ questa la grande tentazione che prende tutti. Pensare che il nostro contributo, imprigionato nella “gabbia di ferro” di queste imprese e organizzazioni ormai impersonali, direbbe Max Weber, non serva a niente, sia una goccia nel mare, possa fare anche peggio. La tentazione, subdolamente, ci suggerisce di lasciar perdere, di rinunciare a qualsiasi comportamento che – nella sua dirompente diversità – avrebbe il potere invece di illuminare quel “deficit di significato” di cui soffrono le organizzazioni e le leadership. Il nostro agire, infatti, “che significa prendere un’iniziativa, incominciare, come indica la parola greca archein”, mette sempre in movimento qualcosa. Influenza gli altri che quell’esperienza ci propone come compagni e prossimi cui render conto.

Non bisogna lasciarsi andare tra le braccia della tentazione che ci fa pensare che il nostro contributo sia indifferente. Non è vero. La sfida è allora trovare la forza per testimoniare con coraggio il nostro impegno, consapevoli dei costi di cui ci si deve far carico.

Ciascuno per quel che può. Vale sempre la pena ribellarsi alla minaccia imperante dell’omologazione e dell’indifferenza.

LE RAGIONI PER TIRAR FUORI LA VOCE

Le ragioni per farlo come people manager e responsabili del lavoro altrui sono numerose e meritano di essere approfondite. Per quali ragioni dovremmo resistere alla tentazione di allargare le braccia di fronte alle nuove forme di messa in scena che sono raccontate dalle storie che ascoltiamo?

Per tirar fuori la voce, ammoniva il professor Keating ai suoi allievi ne L’attimo fuggente, bisogna combattere e più tardi si comincia a farlo “più grosso è il rischio di non trovarla affatto”.

Dove trovare la forza per comportarsi diversamente? In questi momenti, purtroppo, le motivazioni che ci hanno guidato nell’impegno sociale, civile, professionale possono scolorirsi come un capo nella varichina, perdere la nitidezza dei contorni e la loro forza morale. Un po’ come fa l’acqua quando bagna un foglio scritto con l’inchiostro.

E’ un processo lento ma inarrestabile se non si ferma lo stillicidio della cattiva testimonianza.

Se non s’inverte la marcia, se non ci s’interroga sulle ragioni dell’impegno che fonda la responsabilità di ciascuno verso gli altri anche nel lavoro.

Nel chiasso di quest’epoca si può perdere lucidità e, con essa, la consapevolezza che cede presto il passo alla sfiducia e al ripiegamento su se stessi. Discutere le ragioni del nostro impegno, allora, diventa un laboratorio civile per elaborare l’esperienza e ritrovare la spinta per scrivere il pezzo di storia che ci compete, quello del tessuto connettivo che ci sta intorno e riempie di senso la vita. Un laboratorio che serva a riportare in superficie il significato profondo della responsabilità che abbraccia quanti dirigono il lavoro altrui, per ricercarne benessere per sé e per gli altri.

UN ESERCIZIO IN DIECI MOSSE

Questo esercizio propone alcune motivazioni, per chi scrive piene di significato, che dovrebbero sostenere l’accountability nel lavoro imprenditoriale, manageriale e professionale. Può aiutarci a riflettere, ma diventa più efficace se si trovano occasioni anche per condividere i suoi esiti. Un esercizio di consapevolezza per non sottrarci alla fatica della responsabilità, perché è giusto che chi è punto di riferimento, per autorità, carisma, competenze o altre circostanze, non si lasci andare. Perché tradire le aspettative di chi ci è prossimo? Ecco dieci ragioni che argomentano la tesi e ci dicono che dobbiamo continuare a metterci la faccia:

1. perché “lavorare con e attraverso gli altri” è un privilegio che non tutti hanno, un dono ad alta fertilità;

2. per gratitudine verso chi mi fa crescere camminando insieme a me, non avendo avuto la possibilità di scegliermi;

3. per aiutare i miei collaboratori a dare un senso al lavoro che fanno, perchè ho sperimentato quanto sia dannoso per l’impresa avere persone che lavorano senza sapere “perché”;

4. per mettere quanti lavorano con me, quando ritornano a casa, in condizione di raccontare ai figli, senza vergogna o rimpianti, quello che fanno quando non stanno con loro;

5. per consentire a ciascuno di realizzare nel lavoro una parte dei loro progetti, aiutando chi non ne ha consapevolezza a scoprire vocazioni e talenti perché “ogni lavoratore è un creatore”;

6. per testimoniare ai più giovani la gioia che si prova quando si costruiscono progetti e si conseguono risultati insieme agli altri, incentivando comportamenti cooperativi e inclusivi;

7. per far sentire gli altri unici e il loro lavoro importante perché concorre “al progresso materiale o spirituale della società”;

8. perché sono consapevole dell’importanza che ha l’ambiente di lavoro come fonte di benessere della persona e delle famiglie e che – per una parte – questo dipende da me;

9. per contribuire – prima come cittadino e poi come capo e leader, a rimuovere gli ostacoli che impediscono “il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori” all’organizzazione della società;

10. per riconoscere e promuovere “il diritto al lavoro” dei miei collaboratori e contribuire così a costruire “le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.

Per alcuni l’elenco potrebbe risultare incompleto. Per altri eccessivo. Sarebbe interessante continuare questo esercizio di consapevolezza sviluppandolo attraverso una sorta di people management lab per aggiungere, togliere o semplicemente integrare le ragioni del nostro impegno e della nostra appassionata responsabilità. Raccontando delle storie. Perché no? Comprendere le motivazioni del comportamento umano, anche del nostro, è il cuore della vocazione professionale di chi dirige. Non appendiamola al chiodo. Non servirebbe a nessuno.

SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Arendt H., Lavoro, opera, azione, Ombre Corte, Verona, 1987

Gabrielli G., Post-it per ripensare il lavoro, Franco Angeli, Milano, 2012

Ulrich D., Ulrich W., Il perché del lavoro, Franco Angeli, Milano, 2012

Costituzione della Repubblica Italiana: Art. 3, e Art. 4 si possono leggere all’indirizzo http://www.quirinale.it/qrnw/statico/costituzione/pdf/Costituzione.pdf;

“L’attimo fuggente” (1989), di Peter Weir. La sequenza ricordata nel testo può essere scaricata a questo indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=lyyVtohtgqE

 

A cura di: Gabriele Gabrielli

Articolo pubblicato sulla rivista Leadership & Management – Marzo/Aprile 2016

Profilo Autore

Executive Coach e Consulente, docente di HRM & Organisation alla LUISS Guido Carli, Professor of Practice in People Management alla LUISS Business School, Presidente Fondazione Lavoroperlapersona (www.lavoroperlapersona.it)

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