Problem Solving, istruzioni per l’uso

Il problem solving, una competenza sempre più strategica

La recente pandemia ha messo il turbo alle trasformazioni, facendo fare un balzo in avanti esponenziale. Un cambiamento repentino che può rappresentare un’opportunità per alcuni, ma anche un momento di transizione estremamente problematico per altri. Più una realtà è complessa e muta velocemente, più può apparire confusa, magmatica e aggrovigliata nei nessi e nelle prospettive. I nostri schemi mentali che la seguono possono fare fatica a raggiungerla, provare a prenderla e gestirla.

Questa fase di transizione entropica che stiamo vivendo si riflette inevitabilmente sia nella vita delle persone, sia nella vita delle organizzazioni economiche. In questo quadro è chiaro quanto il possesso di alcune capacità (ndr. non tecniche)[1] siano non solo importanti, ma determinanti nel privato come nel lavoro. Pandemia che quindi sembra aver esasperato il gap tra individui con alte NTS (Non-technical skills) e quelli con basse, che acuisce le disuguaglianze sociali. Tra queste competenze non tecniche, una sembra particolarmente strategica: quella relativa alla capacità affrontare e risolvere tanti problemi nuovi. Questa particolare soft skill, che viene definita problem solving, sembra fare la differenza. Ben al di là però dal considerarla un talento naturale è opportuno porre alcuni ragionamenti in proposito.

Agire con la logica del problem solving significa risolvere un problema o, comunque, individuare la migliore risposta possibile a fronte di un fatto o di un evento nuovo. Il problema può essere piccolo o grande, in fondo la vita personale e quella aziendale è intersecata da sempre di problemi da risolvere. Ora però il motore del cambiamento ha messo il piede sull’acceleratore, non solo bisogna risolvere, ma bisogna farlo velocemente. Il fattore tempo, ovvero la reattività nelle decisioni, entra prepotentemente in gioco, diventando un altro fattore decisivo. E così, a fronte di un mondo diventato sempre più complesso, in piena trasformazione, le cose si complicano. In un contesto di questo tipo i problemi sono la regola, perciò le competenze di problem solving sono diventate ancora più importanti, e lo saranno sempre di più.

In linea generale possiamo dire che sono necessarie diverse competenze trasversali fortemente connesse tra loro per andare in questa direzione. La consapevolezza, necessaria per acquisire una visione globale del problema; la capacità di ascolto attivo, necessaria per individuare nel più breve tempo possibile, sin dalle sue prime manifestazioni, ciò che sta accadendo. La curiosità, che spinge a valutare più possibilità di soluzioni anche inedite. La creatività, che aiuta a non fermarsi davanti al primo scoglio sperimentando forme nuove per dar vita a soluzioni inaspettate. La grinta e determinazione, per non abbattersi davanti agli ostacoli e andare avanti verso la soluzione. Un lavoro delicato perché occorre tenere conto che per farlo è necessario accettare di adattarsi al consenso degli altri, a volte anteponendo questo consenso al fatto di esprimere liberamente anche il nostro disappunto o le nostre idee diverse da quelle del gruppo.

Abbiamo così pensato che potesse essere utile un nostro breve contributo per aiutare ad inquadrare meglio la questione e provare a formulare qualche suggerimento. Per farlo, abbiamo suddiviso l’intervento in due parti: l’errore da evitare e le azioni da compiere, nella quale viene presentata la nostra proposta metodologica. Partiamo dal primo.

Il problem solving, l’errore principale da evitare

L’errore principale da non compiere può sembrare una banalità: non bisogna saltare alle conclusioni durante la risoluzione del problema. Sic et simpliciter. Prima di poter risolvere un qualsiasi problema, bisogna sapere che cosa si sta cercando di risolvere esattamente. Tanto banale che spesso viene bypassato. Infatti, troppi di noi vogliono affrettarsi a trarre conclusioni prima di riuscire a comprendere chiaramente il problema. Così facendo si rischia di implementare soluzioni deboli o di uscire fuori strada, ad esempio confondendo i sintomi per il problema sottostante.

Si sa che, tra i nostri pregiudizi cognitivi e la nostra capacità limitata di prendere decisioni, quando il nostro serbatoio di carburante mentale si sta esaurendo, tendiamo a risparmiare energia evitando decisioni o affrettandoci verso soluzioni, prima ancora di avere la possibilità di comprendere appieno il problema con cui siamo alle prese. Diventa così più semplice saltare alle soluzioni utilizzando gli elementi della propria lista di cose ritenute conosciute e risolvere i problemi così. Una soluzione immediata fornisce un’ondata di dopamina che è confortante, specialmente quando il mondo che ci circonda si sente più volatile e minaccioso. Tuttavia, questa resta una soluzione cerotto che, se inefficace, può peggiorare le cose e può diventare dannosa a lungo termine, tanto quanto il problema che sta cercando di risolvere. È importante averne consapevolezza.

Proprio per aiutare a superare l’impulso di correre verso soluzioni ed aiutare a fare la scelta più adeguata, abbiamo pensato di cristallizzare un processo in semplici step, che presentiamo di seguito.

Una proposta metodologica

Il metodo che qui proponiamo si suddivide in 7 fasi strettamente interconnesse tra loro. Un metodo applicabile sia a un’organizzazione sia a tutto ciò che una singola persona si trova ad affrontare nel corso della vita personale e lavorativa.

Il tutto sulla base di una considerazione di fondo: deve esserci un problema da affrontare, perché, come dice un proverbio zen, è difficile vedere un gatto nero in una stanza buia, soprattutto se il gatto nero non c’è.

  1. Definire il problema

Prima ancora della risoluzione del problema bisogna identificarlo e capirne le caratteristiche: chi ne è coinvolto, quando si manifesta, come si manifesta. Per farlo, dobbiamo osservare il problema da diverse angolazioni: sia con un’attenta osservazione dei numeri, che rappresenta la bidimensionalità in bianco e nero del problema, sia dei fatti, che daranno colore e consistenza. Non è semplice perché siamo spesso preda di preconcetti e limiti percettivi che ci fanno vedere come collegati aspetti che non lo sono. Questo accade perché abbiamo la tendenza a vedere in tutto quello che accade, e spesso anche nel problema stesso, una conferma delle nostre idee e sensazioni.

Si dovrebbe invece presentare il problema in un modo che consenta molteplici soluzioni. Occorre quindi considerare come si sta inquadrando il problema e definirlo accuratamente altrimenti le soluzioni rischieranno di non funzionare. Una visualizzazione del problema ben strutturata apre strade per discussione e opzioni, una cattiva visualizzazione chiude le alternative e ti manda rapidamente in un vicolo cieco di pensiero.

Seppur più impegnativo, il tempo speso in questa parte sarà abbondantemente recuperato. Secondo quanto riferito, Albert Einstein ha detto che se avesse avuto un’ora per risolvere un problema, avrebbe trascorso 55 minuti a pensare al problema e cinque minuti a pensare alle soluzioni.

Di seguito quattro passaggi utili per fornire il quadro di un problema più chiaramente definito:

  • analizzare il problema da più prospettive, anche quelle che appaiono le meno ordinarie;
  • pensare a ritroso dal problema per analizzare i potenziali fattori che portano ad esso, chiedendosi “perché” ripetutamente, cercando di indagare sulle cause alla radice del problema:

Questo diagramma a lisca di pesce, noto anche come diagramma di Ishikawa, fornisce un modello per identificare i potenziali fattori che causano il problema:

  • non fare affidamento solo sui dati quantitativi, ma prendere in considerazione i fatti, specialmente quelli osservabili, non opinioni, giudizi impliciti o interpretazioni;
  • spezzettiamolo nelle sue parti.

Per fare questo si possono prendere dei foglietti di carta e su di essi annottare le singole parti del problema (basta una parola o una breve frase – aiuta a suddividerlo in tante parti).

È fondamentale descrivere dettagliatamente la problematica rispondendo a domande del tipo: “perché questa cosa è identificato come problema, “perché mi preoccupa?”, “quali emozioni mi provoca?”, “accade anche ad altri?”, chiedersi se tutte le persone coinvolte abbiano le stesse informazioni e gli stessi obiettivi nella soluzione del problema e così via.

Lavorare con i foglietti permette di scomporre il problema in tutte le sue parti, di scartare i temi secondari o addirittura ininfluenti e di accorparli in modo diverso da quello che sia abituati a vedere.

  1. Definire l’obiettivo che si intende raggiungere.

In sostanza ci si chiede quali sono i cambiamenti che si possono realizzare, anche nelle singole parti del problema, per raggiungere il risultato atteso.

Questo può far capire su quali parti del problema (i famosi foglietti) è più opportuno lavorare. Scegliere comporta un bel risparmio di energie e di risorse.

Ovviamente, individuato il focus del problema, occorre analizzare prima quali conseguenze tale intervento potrebbe avere su altre parti del problema. Considerando la tendenza a sovrastimare le probabilità di successo, quando si deve affrontare un’attività particolarmente difficile e, di converso, a sottostimare l’attività che appare più semplice. Inoltre, il nostro cervello, sebbene appaia attratto dalle novità, mostra, in realtà una vera ritrosia verso lo sviluppo di nuove abitudine e prova ostilità verso il cambiamento.

  1. Analizzare i tentativi falliti di risolvere il problema.

Ovviamente si tratta di una parte che ha la sua utilizzazione quando ci troviamo di fronte a problemi già affrontati e non a quelli che si presentano ex novo. Si tratta di un’analisi che permette di analizzare i risvolti concretamente negativi dei tentativi già messi in pratica. In sostanza si tratta di individuare cosa non fare, perché non ha funzionato, rilevando come anche nei tentativi falliti possano esservi delle parti utili. In questo caso si tratterà di comprendere cosa non ha permesso alle stesse di determinare la soluzione del problema.

Questo evidentemente per risparmiare l’energia che si spenderebbe nel ripetere un tentativo fallito, ma anche per capire quando peso hanno avuto i fallimenti precedenti nel far apparire arduo il problema da affrontare, anche solamente in merito alla demotivazione e alla sfiducia.

  1. Se potrà andare peggio, lo farà.

Non è detto che questo accada, anzi il metodo di lavoro proposto ha proprio l’obiettivo di supportare chiunque si trovi a dover risolvere un problema nuovo e già di per sé problematico. Questa parte consiste nel chiedersi come si potrebbe fare per peggiorare la situazione: una sorta di analisi delle strategie per far peggiorare il problema.

Un lavoro che ha due scopi:

  • acuire l’attenzione verso le strategie sbagliate o, comunque, inefficaci;
  • permetterci di guardare al di là di queste strategie che non a caso abbiamo pensato: una sorta di pensiero più libero che può permettere di intravvedere una possibile soluzione, una sorta di strategia per liberare i processi creativi;
  • infine, per evitare di cadere nell’illusione che il futuro, per il fatto stesso che lo stiamo pensando e progettando sarà splendido e meraviglioso.

Non tanto per augurarci il peggio relativamente alla realizzazione del progetto, quanto per evitare di pensare che il futuro sarà senza dubbio “meraviglioso”. È ben vero che Steve Jobs e Richard Branson hanno costituito Apple e Amazon in un garage, ma la storia è molto più popolata di persone che hanno fallito nei loro tentativi. Averne una visione realista aiuta a imparare dai problemi e dai fallimenti e crescere ulteriormente all’interno di quella splendida risorsa che è la resilienza.

  1. Lo scenario oltre il problema.

Si tratta di immaginare quale sarà la situazione una volta che il problema sarà risolto. Una sorta di immaginazione che, ben sapendo che si lavora con la fantasia, prova a immaginare i pro e i contro del problema risolto: saranno solo e tutti aspetti positivi? Se non lo fossero quali ne sono le ragioni che posso immaginare?

Anche in caso di successo, si tratta anche di prepararsi mentalmente a una sorta di piano B se, per qualche ragione, anche incontrollabile, il risultato non fosse quello atteso e immaginato.

  1. Fare come gli scalatori.

Quando si avvia un progetto è importante contenere l’ansia relativa alle tappe della sua realizzazione, che può spingere a scelte affettate, né, d’altra parte, procrastinarne la realizzazione. La prospettiva più utile è quella scelta dagli scalatori: il disegno del percorso da seguire non parte dalla base, bensì dalla vetta da raggiungere.

In questo modo il percorso viene suddiviso in una serie di stadi, in una serie di micro-obiettivi.

Il partire dalla conclusione, come lo scalatore con la montagna, pur essendo contro deduttiva ha il vantaggio di aiutarci a ragionare per piccoli passi.

Infatti, per progettare un cambiamento è fondamentale iniziare da un piccolo passo, che evidenzi la possibilità di un cambiamento. Questa prospettiva motiva, attraverso i primi risultati raggiunti, la strada che si è deciso di intraprendere. Aspetto tanto più importante quando il progetto contiene grandi novità.

La progettazione per piccoli passi è anche una strategia per affrontare la naturale resistenza al cambiamento che potrà essere tanto più forte quando se ne prospetta uno di significativo.

  1. Aggiustare il tiro progressivamente.

Il fatto di aver programmato la soluzione progressiva dei problemi impone comunque di chiedersi se qualche cosa stia cambiando nelle condizioni sia interne sia esterne del problema e se, di conseguenza siano necessari degli aggiustamenti del tiro.

Come ha detto H.L. Mencken, “Per ogni problema complesso, c’è una soluzione chiara, semplice e sbagliata”. Questi sette passaggi in realtà non garantiscono una soluzione certa, ma ti aiuteranno a definire un problema più chiaramente. E anche se questo sembra più faticoso, è un passo necessario per trovare qualcosa che funzioni davvero.

Bibliografia

Sitografia

Note

[1] SOMMA R. – ZULIANI A. https://aifos.org/home/news/int/interventi_commenti/soft_skills_o_non-technical_skills_for_safety_imparare_a_conoscerle
La letteratura scientifica traduce tali competenze in abilità relazionali, comportamentali e cognitive e altri specifici tratti correlati anche ad aspetti della personalità, ad esempio: capacità di comunicazione, di ascolto, di lavorare in squadra, di prendere decisioni appropriate, di gestire i conflitti e gli errori ma anche il buon senso, la consapevolezza situazionale, la gestione dello stress e del carico di lavoro, l’attenzione, la vigilanza, la fiducia, etc.

 

Articolo a cura di Antonio Zuliani, psicologo psicoterapeuta, consulente H&S e Rita Somma, consulente H&S, sociologa del lavoro, consigliere nazionale AIFOS.

Profilo Autore

Antonio Zuliani, psicologo psicoterapeuta. Ho una formazione clinica di indirizzo psicoanalitico e per molti anni ha operato in questo campo, anche presso importanti istituzioni pubbliche. Collaboro con la facoltà di psicologia dell’Università di Padova dove ha svolto insegnamenti relativi alla psicologia ambientate e a quella dell’emergenza. In questi anni ho maturato l’idea che la psicologia non debba occuparsi solo di curare le conseguenze dei disagi che affliggono le persone, ma anche delle azioni preventive. In questa direzione la mia attività professionale si è indirizzata sui temi gestione delle risorse umane puntando alla valorizzazione dei talenti personali e alle azioni che possano favorire la sicurezza sul lavoro e le risposta alle emergenze. Ciò anche alla luce della pluriennale esperienza maturate in questo campo avendo fondato il Servizio Psicosociale di Croce Rossa Italiana. Attualmente sono membro del Comitato di coordinamento relativo al protocollo sulla sicurezza sul lavoro degli Ordini degli Psicologi e degli ingegneri.

Profilo Autore

Rita Somma, ha conseguito la laurea magistrale in sociologia con indirizzo organizzativo, economico e del lavoro c/o Università Statale Carlo Bo di Urbino. Esperta in organizzazione del lavoro e Human Factor. Si occupa di consulenza e formazione Health & Safety dal 2000. Svolge la funzione di RSPP per diverse organizzazioni pubbliche e private. E’ presidente del consiglio di amministrazione di Safety Contact srl che opera nel campo della consulenza e servizi in materia di igiene e sicurezza sul lavoro. E’ Consigliere nazionale e Commissario nazionale per la Valutazione per l’iscrizione ai Registri Professionali dei Consulenti di AIFOS (Associazione Italiana Formatori ed Operatori della Sicurezza sul Lavoro). E’ Rappresentante Permanente per il Mondo del Lavoro del Comitato di Indirizzo – CdI del Corso di Laurea Triennale in Ingegneria per la Sicurezza del Lavoro e dell'Ambiente e del Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Ambientale e per la Sostenibilità dell'Ambiente di Lavoro dell’Università degli Studi dell’Insubria. Membro dell’Associazione Sociologi Italiani.

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