Premi Incentivanti e Retribuzione per Obiettivi

L’art. 2099 cod. civ. [Retribuzione], nel comma 3 dispone che “Il prestatore di lavoro può essere retribuito, in tutto o in parte, con partecipazioni agli utili o ai prodotti, con provvigioni o con prestazioni in natura”. La norma individua forme speciali di retribuzione variamente connesse con l’andamento aziendale che si contrappongono alla retribuzione ordinaria. Sulla scia interpretativa ed applicativa del contenuto della disposizione si è configurata, nel tempo, la forma di retribuzione c.d. incentivante che, attualmente, può giungere a coprire una cospicua parte del compenso mensile/annuale. Le concessioni e/o trattative in materia sono lasciate alla libera determinazione delle parti del rapporto di lavoro, sulla base dell’assioma che una crescita di fatturato prodotto dal lavoratore viene comunque ad impattare direttamente sui valori dell’impresa e, dunque, in ultima analisi, sull’utile di bilancio. Altre volte, per fasce di lavoratori di media collocazione nella gerarchia aziendale, l’attribuzione di incentivi viene concordata a livello di contrattazione collettiva di impresa o territoriale, ultimamente peraltro anche con riferimento ai dirigenti.

Nonostante la fonte tendenzialmente deputata alla previsione di forme di retribuzione correlate alla produttività individuale e collettiva sia generalmente la contrattazione collettiva di secondo livello, anche l’autonomia individuale svolge un ruolo rilevante in tema di retribuzione incentivante e, tra le varie forme in cui essa si estrinseca, una delle più diffuse consiste nella previsione di un elemento variabile da corrispondersi a fronte del raggiungimento di obbiettivi periodicamente stabiliti, per lo più – ma non necessariamente – unilateralmente dal datore di lavoro. Il sistema più diffuso è quello del Management by objectives (MBO), consistente nell’individuazione concordata tra lavoratore e datore di lavoro di obiettivi di miglioramento della prestazione – ma non solo – e sulla verifica periodica del raggiungimento di tali Target.

Il problema principale che si pone in questi casi riguarda le conseguenze dell’eventuale successivo comportamento omissivo del datore di lavoro nella determinazione degli obiettivi: si tratta, in particolare, di stabilire se in tal caso il lavoratore abbia o meno diritto alla quota variabile della retribuzione e, nel caso di risposta affermativa, se essa sia o meno dovuta nel suo ammontare massimo.

Le sentenze su tale argomento sono poche e prevalentemente di merito, ma molto interessanti perché pervengono a conclusioni molto simili, pur inquadrando la fattispecie in istituti del diritto civile significativamente diversi.

Tra le sentenze di merito si segnalano, in particolare, la sentenza del Tribunale di Milano del 16.5.2007 e la sentenza della Corte d’Appello di Milano del 21.11.2007: tale sentenza ha dedotto il venir meno dell’interesse del datore di lavoro alla definizione degli obiettivi dall’intervenuto mutamento delle mansioni del lavoratore ed ha imputato il mancato avveramento della condizione al datore di lavoro, in quanto, nonostante le numerose richieste del lavoratore, non aveva mai dimostrato la propria disponibilità ad una trattativa in merito. In entrambe i Giudici hanno riconosciuto il diritto del lavoratore a percepire la retribuzione variabile nel suo ammontare massimo, ritenendo che in tali casi il comportamento delle parti dovesse essere valutato alla luce del dovere di lealtà e di correttezza sancito dall’art. 1358 cod. civ. ed affermando che, venuto meno l’interesse del datore di lavoro a concordare gli obiettivi per il compenso variabile, il mancato avveramento della condizione era addebitabile al comportamento del datore di lavoro e, pertanto, la condizione doveva ritenersi avverata ai sensi dell’art. 1359 cod. civ.

Invero, a fronte di una giurisprudenza di merito tendenzialmente orientata a riconoscere, in caso di omessa determinazione degli obiettivi da parte del datore di lavoro, il diritto del lavoratore alla retribuzione variabile nel suo ammontare massimo o, quanto meno, un risarcimento del danno parametrato a quanto percepito negli anni precedenti per lo stesso titolo, una sentenza della Corte di Cassazione (Cass. 13953/2009) ha ritenuto congrua e priva di vizi logici la motivazione della Corte d’Appello che aveva considerato una clausola incentivante con un oggetto indeterminato tale da determinarne la nullità ai sensi dell’art. 1346 cod. civ. o, al più, la sua interpretazione come istitutiva di un obbligo a trattare la clausola di un contratto individuale che prevedeva un bonus basato su obiettivi di anno in anno concordati e per il 1996 garantito in L. 50.000.000 e, per questo, aveva escluso il diritto del ricorrente alla corresponsione del compenso aggiuntivo de quo per il 1997, anno per il quale non erano stati individuati gli obiettivi. A tali conclusioni la Corte d’Appello era pervenuta considerando che la detta clausola “ha come suo elemento necessario, oltre l’entità del compenso (suscettibile eventualmente di determinazione in sede giudiziale), anche l’individuazione del tipo degli obiettivi e della loro entità, che non possono essere certo stabiliti in questa sede”.

La varietà del panorama giurisprudenziale induce ad una riflessione processuale sulla correttezza degli inquadramenti e delle soluzioni nelle diverse sentenze proposti. Tutte le motivazioni delle sentenze indicate sembrano condivisibili nella loro integralità, ma tutte offrono degli spunti per individuare la soluzione più ragionevole: il diritto soggettivo del lavoratore al bonus si perfeziona solo con la determinazione – unilaterale o consensuale – degli obiettivi ed è comunque sospensivamente condizionato al loro raggiungimento; finché, invece, gli obiettivi non vengono fissati, il lavoratore può vantare nei confronti del datore di lavoro non il diritto al bonus ma il diritto al risarcimento del danno conseguente all’inadempimento dell’obbligazione su di lui gravante di fissare e comunicare gli obiettivi, per la cui eventuale liquidazione in via equitativa potranno eventualmente assumere rilevanza l’ammontare massimo eventualmente convenuto del bonus o le somme a tale titolo percepite dal lavoratore negli anni precedenti.

Il Premio mai percepito dal lavoratore ha per sua natura carattere retributivo, come insegna la giurisprudenza della Suprema Corte, quando statuisce che “la natura retributiva di un compenso erogato al lavoratore subordinato non può essere esclusa in considerazione della specifica finalità incentivante della erogazione e del suo carattere aleatorio, correlato a variabili necessità aziendali, sempreché costituisca il corrispettivo per una prestazione contrattualmente obbligatoria avente carattere di regolarità o di frequenza in un determinato arco di tempo” (Cass. 2669/1992). Negli stessi termini, implicitamente, la Corte ha deciso che “la corresponsione continuativa di un assegno (anche se di ammontare variabile) al dipendente, durante il corso del rapporto di lavoro, va considerata come elemento della retribuzione da computarsi nella liquidazione di fine rapporto per la presunzione di onerosità che assiste tutte le prestazioni eseguite durante il rapporto, e per la considerazione che una elargizione liberale da parte del datore di lavoro può giustificarsi soltanto se occasionale e collegata a particolari eventi; pertanto l’erogazione rapportata per prassi aziendale, che integra il contenuto del contratto individuale, al maggior impegno del dipendente (nella specie, integrazione di un premio di rendimento in favore di un dirigente), costituendo un premio incentivante della sua laboriosità, fa parte della retribuzione vera e propria senza che possa essere trasformata in mera liberalità del datore di lavoro con successivo contratto collettivo” (Cass. 6567/1988).

Più in generale ed in senso difforme, valgano le considerazioni di Cass. 1545/2005, idonee a mettere ordine – con gli opportuni adattamenti interpretativi ed applicativi – sull’esatta gerarchia delle fonti di riferimento e sull’intervento giudiziale: “Qualora il contratto collettivo …. contempli, tra gli elementi aggiuntivi della retribuzione, un salario integrativo a carattere premiale da negoziare a livello locale, da assegnare ai dipendenti in funzione degli obiettivi di produzione e dei risultati di produttività dei singoli compartimenti, il diritto a tale salario integrativo non può dirsi perfezionato in mancanza dell’accordo sindacale locale, a meno che non venga dimostrato che il contratto collettivo nazionale non intendeva operare un rinvio alla contrattazione locale per determinare l’oggetto dell’obbligazione, ma investirla di un compito esclusivamente tecnico, di liquidazione di un’obbligazione ad oggetto determinabile, cosicché, in mancanza della pattuizione decentrata, alla liquidazione stessa avrebbe dovuto procedere lo stesso datore di lavoro o il giudice.” In senso conforme, Cass. 22005/2004 (“Il lavoratore non ha diritto alla corresponsione dell’elemento della retribuzione denominato «integrativo» laddove il contratto collettivo nazionale abbia demandato al livello di contrattazione decentrata il compito di determinare l’oggetto dell’obbligazione e, in seguito, non sia stato stipulato contratto aziendale”); Cass. 3771/2004; Cass. 12453/2003; Cass. 12245/2003.

Più di recente, Cass. 2293/2018 (ordinanza) ha ribadito la risarcibilità della perdita di chances conseguente all’inadempimento datoriale dell’obbligo di assegnare al dirigente gli obiettivi annuali, con una diversa impostazione, argomentando che “la risarcibilità del danno patrimoniale da perdita di chances nel rapporto di lavoro deve consistere nella concreta ed effettiva perdita (valutata ex ante) dell’occasione di conseguire un determinato bene, intesa come un’entità patrimoniale a se stante, giuridicamente suscettibile di valutazione autonoma”.

A cura di: Pasquale Dui

Profilo Autore

Avvocato - Partner presso DV-LEX DUI VERCESI & PARTNERS Studio Legale - Professore a contratto di diritto del lavoro - Revisore Legale - Giornalista pubblicista

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