Perdonare nel lavoro: i leader dovrebbero farlo

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Una storia tra le tante

Chi non ha subito qualche torto nel lavoro? Del resto, farsi male e soffrire appartengono all’esperienza umana, prima ancora che a quella organizzativa. Senza relazioni non viviamo, ma i legami possono produrre anche ferite. Lo impariamo sin da piccoli. Come ci comportiamo quando subiamo un’ingiustizia nel lavoro? Riflettiamo su quanto è accaduto a Edoardo.

Pensava di avercela fatta, ricoprire il ruolo di direttore di divisione che ambiva da lungo tempo, ma non è andata a finire così. Edoardo, un uomo di oltre quaranta anni ambizioso e determinato, aveva lavorato sodo per raggiungere quest’obiettivo. Una vita di sacrifici segnata da successi professionali, dalla conquista di un’ottima reputazione nella business community e da un invidiabile benessere economico per se e per la famiglia, che ha trascurato non poco. Per farcela, infatti, Edoardo ha anteposto spesso gli interessi dell’azienda a quelli dei suoi cari, della moglie e dei suoi due bambini di 10 e 12 anni. Lo possono testimonianare comportamenti diventati con il tempo pratiche consuete del suo modo di vivere il lavoro, quali per esempio il tirare fino a tardi in ufficio per chiudere una trattativa dietro un’altra, per aggiustare i piani di marketing necessari per raggiungere gli obiettivi sfidanti assegnati e per motivare e tenere sempre in tiro il suo team. E invece no! L’azienda ha scelto diversamente. Chi sta in alto, del resto, dovrebbe sapere bene quanto sono numerose le variabili che influenzano una decisione così importante come quella di nominare il direttore di una nuova divisione di business.

Quando subiamo un’ingiustizia come reagiamo verso i nostri capi e collaboratori?

Consideriamo quanto ci è capitato una vera e propria ingiustizia che ci fa “ruminare” continuamente, amplificando dentro di noi sentimenti di risentimento, amarezza e voglia di vendetta verso il nostro capo, l’azienda, il consiglio di amministrazione, chi ci ha soffiato l’opportunità di carriera e ci ha offeso? Oppure siamo disposti – pur soffrendo per quanto occorso che ci ha fatto rimanere davvero male e di cui ci vergogniamo – a comprendere l’insieme di fattori che possono aver influenzato la decisione presa dal nostro capo che non ci ha promosso? Nel primo caso, non vogliamo sentire ragioni. Coviamo solo il desiderio di vendetta e che le cose vadano male per chi ci ha tradito e per chi siede sulla poltrona che pensavamo di meritare. Vediamo tutto negativo e le lenti che indossiamo ci indurranno a comportarci con durezza verso i colleghi e i nostri collaboratori. Cercheremo di intralciare la strada che pensavamo noi di dover percorrere, assumeremo iniziative coerenti con questo scopo e contro gli interessi dell’organizzazione.

La nostra esistenza organizzativa si ridurrà così a una vita di astio, rabbia, intolleranza e pesantezza. Con quali conseguenze? Numerose e di diversa natura. Come quella che nessuno probabilmente vorrà più lavorare con noi, tutti penseranno che in fondo non eravamo così solidi e pronti per assumere responsabilità ancora più significative. Alcuni diranno: “Bene ha fatto l’azienda a dirottare la scelta su un altro candidato”. Così, al danno si aggiungerà la beffa.

Nel secondo caso, invece, pur non dimenticando ciò che ci è accaduto desideriamo andare avanti, siamo disponibili a comprendere e cooperare, vogliamo mettere una pietra sopra a quanto è accaduto sapendo che il perdono fa bene innanzi tutto a noi stessi perché ci libera dalla gabbia del controllo che i sentimenti – quando prendono il sopravvento – possono avere su noi stessi.

Non vogliamo rinunciare al nostro percorso, alla soddisfazione che ci procura il lavoro e il condividere obiettivi, progetti, risultati con i nostri collaboratori. Non vogliamo far vivere male questa vicenda alla nostra famiglia, presentarci la sera con la faccia funerea di chi è stato bastonato e uscire da casa il giorno dopo con le spalle abbassate.

Il perdono è una virtù o una debolezza?

A questo punto c’è una domanda che s’insinua prepotentemente nella nostra riflessione: ma i leader possono perdonare? Il perdono poi non è una virtù dei deboli? Che benefici avrebbe infatti l’organizzazione da tale comportamento?

Manfred Kets de Vries, uno tra i più noti esperti e docenti di leadership al mondo, dedica un intero capitolo del suo libro Mindful Leadership Coaching all’arte del perdono, che distingue i leader trasformativi capaci, proprio perché non preoccupati e prigionieri del passato, di creare sviluppo e futuro per le imprese. Scrive: “Perdonare significa estirpare un pungiglione dalla memoria che altrimenti rischierebbe di avvelenare la nostra esistenza”.

Per questo non è una virtù dei deboli, tutt’altro, è una virtù che ci rende liberi e consente alle organizzazioni di essere generative. Secondo alcuni studi, perdonare aiuta anche a ridurre il disagio che possiamo provare nel vedere l’altro (chi ci ha offeso) che soffre. In questo senso, tutto sommato, il nostro comportamento altruista sarebbe mosso anche da interessi egoistici.

Comunque, secondo molti studi sia di psicologia sia di organizzazione e management, il perdono sembrerebbe portare apertura, futuro, nuove possibilità. Guarisce le ferite, un regalo che facciamo a noi stessi prima ancora che alle organizzazioni dove lavoriamo.

Il perdono: una risposta generativa ai conflitti organizzativi

Ai conflitti si guarda da sempre come a una componente naturale delle organizzazioni. Ogni volta che si stabiliscono regole e comportamenti per coordinare gli sforzi di persone e gruppi al fine di conseguire obiettivi comuni – che è l’essenza di un’organizzazione – siamo consapevoli che stiamo anche disegnando territori da cui potranno nascere incomprensioni, dissidi e conflitti.

Per questo non c’è contratto o accordo che non preveda clausole che individuano e indirizzano il processo e gli attori preposti alla risoluzione dei conflitti, per delineare preventivamente la strada lungo la quale incanalare i dissapori e trovare una risposta efficiente ed efficace. E’ pur vero che dalla diffusione dei nuovi modelli produttivi che l’economia sta proponendo, fondati come si argomenta su un’intensa attività collaborativa e su meccanismi che privilegiano l’interazione e la cooperazione, ci si aspetterebbe un minor tasso di conflittualità.

Ci sono ricerche però che deludono quest’aspettativa, mostrando come anche nell’economia della connessione e delle interdipendenze i conflitti continuino a crescere.

Conseguentemente, c’è necessità di indirizzare questo problema organizzativo, comprendere le cause e, soprattutto, individuare le leve e le pratiche capaci di ridurre un fenomeno che nasconde implicazioni costose per l’impresa e per gli individui, prime fra tutte le conseguenze di comportamenti aggressivi, di vendetta e di non collaborazione che frenano lo scorrere della vita organizzativa, producendo stress e minando la produttività.

Il perdono e ambienti che promuovano una cultura orientata alla comprensione, dunque, sono gli esiti di una prospettiva che interessa non soltanto le persone ma anche le organizzazioni.

Fattori che influenzano lo sviluppo di un clima di perdono

Nelle imprese dove si sviluppa un organizational forgiveness climate, infatti, trovano cittadinanza, secondo numerosi studi, comportamenti dei collaboratori che si adoperano nel costruire relazioni di qualità, fondate su processi di comunicazione che alimentano sentimenti di prossimità.

Quando le persone percepiscono l’organizzazione come un luogo dove il perdono e la riconciliazione sono comportamenti attesi, riconosciuti e premiati, si sviluppa anche un clima che spinge le persone ad aiutarsi reciprocamente nella soluzione di problemi.

Ci sono diversi fattori che influenzano lo sviluppo di un clima di perdono nei contesti organizzativi.

Studi mostrano che i valori fondanti la cultura dell’impresa, le caratteristiche dei leader e anche le pratiche organizzative sono importanti variabili del forgiveness climate, che possiamo definire come “la percezione condivisa che i comportamenti empatici e benevoli come risposta al conflitto tra i soggetti coinvolti sono apprezzati e premiati dall’organizzazione, incentivati e attesi”.

Cultura organizzativa e giustizia: come rispondere ai torti?

Le imprese che hanno tra i loro valori fondamentali (core values) quello di orientare i comportamenti organizzativi lasciandoli ispirare dalla giustizia riparativa (restorative justice), dalla compassione e temperanza costituiscono il luogo privilegiato dove fare attecchire e sviluppare un clima di perdono.

E’ meglio punire o è più funzionale al benessere individuale e organizzativo cercare vie alternative? Si può davvero “educare al bene attraverso il male”, si domanda Gherardo Colombo, il noto pubblico ministero del pool di Mani Pulite? La giustizia riparativa si propone, diversamente dalla giustizia retributiva che è fondata sul concetto di corrispettività (chi subisce un torto deve “retribuire” in modo analogo l’altro, la risposta in questo caso è male contro male), di percorrere una via diversa e alternativa per fare giustizia. In questa prospettiva ciò che si persegue non è andare contro chi ha offeso aggravando la sua posizione e tagliando le vie d’uscita, ma costruire pratiche (comportamenti, processi, procedure e strumenti) intese a riconciliare chi è stato vittima con chi ha offeso, a recuperare la loro relazione, anche attraverso un processo di responsabilizzazione del contesto organizzativo.

In letteratura si sottolinea l’importanza di quest’ultimo aspetto, concettualizzando la giustizia riparativa come “la convinzione condivisa che i conflitti debbano trovare una risposta multilaterale, includendo così come soggetti attivi le parti coinvolte e tutti gli altri interessati”. Ci sono casi interessanti nel settore sanitario e anche nelle carceri.

Nei contesti di lavoro dove si crede sia più importante andare oltre il torto subito o l’errore commesso, trova un fertile terreno per radicarsi anche le leadership intese come servizio (leadership servant) che porta in dote il valore della compassione, intesa come la convinzione comune che sia più produttivo concentrasi sull’alleviare le pene piuttosto che renderle ancora più gravose rimuginando il passato. Il conflitto in questo caso si trasforma in un’opportunità per guardare avanti, per costruire pro-getti rivolti al futuro. Contribuisce positivamente alla crescita di un’organizational forgiveness climate l’avere tra i tratti culturali un orientamento complessivo alla misura e al controllo si sé, su cui trova fondamento il valore della temperanza, ossia la convinzione che è bene controllare se stessi e l’istinto a reagire alle situazioni che ci provocano essendo indulgenti. In questo modo, le organizzazioni comunicano l’idea di privilegiare i comportamenti che intendono ridurre la portata dei conflitti, attraverso processi e pratiche riconciliative, piuttosto che atteggiamenti e comportamenti che rischiano di potenziare i conflitti lungo una spirale improduttiva.

Le organizzazioni dove c’è un clima di perdono apprendono più facilmente

Se non riusciamo a liberarci del passato continuiamo a farci male. Continuiamo a medicare le nostre ferite con prodotti che non curano. Siamo incastrati e per questo non riusciremo a guardare avanti. Anche le organizzazioni si bloccano quando tolgono ossigeno al futuro.

Capita per esempio i quei contesti organizzativi dove l’errore non è tollerato, ma guardato come un male che va ristorato con punizioni esemplari che hanno il senso di un “avviso per i naviganti”. Nelle imprese che non accolgono la possibilità dell’errore come opportunità per guardare avanti e imparare si respira un’aria pesante, quella di luoghi che incentivano comportamenti privi di energia, passivi e non generativi. Le organizzazioni che hanno questa cultura considerano l’errore come un torto subito, pronte ad assumere il ruolo di vittime che devono farsi giustizia (retributiva) nei confronti di chi le ha offese. Masticano continuamente e cercano occasioni di vendetta.

Ben diverso invece sarà il clima organizzativo quando le imprese sono guidate da leader che tollerano l’errore e che non attribuiscono loro il significato di un torto subito, ma che sono pronte a perdonarlo instaurando un percorso “riconciliativo” che – coinvolgendo anche gli altri, i colleghi – guarda all’errore come occasione di crescita comunitaria e di miglioramento.

Leader empatici mossi da motivazioni altruistiche, e non leader malati di narcisismo, si adopereranno per costruire così ambienti di lavoro con una cultura della tolleranza e del perdono, attiveranno pratiche e stili manageriali che incentivano creatività, sperimentazione e innovazione. Rattrappirsi sul passato serve a poco o a niente.

Dalla cultura del perdono, invece, può nascere progettualità, energia e l’attivazione di comportamenti di cittadinanza organizzativa extra-role, cooperativi ed altruistici.

A ben vedere, sono numerose le evidenze che suggeriscono a leader e manager di considerare attentamente le qualità del perdono, annoverandolo tra le virtù che generano comportamenti tra i più produttivi per l’impresa, perché “sebbene perdonare non cambi il passato, permette di costruire un nuovo futuro”.

Suggerimenti bibliografici

  • Colombo Gherardo (2011), Il perdono responsabile, Ponte alle Grazie, Milano
  • De Dreu C. K. W. & Gelfand M. J. (2008) (Eds), The psychology of conflict and conflict management in organizations, New York: Taylor & Francis
  • Eusebi L. (2015) (a cura di), Una giustizia diversa. Il modello riparativo e la questione penale, Vita e Pensiero, Milano
  • Fehr R., Gelfand M. J. (2012), “The forgiving organization: A multilevel model of forgiveness at work”, Academy of Management Review, 37 (4), 664-668
  • Goodstein J. & Butterfield K. D. (2010), “Extending the horizon of business ethics: Restorative justice and the aftermath of unethical behavior”, Busness Ethics Quarterly, 20: 453-480
  • Manfred F. R. Kets de Vries (2015), Mindful Leadership Coaching, Edizioni FerrariSinibaldi
  • Schneider B., Ehrhart M. G. & Macey W. H. (2011), Organizational climate research: Achievements and the road ahead, in Ashkanasy N. M., Wilderom C. P. M. & Peterson (Eds), Handbook of organizational culture and climate, Thousan Oaks, CA: Sage

 

A cura di: Gabriele Gabrielli

Profilo Autore

Executive Coach e Consulente, docente di HRM & Organisation alla LUISS Guido Carli, Professor of Practice in People Management alla LUISS Business School, Presidente Fondazione Lavoroperlapersona (www.lavoroperlapersona.it)

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