La Job Rotation come strumento per la diversificazione delle competenze aziendali

Sentimenti e reazioni molto diversi suscita il fatto di dover cambiare mansione, all’interno dell’organizzazione, per allinearsi alle richieste dell’alta direzione. Penso di poter affermare che il periodico cambio di mansioni, non sempre accompagnato da un aumento di responsabilità, visibilità e gratificazioni, sia un concetto che ai più rimane piuttosto inspiegabile, se non addirittura critico. D’altra parte, più l’azienda assume dimensioni importanti e le “distanze” tra livelli si allungano, più gli interscambi di ruolo diventano frequenti.

La job rotation, volendo coglierne gli aspetti positivi, ha in sè diversi pregi.

Per le aziende che fanno dell’etica un emblema societario, il cambio di mansioni assume a volte ed in particolari ruoli, l’aspetto di una precauzione in tutte quelle situazioni ove un certo ruolo potrebbe favorire comportamenti fraudolenti. Pensiamo ad esempio i responsabili di un’azienda che indirizzano verso taluni fornitori invece che altri, o ancora peggio verso clienti preferenziali a discapito del valore aggiunto per l’azienda.

Assecondarla quando possibile

Una richiesta volontaria di cambio di mansione da parte di un dipendente non deve mai essere sottovalutata dall’azienda; che tale istanza derivi da una situazione di insofferenza o da attrito tra colleghi vicini o dall’anelito di progredire e diversificare le proprie conoscenze, il fatto c’è ed occorre affrontarlo. Risolvere una questione di incompatibilità tra colleghi mediante un cambio di mansione, e quindi di ufficio, diventa rischioso; spostare un dipendente, seppur lasciando immutati i compensi, potrebbe alla lunga far insorgere sentimenti di malcontento legati per esempio ad un nuovo ruolo meno visibile o con mansioni più ripetitive e meno appaganti: porre molta attenzione a non virare verso un demansionamento. Lo scoramento che ne deriva viene spesso mascherato e inesorabilmente porta ad un abbassamento del rendimento lavorativo, specie quando lo spostamento è la conseguenza di un posto resosi vacante e occorre trovare un sostituto dall’interno.

Un comportamento molto apprezzato dalla direzione è quello per cui un dipendente, meglio ancora se appartiene al gruppo dei “virtuosi”, esprime la sua disponibilità alla job rotation, delineando magari i ruoli di preferenza: così facendo, mette più a suo agio l’azienda e si rende più appetibile per incarichi di maggior responsabilità.

Un cambio di mansione, a prescindere dalle motivazioni alla sua base, sarà sempre una opportunità di crescita professionale, se non altro per il semplice motivo secondo cui non ci sarà mai miglioramento se le cose continuano ad essere fatte allo stesso modo. E’ il principio zero su cui si basa il “kaizen”. Per poter affrontare e trarre giovamento da un cambio di mansione, occorre prima di tutto convincersi che saremo in grado di contribuire al miglioramento dell’ente a cui siamo stati assegnati: questo passaggio non è sempre scontato. Infatti occorre considerare che un cambio organizzativo viene suggerito generalmente dall’”alto”, ossia da un superiore che probabilmente ha una visione più ampia di come i vari dipartimenti stanno contribuendo al benessere aziendale: quindi un “cambio” viene sempre predisposto per favorire il successo del subentrante.

Come pianificarla

Tra gli indicatori da tener d’occhio per gestire i cambi di mansione, due mi sembrano essere dominanti: le interviste periodiche ed i risultati ottenuti. Le interviste forniscono indicazioni dirette sulle speranze e desideri dei collaboratori che aspirano a cambiare tipologia di lavoro; i risultati invece potrebbero essere buoni a prescindere dal gradimento di una risorsa verso il ruolo occupato nell’organizzazione. Ho assistito a job rotation “selvagge” in cui progettisti di automazione o prodotto hanno rivestito ad esempio incarichi molto diversi tra loro, passando dal controllo qualità, alla manutenzione, dagli acquisti agli affari generali per decisioni probabilmente discutibili o di ripiego; personalmente cercherei di non stravolgere troppo e mantenere il ruolo dei collaboratori abbastanza aderente alla loro natura e bagaglio culturale. Il modello calcistico olandese di 40 anni fa, il famoso calcio totale, in cui tutti i componenti della squadra potevano giocare in qualsiasi ruolo rimane sempre una eccezione che conferma la regola: squadra che vince non si cambia, o perlomeno non si stravolge.

Occorre inoltre tener conto di quelli che chiamerei cicli lavorativi, ossia di quegli intervalli di tempo entro i quali ragionevolmente si riesce ad entrare in un ruolo, pianificare ed apportare valore aggiunto: ritengo che, ogni tre / cinque anni, ogni lavoratore dovrebbe essere messo in condizione di poter rivalutare la propria posizione.

Quando fermarla

La job rotation non andrebbe mai fermata. In occasioni o circostanze speciali, può essere saggio sospenderla. Quando l’organizzazione è sottoposta a periodi di particolare richiesta, detti picchi di produzione, o per ogni altro motivo per cui è richiesta la massima energia operativa, non è consigliabile deviare risorse dagli abituali incarichi: una job rotation richiede sempre un minimo di tempo di ambientamento, nonchè di risorse che si dedichino all’addestramento, distogliendole a loro volta dallo sforzo produttivo. Una volta ristabilito un equilibrio tra ritmi produttivi e richieste cliente, si riprende con la job rotation; questo ha luogo sia nell’ambito di regolari avvicendamenti, che a seguito di nuove opportunità, come il varo di nuove linee di produzione, ampiamenti produttivi o l’affacciarsi di nuove opportunità inter-company.

Flessibilità e job rotation

Molti parlano, vantandosi, della fabbrica flessibile, dove “idealmente” tutti sanno fare tutto in qualsiasi posizione; trattasi in questo caso di ruoli di pari livello, onde non rimanere intrappolati in dispute relative alla ufficialità o al corretto posizionamento nella struttura organizzativa.

La job rotation è lo strumento principale per ottenere una buona flessibilità del personale. La flessibilità, ossia la capacità di un’organizzazione di interscambiare il personale, è una caratteristica la cui entità va decisa di volta in volta. Non esiste la percentuale ideale di personale “ruotabile” a piacimento. Personalmente, in realtà di circa un centinaio di operatori in postazioni di lavoro automatiche o semiautomatiche, ritengo che un 5% di personale flessibile sia accettabile. Tale percentuale può sembrare bassa, ma è relativa a una forza lavoro stabile, produttiva, motivata e gratificata. Per quanto riguarda le assenze, improvvise o pianificate, a seconda dei dati di assenteismo, tipicamente malattia e permessi, al fine di mantenere gli organici al completo su tutte le linee, si suole assegnare delle risorse aggiuntive da inserire dove necessario; anche in questo caso la percentuale deve essere valutata caso per caso, anche se mi sembra di poter consigliare non più di un 5% per ogni turno.

Obiettivo finale

Creare la squadra perfetta, il “dream team”, è possibile, ma occorre tempo. Attraverso l’addestramento delle risorse e l’avvicendamento dei ruoli, è possibile trovare delle condizioni stabili in cui ognuno dà il massimo. Quando si raggiunge un livello molto alto di competitività e di motivazione del personale, la job rotation in quanto tale cede il passo ad altre attività prioritarie, salvo risvegliarla per le occasioni migliori, tra cui la mia preferita è sicuramente l’introduzione di nuove linee per nuovi prodotti.

Articolo a cura di Fabio Bordignon

Profilo Autore

Finder SpA Eldom, Automotive: Marketing Tecnico, Ing di Processo e Prodotto
Bitron SpA Eldom, Automotive: Ing di Processo, Direttore Qualità (DQ), Dir Sistema Qualità (DSQ)
Omron Auto: Ing di Processo, DQ, DSQ, Dir Produzione, Dir Stabilimento
Omron Auto, Eldom, Distribuzione Energia: FAE - Field Application Engineering Manager
Paesi frequentati per motivi di lavoro: Giappone, Cina, Corea, Taillandia, India, UK, Germania, Francia, Spagna, Messico, Stati Uniti, Turchia

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