Intervista a Diva Tommei, imprenditrice

Questa rubrica si chiama “Voci dell’Innovazione”. Per te l’innovazione che voce ha? Che lingua parla? E qual è il suo interlocutore privilegiato?

Per me l’innovazione è la voce del coraggio che tutti noi abbiamo dentro. A questa voce, però, non tutti diamo ascolto, spesso perché non siamo allenati a farlo. Contesti famigliari favorevoli ci possono aiutare a crescere pensando in modo intraprendente, senza avere paura di fare scelte coraggiose come prendere la via meno ovvia o cambiare strada dopo averne percorsa tanta in una direzione completamente diversa, ma a volte questa voce è semplicemente un tratto caratteriale che si possiede. Per me è stato un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. L’interlocutore di questa voce è tra i più privilegiati che ci sia ed è quella parte di noi che ci chiede di fare le scelte più coraggiose, quella di cui abbiamo più paura ma che ci rende vivi.

Puoi raccontarci come e da dove nasce la tua passione imprenditoriale?

La mia passione si sviluppa durante i gli anni di dottorato all’Università di Cambridge in Inghilterra. Dovendo lavorare in un ufficio esposto malissimo alla luce del sole ho voluto cercare una soluzione a quello che per me stava diventato un problema insopportabile. Dover accendere la luce tutti i giorni, anche quando fuori c’è il sole ed è una bellissima giornata, è una cosa che non auguro a nessuno, ma che naturalmente è un problema di molti. Così nasce la mia idea imprenditoriale in modo totalmente naturale, dalla mia stampante 3D e da un programma software che avevo scritto per permettere al robottino di inseguire il sole nel cielo.

Al TEDxTiburtino sei stata invitata a partecipare in qualità di speaker. Nel tuo intervento hai parlato di “fallimento” legandolo al tema delle startup. Come tu stessa hai ricordato, nel 2014 il tasso di mortalità delle startup innovative italiane era pari all’1,7%, mentre nel 2015 al 3,3%. Negli USA in media muore invece il 90% delle startup. Questo cosa vuol dire per te?

Vuol dire che viviamo in un contesto socio economico e culturale che non ci permette di fallire e che quindi, inibendo lo spirito imprenditoriale del “pensare in grande” (diverso da quello della maggioranza delle piccole e medie imprese), inibisce la sua stessa crescita, oltre quello che può essere raggiunto con il giro dell’economia delle piccole e medie imprese. Non avendo la serenità di sapere che si potrà ritentare dopo un fallimento senza essere etichettati come persone che “non ce la fanno” (e su cui quindi non si deve più investire), i nostri imprenditori non possono farcela e rimangono a perseverare solo quelli che non si fanno condizionare dal sistema, una percentuale ovviamente molto più bassa di quella che potrebbe essere se solo riuscissimo ad allentare un po’ questo corto circuito culturale. Fallire negli USA è invece l’esatto contrario, ovvero una misura di quanto si è coraggiosi. Nel mondo dell’imprenditoria, dove non esiste un libro su cui studiare per diventare bravi, come si può imparare senza poter fallire? È proprio questa la strategia vincente degli USA. Sta tutta nei numeri. Non hanno imprenditori più intelligenti dei nostri, ma semplicemente sanno dare l’opportunità di ricominciare a molte più persone. Ritentando più volte si ha molta più probabilità’ di vincere.

Per restare in tema, qual è stato il più grande fallimento del tuo percorso imprenditoriale e il principale insegnamento che ne hai tratto?

In realtà ce ne sono stati diversi e hanno tutti portato con sé delle lezioni importanti. Il fallimento più grande però è sicuramente stato quello di non aver creduto in me stessa e aver ascoltato chi pensava di conoscere i miei limiti. L’unica persona a conoscere i tuoi limiti sei tu.

Il tuo percorso di studio e quello professionale si sono sviluppati in diversi Paesi del mondo: una laurea in Biotecnologie in Italia, poi un dottorato in Bioinformatica all’Università di Cambridge, e ancora un periodo di studio alla Singularity University in Silicon Valley. Cosa ti ha insegnato ciascuna di queste tre esperienze in Paesi così diversi tra loro?

La laurea in Italia mi ha insegnato a capire chi fossi da un punto di vista intellettuale, che cosa mi appassionava e ad esplorare le mie capacità, mettendomi costantemente alla prova in un ambiente diverso a quello a cui ero abituata avendo fatto un liceo americano. Il dottorato mi ha fatto scoprire capacità di problem-solving, perseveranza e pazienza che non sapevo di avere cosi spiccate. Soprattutto nei momenti più bui sono sempre riuscita a risalire e questo mi ha permesso di dare fiducia per la prima volta alle mie capacità emotive (quelle intellettuali erano già assodate da tempo da un percorso accademico ferreo). L’esperienza alla Singualrity University è stata l’ultima delle tre e non a caso quella che mi ha cambiato la vita. È stato li che ho scoperto la mia vocazione per l’imprenditoria tech ed è stato li che sono stata per la prima volta capace di canalizzare tutte quelle energie mentali che non trovavano seguito nel campo accademico in una creazione tutta mia che potevo controllare e che tanto più avrei nutrivo tanto più sarebbe cresciuta.

Secondo i dati dell’Osservatorio Startup Hi-tech della School of Management del Politecnico di Milano, in Italia nel 2016 le giovani aziende innovative hanno raccolto fondi per 182 milioni di euro, il 24% più dell’anno precedente (ma in Francia e Germania il venture capital vale fino a sette volte di più). Secondo te da cosa dipende questo gap e come può essere colmato?

Il discorso socio economico e culturale che facevo precedentemente vale anche in questo campo. Gli investitori devono diventare in grado di mettere sul tavolo capitale competitivo per permettere alle aziende in cui investono di trovare più capitale in futuro. Conosco startup che non sono state considerate da VC americani perché’ avevano accettato precedentemente investimenti italiani a condizioni, a detta dei VC americani, sfavorevoli per la startup stessa. Per questi VC, quindi, quelle startup avevano poca considerazione di quanto valevano. Non tutto il capitale è uguale e sono le condizioni attraverso cui questo capitale è concesso a fare la differenza. Bisogna saper dire di no e continuare a cercare quando il deal non da’ il giusto valore alla propria azienda. L’unico modo secondo me di colmare il gap tra soldi investititi su startup in Italia e all’estero è quello di prendere i VC americani o filo-americani come “role models” e lasciare che siano loro a dettare le condizioni dell’investimento all’inizio. Iniziando cosi si può sormontare la paura e il timore iniziali per poi procedere anche da soli con i deals in un futuro prossimo. Molti fondi e aziende con venture arms questo hanno cominciato a farlo. Di quelle che conosco ci sono Invitalia e AXA.

Secondo la tua opinione l’Italia è un Paese in cui l’innovazione e la creatività imprenditoriale vengono agevolate? E, riconducendolo alla tua esperienza, il nostro Paese ti ha agevolato (o ostacolato) in qualche modo?

Si stanno facendo dei grandi passi avanti. Quando ho cominciato non c’era cosi tanta consapevolezza e comunicazione intorno a queste temi. Infatti abbiamo faticato molto e alla fine ci siamo dovuti ritagliare una strada tutta nostra. Spero che andando avanti potremo trovare opportunità che ci tengano legati al territorio italiano.

Un tema di grande attualità è quello relativo all’incidenza delle nuove tecnologie sul lavoro, non solo sulle sue caratteristiche intrinseche ma anche sulle sue dinamiche: dall’evoluzione dei mestieri, delle competenze e delle professioni alla sfida della modernizzazione del mercato. Tu credi che l’intelligenza artificiale, l’internet delle cose, i big data sostituiranno l’uomo nel suo lavoro o che quest’ultimo sarà in grado di sopravvivere al cambiamento tecnologico, di adattarsi e, perché no, di guadagnarci?

Assolutamente no. Non credo ci sarà alcuna sostituzione dell’uomo nel lavoro, ma solo una transizione da un tipo di mestiere a un altro. Ci saranno sempre meno lavori manuali, questo si, perché fortunatamente molti di questi verranno sostituiti da macchine intelligenti, ma tutti quei lavoratori manuali diventeranno operatori e programmatori di queste macchine. Mi rendo conto che, come spesso accade, la risposta a questo tipo di domanda è sempre di tipo qualitativo perché quello che ancora non sappiamo predire è con quale rapporto di conversione avverrà questa transizione, ovvero se a ciascun lavoratore di oggi si potrà dare un lavoro di natura diversa domani. Credo che a determinare l’efficacia di questa transizione sarà l’investimento delle singole aziende nella ri-educazione e nella re-integrazione del proprio personale e nella creazione di un network globale di aziende il cui scopo sarà quello di scambiare risorse che non possono essere re-integrate nell’azienda di origine.

Secondo te i manager possono essere utili ai giovani in un’attività di accompagnamento e di supporto dei loro percorsi imprenditoriali? Se si, quali competenze e sensibilità potrebbero mettere a disposizione? Cosa può servire loro?

Certo, instaurare un circolo virtuoso di mentorship tra giovani e manager da’ accesso ad entrambi a risorse che non avrebbero altrimenti a disposizione. La creatività e l’energia dei giovani possono essere incanalati con l’aiuto dei manager in percorsi strutturati con potenziale di crescita mentre, viceversa, i manager possono beneficiare di questo rapporto con i giovani per rimanere sempre aggiornati sul panorama globale di questa futura classe dirigenziale e trovare ispirazione per ravvivare o modificare i loro stessi percorsi imprenditoriali.

Biografia

Diva Tommei è una giovane imprenditrice. Ha studiato Biotecnologie a La Sapienza a Roma e ha poi ottenuto un dottorato in Bioinformatica dall’Università di Cambridge. È’ stata selezionata nel 2010 per andare al primo anno della Singularity University come parte del loro Graduate Studies Program. Ha iniziato la sua carriera di imprenditrice tech co-fondando diverse startup nell’ambito biotech Diva è un membro dell’associazione Women in Aerospace ed è stata eletta come membro onorario della Cambridge University Technology and Enterprise Club. È anche una Global Shaper e insegna un modulo sulle startup alla Rome Business School. Diva è stata nominata “Top 50 Influential Women in European Entrepreneurship” da EU-Startups e il suo primo TEDx è stato nel 2017 a TEDx Tiburtino. Nel 2017 le é stato attribuito il Premio Giovani Innovatori TR35 dall’MIT Technology Review Italia.

 

A cura di: Marcella Mallen, Presidente Prioritalia

Profilo Autore

Marcella Mallen, nata a Genova, sposata e madre di due figli, laureata in giurisprudenza, vive a Roma dove ha lavorato come manager HR in aziende a cavallo tra profit e no profit impegnate nella creazione e sviluppo d’impresa e del territorio. È stata Presidente del Centro Formazione Management del Terziario, attualmente è Presidente di Prioritalia.
Collabora con università pubbliche e private, in master ad alta specializzazione manageriale, in qualità di docente e componente di comitati tecnico – scientifici, è membro della Commissione ADI INDEX per il Design Sociale. Ha scritto articoli e pubblicazioni su tematiche di interesse manageriale ed è coautrice di “Effetto D. la leadership è al femminile: storie speciali di donne normali”.

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