Il “trasferimento di proprietà” dell’azienda nella contrattazione collettiva dirigenziale

Secondo il complessivo corredo normativo in materia, si definisce “trasferimento d’azienda” un’operazione giuridica che attui il mutamento nella titolarità di una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi (cfr. art. 2555 c.c. – Nozione: “L’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”), connessa a un assoluto divieto di licenziamento del personale ad opera dell’imprenditore cedente.

Posto il principio suddetto, per cui la cessione d’azienda non costituisce di per sé un giustificato motivo di licenziamento, da parte dell’imprenditore cedente, va detto che può concorrere a costituirlo qualora quest’ultimo possa dimostrare la sussistenza di un ulteriore elemento, consistente nella necessità di provvedere, al fine di attuare la cessione, al ridimensionamento dell’assetto organizzativo dell’azienda, afferente al personale occupato, per avere il cessionario accettato l’operazione solo a condizione di una preventiva e drastica riduzione dei dipendenti dell’azienda medesima. In questo senso, la S.C. ha confermato la sentenza con la quale i giudici del merito avevano ritenuto giustificato il licenziamento intimato ad un dirigente da un’impresa industriale che, trovandosi in condizione prefallimentare, aveva ceduto la propria azienda, accettandone la condizione, posta dal cessionario, di provvedere alla riduzione di numerosi posti di lavoro (Cass. 9 settembre 1991, 9462).

Parlando, ora, delle ipotesi descritte dalla contrattazione collettiva dirigenziale come “trasferimento di proprietà dell’azienda”, che configurano fattispecie di dimissioni “qualificate”, v’è da dire innanzitutto che le stesse si aggiungono a quella generale di cui all’art. 2112, comma 5, c.c., stabilita per il dirigente (così come per tutti gli altri lavoratori), “le cui condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d’azienda” e che si sostanzia nella generica possibilità di “rassegnare le proprie dimissioni con gli effetti di cui all’art. 2119 c.c., primo comma”, ovvero con il diritto al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso, equiparandosi, così, la fattispecie a quella delle dimissioni per giusta causa.

Si deve subito rilevare che il generico concetto di trasferimento di proprietà dell’azienda – che mal si adatta a descrivere compiutamente tutte le vicende giuridiche atte ad avere riflessi nell’assetto e nella struttura aziendale – deve essere valutato in modo da ricomprendere tutte le situazioni che portino, comunque, ad una sostanziale variazione nell’organo di gestione sovraordinato gerarchicamente al dirigente, sia in via diretta sia in forma indiretta, attraverso il controllo di proprietà, comprese le ipotesi di usufrutto o di affitto dell’azienda (cfr. art. 2112, comma 5, c.c., da tenere in debito conto per le interferenze reciproche con la fattispecie in esame: “Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi compresi l’usufrutto o l’affitto di azienda. ….”). A questo fine si enumerano, nei vari contratti collettivi dirigenziali, alcune operazioni – quelle della concentrazione, della fusione e dello scorporo – che, a stretto rigore, non possono qualificarsi come trasferimento d’azienda, potendone anzi prescindere.

A questo proposito, la giurisprudenza di merito ha stabilito che il trasferimento d’azienda è configurabile, a prescindere dal nomen juris adottato nelle singole operazioni, nell’ambito di una operazione finanziaria condotta tra società collegate in virtù della quale la cessionaria acquisisca uno stabilimento e provveda alla riassunzione del personale già posto in Cigs dalla società cedente, procedendo quindi a ristrutturare l’impianto al fine di iniziare la medesima produzione già progettata dalla venditrice (Trib. Napoli 8 giugno 1993): nella fattispecie, in occasione del suddetto trasferimento, secondo la decisione in parola è configurabile, nei confronti di un dirigente che abbia in concreto gestito il passaggio dell’attività, la costituzione di un rapporto di lavoro nei confronti della società cessionaria, la quale, pertanto, è l’unico soggetto legittimato alla risoluzione del nuovo rapporto lavorativo.

Secondo una decisione interessante, anche se non molto recente (Pret. Milano 30 gennaio 1982), il riferimento della contrattazione del settore industria al fenomeno della “concentrazione”, dimostra, nel modo più evidente, l’intenzione dei contraenti di considerare non già dei fatti puramente formali, bensì tutti quei mutamenti dell’assetto della proprietà e della collocazione economico-finanziaria dell’azienda idonei a incidere significativamente sul rapporto sostanziale tra dirigente ed imprenditore al di là dei modi e delle forme in cui il cambiamento si realizzi. Lo stesso discorso vale per il fenomeno dello scorporo, che si prospetta come esattamente inverso a quello della concentrazione. In questo senso, le ipotesi “meramente esemplificative” del contratto collettivo servono a dimostrare che la clausola è applicabile anche quando rimanga formalmente immutato il soggetto giuridico imprenditore, purché si verifichi un cambiamento sostanziale nell’assetto della proprietà dell’azienda.

Si tenga inoltre presente che, anche nell’ipotesi di acquisizione di una società da parte di un gruppo di imprese, può prescindersi da un vero e proprio trasferimento di proprietà, allorquando la holding limiti il suo intervento all’acquisto di un numero sufficiente di azioni, tale da garantirle un controllo, anche solo di fatto, sulla società. Peraltro, la S.C. ha statuito – con riferimento al contratto commercio/terziario – essere di “estrema chiarezza espressiva” la clausola relativa, assegnando “carattere tassativo” alle ulteriori esemplificazioni riportate nel contesto, negando al dirigente la facoltà di recedere dal rapporto di lavoro, con diritto all’indennità di preavviso, nel caso di cessione del pacchetto azionario di controllo (Cass. 12 settembre 1995, n. 9637), argomentando, sul punto specifico, che, nel caso di specie, si è verificato “solo” un trasferimento di azioni che, ferma restando la titolarità e l’imputazione dei rapporti giuridici esterni all’identico, permanente, soggetto societario, ha tuttavia comportato una mutazione nella titolarità e proprietà dell’impresa esercitata in forma societaria.

In realtà, deve ritenersi che ciò che vogliono veramente tutelare le norme contrattuali in oggetto è la chiarezza nei rapporti gerarchici, insieme alla piena verificabilità del reale assetto proprietario, in uno col rapporto fiduciario tra dirigente e imprenditore, senza che, peraltro, occorra l’insorgenza effettiva di un contrasto, ritenendosi sufficiente la semplice potenzialità o il pericolo del pregiudizio.

A proposito di questa fattispecie, così come letteralmente disciplinata nel settore industria, in riferimento all’ipotesi di fusione societaria e, più in generale, a quella del “trasferimento d’azienda”, qualora la contrattazione collettiva rimetta ai lavoratori benefici e vantaggi aggiuntivi rispetto a quelli previsti dalla legge, “ai fini dell’interpretazione delle relative clausole negoziali, le nozioni normative comunitarie e nazionali di tali eventi non sono necessariamente vincolanti” (Cass. 9 agosto 2000, n. 10500).

Infatti, nell’interpretazione della disciplina contrattuale collettiva assume un rilievo preminente il criterio previsto dall’art. 1363 c.c. della esegesi complessiva delle singole clausole aziendali (che si interpretano “…le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto…”), dal momento che la comune intenzione delle parti non sempre è agevolmente ricostruibile attraverso il mero riferimento “al senso letterale delle parole” (art. 1362 c.c.): ciò a causa della specificità della contrattazione collettiva che, sovente articolata su diversi livelli (nazionale, territoriale, aziendale, etc.), nel regolare una materia vasta e complessa in ragione della interdipendenza dei molteplici profili della posizione lavorativa, fa uso di un linguaggio – quello delle relazioni industriali – non necessariamente coincidente con quello comune. Sembra applicare repentinamente questa linea interpretativa una decisione di merito (App. Milano 30 dicembre 2002), quando statuisce che al fine del riconoscimento del trattamento previsto dall’art. 13 c.c.n.l. per i dirigenti di aziende industriali “è necessario e sufficiente che vi sia stato mutamento dell’assetto proprietario, che il dipendente abbia precisato le ragioni delle proprie dimissioni con riferimento a tale fatto e che le dimissioni intervengano entro il termine indicato nella norma”, escludendosi a carico del dirigente l’obbligo del preavviso o del pagamento della relativa indennità sostitutiva.

In effetti, le norme individuano una forma privilegiata (rectius; qualificata) di dimissioni per il dirigente che non sia disposto a prestare servizio alle dipendenze della società – o dell’assetto societario – subentrante, dimostrando, pur con formulazioni a volte poco precise, qual è il “nocciolo” del problema.

Al dirigente viene concesso uno spatium deliberandi per una personale valutazione circa l’opportunità di risolvere il rapporto attraverso la presentazione di dimissioni qualificate, con il beneficio di un particolare trattamento economico o con la possibilità di ottenerlo attraverso una procedura arbitrale speciale o, naturalmente, attraverso la via giudiziaria ordinaria.

Il termine entro il quale esercitare l’opzione contrattuale ha un preciso dies a quo, diverso per ogni settore, e si può sottolineare al riguardo che, ove venga richiesta la “comunicazione” formale, non può ritenersi equipollente di tale solenne notificazione scritta la conoscenza del fatto comunque acquisita (con riferimento al c.c.n.l. autotrasporti e spedizioni, la decadenza del dirigente dal diritto di recesso presuppone la formale comunicazione del mutamento nella titolarità: Cass. 11 marzo 1993, n. 2935) e che, d’altro canto, la relativa comunicazione deve essere diretta e circostanziata.

In ogni caso, indipendentemente dall’esercizio del recesso entro il termine previsto, deve ritenersi operante il principio per cui non possono ledersi i diritti acquisiti dal dirigente, intendendo per tali quelle situazioni – giuridicamente valutabili – riconducibili, direttamente o indirettamente, alla posizione professionale e gerarchica del dirigente in seno all’azienda, eventualmente come conseguenza di tale soluzione. Il mutamento intervenuto nell’assetto proprietario non deve intaccare la sfera giuridico-patrimoniale-professionale del dirigente, sì da essere ininfluente sul rapporto di lavoro, in tutti i suoi aspetti, normativi ed economici.

Sulla natura dell’indennità in questione, si propende per la qualificazione della stessa come un risarcimento, in senso lato, con la connessa non computabilità ai fini del trattamento di fine rapporto e ai fini delle mensilità aggiuntive o supplementari, in considerazione del fatto che l’indennità non implica la prosecuzione del rapporto, con una sorta di effetto quasi reale – per il tempo pari ai mesi di preavviso in cui si quantifica – dovendosi, anzi, considerare il rapporto medesimo come cessato alla data delle dimissioni (Cass. 30 maggio 1989, n. 2620, con specifico riferimento al settore commercio/terziario).

A proposito dei rapporti reciproci ed al confronto fra le due fattispecie esaminate nel presente intervento ed in quello precedente sul mutamento di posizione del dirigente, la giurisprudenza ha precisato che gli artt. 13 e 16 del settore industria vanno interpretati nel senso che il primo – nell’accordare al dirigente dimissionario entro 180 giorni dal trasferimento di proprietà dell’azienda o eventi equiparati il diritto ad un terzo dell’indennità di preavviso – si riferisce a mutamenti organizzativi incidenti sulla posizione del dirigente solo potenzialmente, mentre l’art. 16 – che attribuisce l’intera indennità di preavviso al dirigente dimessosi entro 60 giorni – si riferisce a situazioni nelle quali il pregiudizio della professionalità del dirigente conseguente a mutamenti organizzativi, legati o meno a cambiamenti proprietari, è attuale (Cass. 23 maggio 2001, n. 7060).

 

Articolo a cura di Pasquale Dui

Profilo Autore

Avvocato - Partner presso DV-LEX DUI VERCESI & PARTNERS Studio Legale - Professore a contratto di diritto del lavoro - Revisore Legale - Giornalista pubblicista

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