Il paradosso della solitudine: un insieme di persone sole

Mi sono reso conto che un uomo solo non mi ha mai fatto paura, invece l’uomo organizzato mi ha sempre fatto molta paura
Fabrizio De André

Quella sensazione di benessere che si prova quando si ascolta per la prima volta la parola condivisione. Insieme allo stupore che si accende negli occhi che una volta appartenevano a un bambino e ora guardano un mondo adulto, quello in cui si sbaglia da professionisti per dirla con le parole di Paolo Conte.

Sul tavolo da gioco della vita, in cui il montepremi è la nostra sopravvivenza, puntiamo le nostre carte sotto forma di parole. Bluffiamo e non sappiamo nemmeno mascherarlo. Ripetiamo fino quasi a crederci espressioni come insieme, uniti, sharing. E nel momento esatto in cui lo pensiamo finiamo con l’essere più soli di prima. Perché la solitudine è un rampicante, pervade le coscienze, occupa le Organizzazioni e colonizza le comunità di chi alla fine vive il paradosso di essere solo ma insieme a una moltitudine di persone sole.

Il motivo per cui associamo la parola solitudine al dolore è per quell’affinità di fondo che ci porta a pensare che entrambe hanno un percorso lento. Soli si diventa con lo scorrere del tempo e il dolore vero, quello che ti segna l’anima, spesso si manifesta molto lentamente, diciamo che si sedimenta fino a diventare qualcosa di solido e resistente. Non necessariamente parliamo di qualcosa di patologico. Niente affatto.

Se penso alla solitudine, mi viene da pensare a un uomo che riflette, non necessariamente a uno che soffre della sua condizione. Pensiamo ai Manager che vengono valutati per la capacità che hanno di coinvolgere le loro risorse, il risultato dipende quasi sempre da un elaborato gioco di squadra, ma spesso la scintilla che accende quella passione si materializza lontano da tutti. Le decisioni che fanno non solo accadere le cose ma che le cose le cambiano per davvero non vengono quasi mai prese in certe riunioni fumose dove il fumo non è quello della combustione del tabacco quanto la scia di pensieri inutili che aleggia in certe stanze color nostalgia.

Le cose accadono lontano. Certe idee fanno il giro largo. Alcune intuizioni arrivano quando sei impegnato a vivere, non a lavorare. E arrivano quando ti fermi e rimani da solo. Succede a molti, il più delle volte inconsciamente e la cosa più difficile è conservare quell’idea e darle forma. L’idea di fermarsi, respirare, pensare è forse quanto di più lontano accade nelle Organizzazioni. Ci nutriamo di Survey e se provassimo a sondare una qualunque popolazione Aziendale sulla necessità di fermarsi a riflettere, farlo cioè diventare un valore tra i tanti che stanno affissi in bacheca, la gente ci prenderebbe per matti. Eppure, ne avremmo bisogno tutti perché vivere perennemente in apnea a lungo andare è insostenibile.

Ci sono esempi luminosi di solitudini rumorose. La scena finale di Sostiene Pereira, con un vecchio Marcello Mastroianni sorridente che cammina controcorrente tra la folla che sembra ignorarlo, trasmette il senso profondo di alcuni gesti che cambiano la vita delle persone restituendone il senso. Nel suo caso un semplice articolo di giornale che diventa denuncia del regime totalitario di Salazar in Portogallo, siamo alla fine degli anni ‘30.

Parliamo troppo spesso di Manager, di Leadership, come se il dibattito si concentrasse solo su queste dimensioni. E finiamo col trascurare colpevolmente la maggioranza delle persone che abitano l’Azienda, quelle che pur non avendo ruoli decisionali di fatto consentono all’Azienda di funzionare. Un vero e proprio esercito silenzioso che ci passa accanto senza lasciare traccia. Nessun libro di storia le ricorderà. Ma se diamo per scontato che i Manager sono oggi occupati a fare altro, e nell’altro ci metto anche la loro sopravvivenza, la funzione HR non ha più alibi, dovrebbe tornare ad occuparsi di umane risorse come le chiama il mio amico Osvaldo Danzi di Fior di Risorse, espressione che mi sento di condividere appieno. L’idea di recuperare quella parte di anonimato equivale a un faro puntato in mezzo alla folla che illumina colui, che come dice un vecchio proverbio Sufi, viaggia nell’oscurità, ma sta pur sempre viaggiando.

C’è una scena nel film “The Place” in cui il protagonista – Valerio Mastandrea – dialoga con Sabrina Ferilli. Ad un certo punto, alla domanda “cosa ci trovi negli altri?” Mastandrea risponde “cose inaspettate”. Ed è a questo che deve mirare la funzione HR, combattere la prevedibilità di certe dinamiche che vedono HR e persone dialogare del nulla dove quel nulla è proprio quella mancanza di valore aggiunto nelle dinamiche relazionali che se ben condotte possono davvero cambiare le cose. Una funzione HR che oggi non si dimostri nei fatti trasformativa è destinata a recitare un ruolo di comparsa col rischio di piombare in una – questa sì – solitudine devastante.

Sembra quasi la dimostrazione di un teorema che vede le tre componenti (Persone, HR e Manager) accomunate da questa solitudine che di creativo ha ben poco. Perché la solitudine è un atto creativo come ci ricordava Fabrizio De André. È forse l’esempio più alto, quello che ci permette di vedere le cose da una certa distanza, una messa a fuoco che restituisce un’immagine sempre meno sfocata e quindi più nitida. Invece succede che in modo superficiale le attribuiamo quasi sempre una connotazione negativa, cerchiamo di combatterla aumentandone a volte la portata. È la paura di non essere capiti per un gesto esagerato – diceva Daniele Silvestri – e quindi ci omologhiamo cercando di somigliare agli altri anche quando gli altri sono un campionario di ovvietà. È su questa linea sottile che si gioca la partita. Avendo cura di evitare la deriva patologica della solitudine che, ad esempio, ha suggerito alla Gran Bretagna di istituire un paradossale quanto pittoresco Ministero della Solitudine vero e proprio esempio di ossimoro se poi il dibattito si focalizza sull’effetto isolamento che la Brexit produce. Così gira il mondo ma se ci mettiamo a testa in giù ci sembrerà tutto normale.

Persino un tizio che affoga nei suoi pensieri su una panchina in pausa pranzo non provocherà in noi nessuna forma di disagio. Bisogna essere curiosi dentro e fuori perché le persone hanno ingranaggi complicati e non può ridursi tutto a un’etichetta, a un pregiudizio. Se vi occupate di persone investite sulla curiosità e sullo stupore. Per il Master in formula weekend c’è sempre tempo.

 

Articolo a cura di Giovanni Di Muoio

Profilo Autore

Giovanni Di Muoio, esperto di Narrazione d’Impresa, ha maturato una lunga e consolidata esperienza in ambito HR. Attualmente ricopre il ruolo di HR Business Partner in BNL ‒ Gruppo BNP Paribas, in precedenza ha lavorato in SIAE e come libero professionista. Ha collaborato con diverse testate su tematiche HR e ha pubblicato cinque libri di Narrativa. Specializzato in Short Stories ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti per la sua attività di scrittore.

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