Realtà e metafora della formazione fuori porta

L’Outdoor Training è una metodologia didattica caratterizzata innanzitutto dall’essere, letteralmente, fuori porta, ovvero dal proporre una serie di attività che destrutturano “l’aula” così come tradizionalmente intesa e che configurano la formazione in movimento, ovvero come l’offerta di attività gruppali, nella forma del gioco, dell’arte, dell’attività sportiva, nelle quali i partecipanti devono superare delle prove, risolvere problemi trovando il più velocemente possibile le soluzioni, soprattutto, gestire situazioni di stress, poiché si presentano loro eventi imprevisti che li coinvolgono non come meri spettatori ma come attori impossibilitati a sottrarsi all’azione, proprio come accade nella vita reale.

Pedagogicamente orientato, il gioco viene inserito in una metafora aziendale che lo motiva e diventa lo “sfondo integratore” dell’intera attività.

Non è, dunque, il gioco o qualsivoglia attività in sé a porsi come formativo/trasferibile/spendibile nella vita oltre l’aula, ma il guardare a tutto quel che durante l’esperienza di gioco accade in guisa di metafore generativa […].

Rispetto all’Outdoor, dunque, vivere un’esperienza, anche gratificante, di caccia al tesoro o di tiro con l’arco o di navigazione in barca a vela, non implica, sic et simpliciter, che il gioco degli adulti diventi formazione per gli adulti e che le esperienze vissute possano essere altresì immediatamente trasformate in conoscenze e competenze trasferibili: ciò non avviene, difatti, se a esso manca la mediazione, cruciale, della riflessività e della narrazione, intese come possibilità di cogliere i nessi e le analogie tra quanto esperito durante il gioco e quanto vissuto nella propria quotidianità.

Le potenzialità formative dell’Outdoor, pertanto, si fondano sul considerarlo mezzo e non fine, sul concepirne le sessioni come metafore narrative e sul considerare la metafora una modalità di problem setting che viene didatticamente usata come mediatrice cruciale tra il gioco e la vita reale.

Questa la premessa ineludibile per l’analisi che segue, ove essa stessa è mossa da una visione che interpreta il gioco nella formazione degli adulti non come metodo ma come orizzonte, forma e possibilità generativa di conoscenza e autoconoscenza, self leadership e people management, che ha senso e significato pedagogico nella misura in cui non astrae dalla vita ma, anzi, la considera suo irriducibile paradigma. […]

Possiamo, difatti, riconoscere come l’Outdoor ricalchi esattamente la modalità dell’apprendimento “vitale”, ovvero consente di apprendere, come già descritto da Piaget, nella prima maniera possibile dell’uomo: facendo. Poiché conoscere un oggetto significa agire su e con esso: entrare in contatto, muoversi, sperimentare. Siamo legati al mondo e agli altri mediante le nostre rel-azioni con essi. La nostra mente segue e persegue questi incontri ed essa stessa ne è parte. È il learning by doing la nostra più antica strategia di apprendimento. Già la ricerca piagetiana aveva verificato come la nostra intelligenza e la nostra conoscenza della realtà cominciano proprio mediante le nostre interazioni senso-motorie. La consapevolezza che la mente sia incorporata – l’embodiment di Lakoff – e che dunque inscindibile sia il nesso tra cognizione e corporeità, richiede, allora, che tale umana ontologia sia tradotta in progettazioni formative che traducano in congruenti opzioni metodologiche gli obiettivi di un apprendimento che sia incorporato, non disincarnato.

Caratterizzare le didattiche dell’Outdoor come linguaggi in movimento è, dunque, una scelta metodologica che segue alla comprensione di una irriducibilità biologica: la mente è intrisa nel corpo, scrive Damasio. […] La corporeità è veicolo di conoscenza anzi, la corporeità è il modo stesso della conoscenza: locus, e non antitesi, della formazione. […].

La mente esiste dentro e per un organismo integrato: nelle sessioni di Outdoor il porsi in gioco consente l’emergere intrecciato – proprio come nella vita reale- di cognizione e corporeità, pensieri, emozioni e loro traduzioni comportamentali che, invece, rischiano di restare dissociati e latenti nell’artificio di una situazione didattica frontale, nella quale al partecipante è chiesto, sostanzialmente, di non muoversi e restare seduto. [..].

E’ accaduto, invece, che si siano sviluppati per decenni percorsi formativi senza corpo e apatici: senza pathos, senza coinvolgere la pienezza della complessa co-implicazione tra il fuori e il dentro che caratterizza le azioni umane. Un grande, gigantesco artificio in doveroso omaggio al cogito cartesiano e alla antropologia di Ford e Taylor, che nel decretare la separazione tra il pensiero e l’azione, posero lo stesso iato tra corporeità e cognizione e, dunque, tra vita e formazione.

La conseguenza nelle vite aziendali di tale rimozione della soggettività – ritenuta ostacolo e limite per la professionalità – è stato, come evidenziato da Kets De Vries, la diffusione di una particolare cultura organizzativa caratterizzata dalla alessitimia: con tale espressione egli indica la patologia di quei leader che si ritengono idonei al comando proprio perché «anaffettivi, an-estatici, emozionalmente deprivati» e proprio per questo considerati di alta professionalità giacché dal loro analfabetismo emozionale l’organizzazione ritiene di poter trarre grande vantaggio […].

A fondamento di una tale cultura organizzativa c’è quel retaggio cartesiano che considera il Sé Professionale in misura inversamente proporzionale al Sé Personale, tanto da identificare nella soggettività, e con essa nell’affettività e nella corporeità, l’elemento da neutralizzare al fine di garantire un intervento professionale valido ed efficace. E tanto da poter riconoscere come professionista serio solo colui che sappia tenersi a «debita distanza dal proprio mondo interno» e, dunque, da quello degli altri […].

Di contro a una logica “spassionata” l’Outdoor Training biograficamente orientato promuove e sperimenta una didattica “incarnata”: non timorosa delle sue sensibilità e della corporeità ma in grado di utilizzare le stesse per amplificare le proprie potenzialità formative e per promuovere una visione della professionalità riflessivamente ed empiricamente orientata.

Professionalità, dunque, costruita a partire da – e non nonostante- la propria soggettività, e professionale l’attributo di chi «sia in grado di dire a se stesso “chi sono, che cosa faccio, perché lo faccio, e se mi sento in grado di farlo”».

[…]

La capacità di prendere decisioni, di risolver problemi, di pensiero creativo e pensiero critico, di comunicazione e di relazioni interpersonali, di autoconsapevolezza ed empatia, di gestione delle emozioni e dello stress sono, di fatto, il bagaglio fondamentale per chi gioca e gioca in gruppo: chi le possiede già ne risulta avvantaggiato e chi non le possiede o le possiede solo in parte può, durante il gioco, apprenderle. E le apprende non solo facendo, ma facendo e riflettendo, alla fine, su quanto esse siano determinati per il gioco, così come per la vita.

L’analogia gioco/vita risulta dunque il cuore di ogni possibilità formativa dell’Outdoor.

Ove, però, essa sia opportunamente pedagogicamente intenzionata, per esempio mediante la strutturazione di un pattern di domande-guida per il debriefing autobiografico. Ovvero: dopo una prima fase di analisi dei processi, nella quale i partecipanti, guidati dal formatore/facilitatore della comunicazione, hanno individuato i topic chiave che hanno caratterizzato pensieri, emozioni e comportamenti messi in atto dai singoli e dal gruppo, segue una fase individuale di self-review […].

Nel pieno rispetto della privacy individuali, di questa analisi non viene richiesta condivisione in circle time. Si procede pertanto suddividendo il gruppo in diadi e triadi (composte in relazione alla scelta libera dei partecipanti, dopo che ad essi è stato reso noto che l’obiettivo del lavoro sarà la condivisione dei contenti della propria scheda di self-review) e definendo un tempo opportuno in relazione ai destinatari e al contesto. L’ultima fase, in circle time, prevede non già la comunicazione dei contenuti individuali, ovvero delle personali connessioni individuate tra quanto vissuto in gioco e quanto rintracciato, di analogo, nella propria vita “fuori dall’aula”, ma la restituzione dell’analisi dei processi relativi alle fasi I e II, ovvero la condivisione di quanto e se e come la self-review, e poi la sua narrazione, si siano rilevate di facile o difficile attuazione, promotrici o meno di nuove conoscenze/apprendimenti su di sé. E, indi, la condivisione delle visioni, delle percezioni, degli stupori e/o delle conferme, delle progettazioni e delle possibilità concessesi o meno mediante le forme narrative proprio di un laboratorio autobiografico.

Si tratta, di fatti, di processi di autocoscienza e autovalutazione che, sebbene centrati soprattutto sull’apprendimento di ognuno innanzitutto su se stesso, non possono avvenire se non con la mediazione dell’altro, giacché nessuno po’ accedere a sé e conoscersi senza il tramite dell’alterità. Di fatto, in modalità solipsistica la conoscenza standardizzata, l’apprendimento consolidato, le modalità cognitive, emotive e comportamentali che costituiscono il nostro stile di vita personale e professionale non riescono ad accedere a visioni altre, inedite di sé. Il gruppo, altresì, funge da moltiplicatore dei punti di vista, caleidoscopio di possibilità, interpretazioni, visioni alternative alla propria. […]

La chiosa finale del debriefing necessita di un ultimo passaggio fondamentale, dal quale dipende la qualità dell’esperienza stessa: che il formatore affidi ai partecipanti una indicazione chiara e precisa a proposito di come trasferire quanto vissuto, ovvero che indichi la self-review non come un mero esercizio ma come vero e proprio stile, modalità autoriflessiva che i partecipanti possono strutturare rispetto a ogni situazione di vita nella quale diventa così possibile sviluppare metacompetenze personali e professionali proprio attraverso la capacità di cercare analogie, link, tra quanto vissuto qui e ora di una qualsiasi situazione quotidiana e quanto di essa corrisponde al proprio personale “modello mentale”, ovvero alla modalità consolidata, routinizzata, standardizzata che si tende a porre in atto automaticamente, quando manca il vaglio della riflessività […].

Il formatore, dunque, ha l’identità precipua del «facilitatore della disposizione riflessiva», non sconfina «nel campo dei discorsi regolativi che pretendono di indicare piste di azione», poiché «il suo compito specifico è quello di rendere liquida ogni cristallizzazione simbolica, interrogando le credenze e i postulati, problematizzando le abitudini cognitive».

[…]

In tal modo, ben oltre il mero apprendimento accumulativo dei singoli saperi tecnico-specialistici, l’Outdoor, ove autobiograficamente orientato, consente di esplorare la propria superficie concava. L’Outdoor si configura, così, come esercizio dentro e fuori se stessi. Tanto out quando inside, nella misura in cui il gioco venga vissuto come modus, non come status giacchè:

«il divertimento che appartiene al gioco non viene dal dimenticare il peso del mondo, ma semmai dalla possibilità di vivere uno squilibrio, un’incertezza e un rischio in cui il mondo deve entrare, ed effettivamente entra, ogni volta che giochiamo.»

Estratto “Adulti in gioco. Progettazioni formative tra caos narrazione e movimento”

A cura di: Antonia Chiara Scardicchio, Università di Foggia

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