PMI e Futuro, nell’eterno dilemma Innovazione-Tradizione

Sentiamo un sacco e continuamente parlare di questi tempi difficili: la pandemia, l’empasse delle supply chain, la scarsità delle materie prime e l’aumento del loro costo, la guerra in Ucraina, le crisi politiche, le crisi energetiche: volendo continuare, la lista si allungherebbe talmente tanto da sentirci sopraffatti.

Il nodo però, forse, è proprio questo: ne parliamo troppo.

Con questo non intendo affatto negare l’esistenza di questo momento particolarmente difficile ed eccezionale, bensì evidenziare che stiamo concentrando le energie sul problema, anziché sul panorama che ci si propone davanti, perdendo un sacco di prospettiva (e probabilmente di opportunità) nel processo. In psicologia, questo viene definito: spostamento del fulcro.

Per spiegarmi meglio, utilizzerò un esempio, partendo dall’assunto che, al giorno d’oggi, ci sentiamo tutti più o meno flagellati dalla mancanza di tempo e dalla sensazione che il tempo scorra troppo velocemente.

Possiamo anche affermare, con un buon grado di certezza, che siamo tutti (o quasi) abituati a leggere l’ora prevalentemente in digitale (dal computer, dal telefono, dalla tv, dall’auto etc.), piuttosto che in analogico.

Soffermiamoci però, per un attimo, a guardare l’orario su di un orologio analogico. Quando guardiamo l’ora su di un orologio a lancette, la percezione che abbiamo è molto diversa. Cogliamo l’estensione dei minuti, il passaggio dei secondi (se c’è anche la lancetta dei secondi), facciamo immediatamente il rapporto 12-6, percepiamo quasi fisicamente l’ampiezza del tempo che abbiamo disponibile tra un ipotetico impegno e l’altro: la dimensione del tempo sembra persino dilatarsi.

Questo accade perché l’orologio digitale ci indica solamente che ora è nell’istante in cui la stiamo guardando; mentre l’orologio analogico ci restituisce l’intera panoramica delle ore disponibili in una giornata.

Questa sorta di metafora dell’orologio rimanda anche ad un altro parallelismo: innovazione vs tradizione, dove è abbastanza facile intuire che l’orologio a lancette rappresenti la tradizione, mentre quello digitale l’innovazione.

In questo specifico esempio, in conseguenza al fatto che ci fornisce una visione limitata, si potrebbe in qualche modo dire che l’orologio digitale (l’innovazione) faccia la parte del “cattivo”.

Come si spiega quindi che, nella stragrande maggioranza dei casi, quando si parla di innovazione si tende – a prescindere – ad attribuire un’accezione positiva, contrariamente a quando si parla di cambiamento, fenomeno a cui attribuiamo un’accezione quasi negativa; nonostante entrambi appartengano alla stessa dimensione trasformativa?

Le ragioni sono molteplici, inclusi i bias, ma l’ago della bilancia si sposta soprattutto in funzione dell’elemento “contesto”.

Il contesto è un elemento che ha sempre valore esponenziale, anche in ambito di gestione di progetto; tant’è che bisognerebbe diffidare dall’eccessiva standardizzazione dei metodi.

Ritorniamo però al tema innovazione versus tradizione, rispetto all’esempio di prima.

Possiamo senza dubbio dire che i progressi tecnologici fatti per arrivare a racchiudere molteplici funzioni, tra le quali l’orologio digitale, in un unico pratico strumento – il cellulare ad esempio – ci abbia, per molti versi, facilitato le cose; potendo anche arrivare a sostenere che ci ha migliorato alcuni aspetti della vita.

Quindi dove è che l’innovazione, in questo caso, ha inciampato?

Siamo incespicati nel momento in cui abbiamo tagliato il contatto con la tradizione, e l’orologio analogico (salvo rari casi) è diventato un mero accessorio di moda e non più uno strumento.

È un fenomeno umano, del tutto naturale: la mente lavora per semplificazioni.

Se però ne prendiamo coscienza, e ci impegniamo per modificare l’abitudine, così da usare abilmente entrambi gli orologi (analogico e digitale), a seconda di quello che il contesto domanda come più opportuno, otteniamo la condizione ottimale (dicasi, in contesti produttivi: ottimizzazione di processo).

Lo stesso principio, ovviamente fuor di metafora, vale anche applicato al business.

Erroneamente, si pensa che la tradizione nelle aziende sia sinonimo di “modo di lavorare”. Non è esattamente così. Il modo di lavorare di per sé (o una porzione di esso) può costituire, in alcuni casi, uno dei tasselli che compongono il puzzle dell’heritage aziendale. La tradizione, infatti, è data da un insieme di aspetti (operazioni, concetti, lavorazioni, materiali, racconti, etc.) che si fondono e costituiscono quell’elemento distintivo che in ogni tempo darà il carattere all’attività e che ne rappresenta l’identità, racchiudendo la storia di famiglie e di mestieri.

È da questi mestieri e saperi che sono emerse le cosiddette eccellenze italiane: piccole aziende in cui preponderava l’ingegno, divenute famose anche all’estero.

Aziende di questo calibro sono prosperate talmente tanto e si sono inserite, con dei tratti unici, ad una tale profondità nel canvas imprenditoriale del nostro Paese che hanno generato un modello di business a sé stante; che proprio per questo che merita un’attenzione particolare e diversa dai canoni classici dell’organizzazione aziendale.

Gli accadimenti degli ultimi anni hanno accelerato significativamente un processo di trasformazione che era già in atto su molti fronti, ma procedeva in sordina. Cambiamenti sul fronte tecnologico e digitale erano già apparsi all’orizzonte, ma cambiamenti sul fronte sociale e ambientale hanno colto i più di sorpresa, determinando uno shock forse maggiore.

Quando si parla di tecnologie, per quanto si possa essere impreparati, c’è una sorta di certezza inconscia di poter trovare soluzioni per colmare quel gap o aggiungere ed apprendere gli skills necessari per imparare a destreggiarla. Quando si entra nell’ambito del sociale le implicazioni diventano complesse e pervadono la totalità della realtà che viviamo.

È per questo che oggi si parla di sistemi complessi (e non complicati), che per definizione sono composti da molti elementi non riducibili e collegati, dipendenti uno dall’altro ma senza rapporti di causa-effetto, in cui vecchio e nuovo si avvicendano intrecciandosi.

I sistemi si stanno trasformando in eco-sistemi interconnessi, che saranno la nuova frontiera della globalizzazione. I confini avranno un carattere ancora più effimero, e l’universo “viaggio” si ridimensionerà per privilegiare il virtuale, la cui causa verrà superficialmente ascritta all’insostenibilità economica.

Sul ring del libero mercato le nostre aziende si sono allenate a reagire velocemente e divenire resilienti. Ora questo non basta più.

Il mondo oggi, tecnicamente, viene definito BANI, acronimo inglese che sta per: Fragile, Ansioso, Non lineare e Incomprensibile.

Uno scenario apostrofato da questi aggettivi può suonare apocalittico, ma è verosimile presumere che i nostri avi si siano sentiti allo stesso modo agli albori della Rivoluzione Industriale.

Questa versione del mondo implica che la porzione di futuro che prendiamo in considerazione per pianificare le nostre attività si debba ampliare; andando a guardare molto più in là nel tempo, a “speculare” – come tecnicamente viene definito – in un lasso minimo che va da qui a dieci anni.

Nonostante possa sembrare utopico, sarebbe un’abilità innata, annacquata da millenni di evoluzione e condizionata dall’ambiente che ci circonda: un’abilità necessaria non a “predire il futuro”, ma a delineare quali sono i passi da muovere per imboccare la strada che più riteniamo appropriata; e che allena l’abitudine di cui parlavamo all’inizio: allontanarsi dal dipinto per poter vedere tutto il quadro, e non solo il dettaglio.

Rispetto ai nostri predecessori, abbiamo il grandissimo vantaggio di avere a disposizione un’elevata quantità di dati raccolti, un’infinità di informazioni e strumenti tecnologici di più o meno facile accesso, che possono essere messi subito a fruizione.

L’equivoco, spesso, sta nel credere che questi strumenti riconsegnino una risposta finita; quando invece l’elaborato ottenuto va interpretato, calibrato e assemblato a progetto, assicurandosi di assegnare le giuste risorse di tempo, budget e persone per supportarlo.

È in questa fase che si innesta la figura dell’Innovation Manager.

Altrettanto fondamentale, in un processo di crescita al futuro, è ampliare lo spazio in cui si opera, attraverso reti e collaborazioni, perché le specializzazioni saranno sempre più tali, e le imprese saranno sempre più polarizzate.

La fascia di paniere PMI che va dai 150 dipendenti in su è destinata ad entrare nell’orbita dei grossi gruppi o delle multinazionali (i vari titoli declamanti acquisizioni e accorpamenti nelle sezioni economiche dei quotidiani nell’ultimo periodo ce lo confermano).

Le imprese più piccole, grazie alla loro maggiore flessibilità, diventeranno l’altro polo; ma avranno bisogno di dotarsi di nuovi sistemi per reggere il passo del mercato e riuscire a dare voce al proprio valore aggiunto che, molto più spesso di quanto si possa pensare, va creato o riscoperto.

La piccola impresa va assolutamente tutelata, perché è il luogo dove le abilità e le competenze possono essere coltivate ed affinate (e non disperse o standardizzate) facendo si che poi vengano tramandate; creando, in questo modo, aziende solide che sopravvivono e prosperano per svariate generazioni.

Il cambiamento fa parte del quotidiano e non è arrestabile, ma è gestibile: si può mettere su carta – per modo di dire – dandogli un ordine e una forma, declinati sulle potenzialità del caso specifico, utilizzando i tools sviluppati per lo studio dei sistemi anticipanti, dei quali parlerò nel mio prossimo articolo.

 

Articolo a cura di Elisabetta Battistella

Profilo Autore

Innovation Manager certificata RINA, con esperienza internazionale e trainer in materia di sviluppo del business.
Lavora con le aziende alla gestione del cambiamento e alla creazione di obiettivi che possano dare nuova linfa e generare opportunità per l’impresa.
I quasi 20 anni di lavoro nel mondo delle PMI Italiane ed estere, in campo manifatturiero, le hanno permesso di misurarsi in varie situazioni di passaggio generazionale e di contaminazione tra nuovo e tradizione.
www.elisabettabattistella.com

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