L’utopia dei Minimi Sistemi: Le Soluzioni a Scala Umana di Ernst Schumacher

Il termine “utopia” fu introdotto, com’è noto, dall’omonimo libro di Thomas More del 1516, ambientato in un’isola (immaginaria) abitata da una società ideale. Il vocabolo, che risale al greco antico, trae il suo significato da un gioco di parole che deriva una omofonia con l’inglese “eutopia”, dove, alla comune radice τόπος (“luogo”), sovrappone ο (“non”) con ε (“buono” o “bello”), ricostruendo il significato comunemente attribuito al termine, ovvero “luogo bello ma che non esiste”, sinonimo di “irraggiungibile” e quindi, per estensione: “impossibile”. Nondimeno, ogni progetto o visione che si dica “utopistica” traccia la strada di ogni percorso che contemperi l’ideale con il pragmatismo di un obiettivo concreto.

Un libro pubblicato nei primi anni ’70 da un economista (ma anche filosofo) tedesco, Ernst Schumacher, e recentemente ristampato da Slow Food Editore proprio per merito dell’attualità dei suoi contenuti, ci racconta come obiettivi apparentemente irrealizzabili possano invece rappresentare concrete opzioni di cambiamento. Forse come l’unica via percorribile.

Una storia di vita non semplice, la sua. Nato a Bonn nel 1911, studiò a Oxford, e nel 1937, a causa dell’ascesa al potere di Hitler, decise di abbandonare ogni legame – familiare e professionale – con la Germania nazista e di trasferirsi a Londra con la moglie e il figlio. Ma una volta giunto in Inghilterra fu oggetto di discriminazione a causa delle sue origini, quindi costretto ad un breve internamento e infine trasferito nel Northamptonshire a lavorare come bracciante agricolo. Nonostante tutto questo, Schumacher continuò i suoi studi, che gli valsero, su interessamento del grande economista John Maynard Keynes, un incarico di ricerca per conto del governo all’Istituto di Statistica di Oxford, contribuendo (non accreditato) al Rapporto Beveridge nei primi anni 1940 e al Piano Marshall del 1947.

Osteggiato dagli economisti del suo tempo perché critico rispetto ad un modello di crescita senza limiti, sviluppò il suo lavoro ponendo l’uomo e la natura al centro del sistema produttivo, e mettendo in discussione le ipotesi su cui si basava la teoria economica occidentale, interrogandosi su quale fosse il vero valore del lavoro e del denaro, e la loro relazione con il tempo impiegato dagli uomini per produrli. Il riconoscimento internazionale arrivò con il libro “Piccolo è bello”, il cui eloquente sottotitolo è “Uno studio di economia come se la gente contasse qualcosa”. Qualcosa di più di un’utopia.

La particolare sensibilità umanistica di Shumacher (inconsueta negli economisti del suo tempo, ma ancora oggi) nasce dal suo particolare percorso di studio e di vita, che si snoda in anni di lavori manuali, di ricerche e lotte interiori, nei quali i suoi interessi sociali avevano trovato un punto di convergenza con quelli spirituali, e che erano culminati, attraverso la sua conversione al cattolicesimo, nell’autocritica delle sue opinioni pregresse circa la supremazia dell’intelletto e della ragione sui valori morali. Valori morali che nella sua visione divengono fondanti nella progettazione ed organizzazione di modelli di sviluppo economici e sociali.

Shumacher era convinto che l’errore principale dei Paesi ad economia avanzata era quello di trattare le risorse naturali come se fossero una rendita e non un capitale che deve essere preservato, e che ciò avrebbe provocato nell’arco di pochi anni squilibri sia economici che politici, anticipando le crisi petrolifere che si sarebbero succedute, ma anche i conflitti in Nord Africa e Medio Oriente, ed il loro riflesso nei Paesi occidentali. Aveva introdotto con forza nel dibattito economico il problema del rapporto dell’uomo con la natura e quello dell’inquinamento, per i quali, negli anni della Ricostruzione – e sino ai primi anni ’70 – vi era scarsa sensibilità (da notare che uno dei primi partiti ecologisti è il Green Party of England and Wales, fondato nel 1973).

Nel 1950 iniziò a lavorare per il National Coal Board, l’ente pubblico che gestiva la nazionalizzazione delle industrie che estraevano il carbone nel Regno Unito, cercando di influenzarne l’attività, convinto che la sostenibilità economica (e l’indipendenza politica) si sarebbe realizzata solo intervenendo sull’utilizzo delle risorse energetiche. Fu uno dei primi sostenitori delle energie rinnovabili: mettendo in pratica le sue stesse teorie sull’autosufficienza, fece installare sul tetto della sua casa dei pannelli solari, e si dedicò personalmente all’agricoltura sostenibile nel suo orto biologico, oltre a promuovere progetti di rimboschimento e di agricoltura forestale.

Alcuni anni dopo, durante una esperienza come consulente per lo sviluppo economico per il governo dell’Unione Birmana, si rese conto che i Paesi in via di sviluppo non avevano bisogno di adottare un modello economico occidentale, bensì un’economia adatta alla cultura e al proprio stile di vita, che contemperasse il soddisfacimento dei bisogni materiali con quelli spirituali propri dell’uomo attraverso un lavoro dignitoso – un’economia che, per le sue caratteristiche, definì “buddhista”.

Tale convinzione si rafforzò nel corso di una visita ufficiale in India nel 1970, dove fu profondamente toccato dalle condizioni di miseria e privazione della popolazione, che non aveva tratto nessun beneficio visibile da tutti i piani di assistenza messi in atto sino ad allora. La sua proposta – attraverso la fondazione dell’Intermediate Technology Development Group – fu quella di promuovere nelle comunità rurali povere del Terzo Mondo, anziché il trasferimento delle tecnologie avanzate tipiche dei modelli economici dei Paesi industrializzati, gli strumenti necessari a modalità di produzione di beni e servizi calibrati sul loro modo di vivere, con lo scopo di favorire (citando Gandhi) una “produzione da parte delle masse e non produzione di massa” attraverso “tecnologie con una faccia umana”.

Schumacher aveva capito che l’aiuto occidentale alle comunità povere sovente rischiava di avere come effetto primario l’aumento della dipendenza culturale ed economica, accrescendo (e non riducendo) il divario fra ricchi e poveri, istruiti e analfabeti, giovani e vecchi, perfino all’interno delle loro stesse società di appartenenza. Diversamente, rispettando le tradizioni culturali delle comunità e fornendo loro le competenze oltre che gli strumenti, nel giro di pochi anni le loro economie avrebbero potuto stabilizzarsi su un livello soddisfacente e in continua crescita.

Le sue idee ebbero un riflesso sulle definizione di quello che era il caposaldo dell’economia di stampo liberista, ovvero il diritto alla proprietà. Per lui l’unica forma compatibile con i criteri di sostenibilità era quella unita al lavoro, nelle forme della piccola impresa personale o – nel caso di aziende di maggiori dimensioni – della cooperativa sociale partecipata dallo Stato con il 50% della quota azionaria: in questo modo l’erario poteva incassare il suo corrispettivo in forma di dividendi senza applicare tassazioni, eliminando, da un lato, ogni problema relativo all’evasione fiscale, e dall’altro favorendo il coinvolgimento dei lavoratori nell’impresa – migliorando così sia la qualità della loro vita all’interno dell’organizzazione, che i livelli di produzione cui sono collegati.

Per Shumacher l’unico modello di sviluppo sostenibile nel lungo termine non poteva prescindere dall’adozione di un modello di produzione dove il lavoro doveva essere a misura d’uomo – e che la società, se avesse utilizzato al meglio la tecnologia, avrebbe avuto come compito principale quello di educare i cittadini ad un proficuo utilizzo del tempo libero, ritenendo che gli strumenti dell’economia devono essere adattati ai bisogni e ai valori della gente e non viceversa. Ma non si era limitato ad evidenziare le criticità presenti, bensì aveva delineato possibili soluzioni. Soluzioni declinate su “scala umana”, che potevano – ieri come oggi – apparire irrealizzabili.

Al centro del suo ragionamento c’è la consapevolezza che un’economia fondata sulla ricerca individuale della massima ricchezza, non contenendo in sé il principio del limite, non poteva che essere insostenibile all’interno di un contesto nel quale le fonti di energia consumate non erano rinnovabili. Secondo la sua analisi, quindi, parimenti i modelli di sviluppo devono conformarsi a tre criteri: economicità, piccola scala, creatività.

Il primo – l’economicità – attiene ai metodi ed alle macchine produttive, il cui costo deve essere necessariamente proporzionato ai livelli dei salari del luogo dove vengono utilizzati; ciò avrebbe riflessi positivi in diversi settori della società, come quello di limitare la concentrazione di ricchezza nelle mani dei pochi detentori di capitali necessari all’acquisto delle infrastrutture produttive, ma anche i fenomeni di disoccupazione strutturale e i problemi relativi alla concentrazione urbana provocata dalle migrazioni delle persone alla ricerca dl lavoro – perché ogni territorio avrebbe beneficiato della sua “quota” di sviluppo.

Il secondo requisito è il livello di “piccola scala”, il quale permetterebbe innanzi tutto di avere, a fronte di un impatto limitato in termini sia di consumi di risorse che di inquinamento, una capacità di recupero e reintegro da parte dell’ambiente minimizzando l’impatto degli oneri di produzione. Renderebbe inoltre possibile programmare e realizzare in modo mirato quanto è necessario a soddisfare i bisogni di piccole comunità, limitando al massimo gli sprechi. Infine restituirebbe un parametro oggettivo in grado di comparare il valore prodotto dalla natura in termini di apporto alla produzione, con quello del lavoro.

La “creatività”, infine, attiene al ruolo dell’uomo nel processo, e al soddisfacimento di quelli che – nella sua concezione “buddhista” dell’economia – aveva definito bisogni “spirituali”. Il lavoro, assieme alla famiglia e le relazioni, costituisce uno dei fondamenti della cultura e della società: la sua mancata valorizzazione attraverso un’organizzazione produttiva meccanica, alienante, che svuota di senso l’attività quotidiana, non solo è in grado di svilire la natura umana, ma costituisce un significativo pregiudizio alla produttività.

Molti, tra governi e organizzazioni, hanno sviluppato negli anni la grande quantità di spunti desumibili dal lavoro di Shumacher, anche se i risultati al momento non sembrano essere tali da contrastare le disfunzioni del modello di sviluppo industriale adottato nei Paesi industrializzati, come l’inquinamento e il consumo delle risorse, ma anche l’incapacità di fornire beni e servizi a tutti gli abitanti del pianeta, e allo stesso tempo di creare crisi di sovrapproduzione e disoccupazione – e più in generale di non favorire una ripartizione della ricchezza.

Oggi è ancora più urgente prendere in considerazione quelli che sono i requisiti minimi di uno sviluppo sostenibile, non solo sul piano energetico e ambientale, ma anche e soprattutto sociale, riportando al centro valori morali quali l’uguaglianza e dignità di tutte le persone, e la dignità del lavoro dell’uomo come risorsa base dell’economia. Ed anche adeguare i modelli organizzativi del sistema produttivo valorizzando l’importanza delle comunità locali e il bisogno di processi decisionali decentrati, al fine di raggiungere obiettivi di benessere e di autosufficienza, migliorando quindi sia il benessere dei lavoratori che i livelli e la qualità dei beni e servizi prodotti. Una revisione su “scala umana” non solo della fase di progettazione e produzione, ma anche di distribuzione e consumo (quest’ultima già all’attenzione di grandi gruppi come Wal-Mart – in Italia Coop, Conad ed Esselunga – che stanno incentivando la costruzione di piccoli supermercati di prossimità al posto degli ipermercati, contribuendo così, sia pure indirettamente, alla ricostituzione dell’identità e della vita sociale di territori derubricati da politiche accentratrici a periferie-dormitorio).

“In tutto i mondo la gente domanda «che cosa posso veramente fare?». La risposta è tanto semplice quanto sconcertante: noi possiamo, ognuno di noi può, lavorare per mettere ordine nella nostra casa più interna. La guida di cui abbiamo bisogno per questo lavoro non può essere reperita nella scienza o nella tecnologia, il cui valore dipende in gran parte dai fini che servono; ma può essere ancora trovata nella saggezza dell’umanità” conclude Shumacher.

A cura di: Massimiliano De Luca, sociologo, dottore di ricerca in Analisi dei conflitti nelle relazioni interpersonali. Si occupa di ricerca sociale per conto di Regione Toscana sui temi dell’inclusione sociale, e svolge attività di formazione e docenza sui temi in oggetto.

Condividi sui Social Network:

Articoli simili