Le dinamiche delle relazioni industriali tra tradizione e innovazione

Introduzione

Nell’attuale quadro economico caratterizzato da una forte innovazione e competitività, si assiste ad una profonda crisi delle strategie e dei contenuti tradizionali del confronto tra gli attori dei processi produttivi.

Ormai in gioco non sono solo i diritti dei lavoratori legati principalmente al trattamento economico, agli orari, all’organizzazione del lavoro ma prevale, con una spiccata connotazione emergenziale, l’esigenza di salvaguardare la sopravvivenza delle imprese stesse e, nel contempo, il posto di lavoro dei dipendenti.

Di conseguenza, da più parti viene espressa la necessità di rimodulare efficacemente le dinamiche delle relazioni industriali, di individuare nuovi paradigmi operativi per concretizzare le prospettive evocate in sede teorica.

Proprio in tale scenario, si registra un rinnovato interesse per il tema della partecipazione dei lavoratori alla attività gestionali e, più in generale, per un’evoluzione delle relazioni industriali in senso partecipativo.

In Italia tale processo evolutivo si sta rivelando, purtroppo, molto più lento che in altri Paesi dell’Unione Europea e in molti casi difficilmente realizzabile. Innanzitutto, perché sono storicamente assenti le condizioni che altrove hanno favorito tale partecipazione: un sindacato unitario forte, un governo pro- labor, un forte coinvolgimento del legislatore e una condivisione di obiettivi di tutte le parti sociali interessate.

Purtroppo, nessuno di questi motivi oggi è venuto meno, anzi più evidente è la debolezza delle parti sociali, come anche la distanza dell’esecutivo; anche i primi generici richiami dell’esecutivo del premier Renzi, in tema di partecipazione che di regolazione delle relazioni industriali, non hanno trovato facile sviluppo.

Di conseguenza il nostro Paese, nell’ambito delle comparazioni europee viene classificato nella fascia più bassa in quanto i diritti di partecipazione dei lavoratori risultano deboli o ininfluenti.

Non mancano, tuttavia, alcune positive esperienze imprenditoriali nazionali, diffuse anche in maniera inconsapevole nelle PMI, in cui concretamente si è dato luogo a forme di proficua partecipazione e collaborazione che hanno da un lato evitato la cessazione delle attività anzi e dall’altro lato aumentato la competitività.

Obiettivo del presente lavoro è una analisi critica dei vincoli e delle opportunità al fine di individuare strategie efficaci di partecipazione dei lavoratori ai processi industriali.

Il processo di cambiamento delle relazioni industriali nell’attuale scenario produttivo: crisi delle forme tradizionali di rappresentanza e di concertazione degli interessi di parte

Negli ultimi anni, sono entrati in crisi i tradizionali istituti e strumenti che hanno storicamente caratterizzato il dialogo tra le parti in coerenza con il dettato costituzionale (1): rappresentare i nuovi interessi – anche tra essi molto eterogenei, tendenzialmente di matrice più molecolare e meno collettiva – e negoziare i risultati, si rivela ormai un “mestiere” troppo difficile per chiunque (2).

Si assiste, pertanto, ad un diffuso processo generalizzato che gli studiosi definiscono di “disintermediazione”, ovvero ad una svolta nel sistema associativo e alla fine del c.d. pansindacalismo; si avverte così l’esigenza di nuove modalità operative, evitando di incappare nelle tediose dinamiche sindacali.

Nell’ottica delle relazioni industriali partecipative, emerge una diffusa presa di coscienza che il cambiamento e l’innovazione maturano in periferia in stretta connessione con l’effettiva e concreta organizzazione produttiva, con una conseguente necessità di una maggiore aderenza ad una realtà dinamica, fluida, flessibile.

La stessa contrattazione collettiva, come la concertazione e lo sciopero, sono oggetto di un processo di rivisitazione.

Da più parti viene suggerito un potenziamento della contrattazione decentrata, concepito da alcuni con un rafforzamento del principio della derogabilità negoziata dei contratti di livello aziendale, con un rimando in ogni caso al livello di contrattazione generale della garanzia dei “limiti minimi” (trattamento economico, orario di lavoro, tutela sindacale). Le soluzioni innovative devono appartenere al livello decentrato “where the action is” (3); altri convengono sulla non derogabilità della norma verso il basso, ma sulla adattabilità della medesima alle condizioni aziendali e o territoriali (4).

Un esempio emblematico dell’abbandono della contrattazione collettiva nazionale e dell’adozione di una contrattazione aziendale libera è rappresentato dal caso Fiat, nel quale tuttavia i lavoratori non hanno avuto altra scelta che   stare dentro o fuori. Esso è sicuramente un caso riuscito di rinascita aziendale ma calata dall’alto, dettata da una governance, formatasi su modelli quale Valletta (5) e non Olivetti (6).

Nel ridiscusso rapporto dei livelli di contrattazione collettiva acceso risulta anche il dibattito sulla definizione di diritti irrinunciabili e tutele negoziabili. Secondo taluni non esisterebbe uno statuto fondamentale ma tutto dipenderebbe dal valore delle forze in campo; non esisterebbe nessuna decisione dogmatica, ma vi sarebbe una cultura che lo decide (7).

Una maggiore cautela a riguardo viene da alcuni giuslavoristi, che esprimono dubbi di legittimità costituzionale in quegli interventi normativi attributivi al contratto locale o nazionale di un potere illimitato di derogare alle norme imperative. Sarebbe invece necessario definire condizioni e ambiti specifici entro i quali i contratti aziendali e nazionali possono modificare singole norme, secondo il principio di “flessibilità regolata” (8).

Ma nelle more di una rinnovata e necessaria regolamentazione dell’assetto del sistema sindacale italiano, degli effetti della contrattazione, delle forme e del ruolo delle rappresentanze aziendali, sorge spontanea la domanda: quali sono le possibilità di rappresentare più efficacemente gli interessi dei lavoratori? E’ possibile recuperare alcune perdite nel sistema di contrattazione ricorrendo a nuovi mezzi di negoziazione e condivisione? Quali le condizioni per far avanzare la prospettiva partecipativa del lavoratore nell’azienda?

Per una modernizzazione delle relazioni industriali, dalla rappresentanza indiretta degli interessi di parte alle forme partecipative dirette dei lavoratori nell’impresa

La partecipazione diretta dei lavoratori nell’impresa è un tema sollecitato dalla stessa Unione Europea attraverso la previsione di forme plurime: dai diritti di informazione e consultazione, di cooperazione alla realizzazione dei risultati (attraverso anche forme di delega organizzativa) fino all’azionariato dei lavoratori e alle varie forme di bilateralità nella gestione di istituti del welfare e della formazione.

Tali aspettative molto spesso scaturiscono da un coinvolgimento fondamentale e pregnante del singolo nel processo produttivo (specie in quelli improntati alla lean organization), in ragione anche delle competenze altamente specialistiche messe in campo e collimano con le esigenze dell’impresa, che – anche attraverso il coinvolgimento del lavoratore – può vincere la scommessa dell’innovazione e della competitività, con il recupero dell’efficienza e della produttività.

Purtroppo in Italia questi diritti risultano deboli o ininfluenti; da più parti, infatti, viene auspicato un riconoscimento istituzionalizzato di una effettiva partecipazione, che consenta ai lavoratori di contare ed incidere maggiormente in scelte rilevanti – a partire da quelle organizzative – che hanno una diretta ricaduta nell’ambito lavorativo quotidiano, nell’ottica dell’evoluzione delle relazioni industriali in senso partecipativo.

Timidi tentativi in tal senso per il passato non hanno trovato attuazione, basti pensare alla c.d. Riforma Fornero (l. 92/2012, art.4, comma 62)(9) che contiene la delega, mai esercitata, per l’adozione di uno o più decreti legislativi per favorire il coinvolgimento dei lavoratori nell’impresa, sia sul versante della partecipazione alle decisioni, sia su quello della partecipazione finanziaria, azionaria e ai risultati; oppure soffrono di uno scostamento dalla realtà effettiva delle piccole e medie imprese, in quanto i precetti sono tarati su aziende di grandi dimensioni.

Lo stesso decreto legislativo n.25/2007 di recepimento della Direttiva 2002/14/CE, che stabilisce alcuni principi generali relativamente all’informazione e alla consultazione dei lavoratori, si riferisce esclusivamente ad imprese che impiegano almeno 50 lavoratori. Eppure le imprese che occupano almeno 50 addetti rappresentano a livello nazionale la percentuale più bassa.

Anche la riforma del Jobs act non lega la tematica partecipativa alle altre importanti riforme del lavoro (10).

Nella carenza legislativa (senza espliciti divieti, senza esplicite esclusioni ma anche senza incentivi), sembra che l’iniziativa sia rimandata agli imprenditori, alle disponibilità delle rappresentanze sindacali ove ancora rappresentative, alla informalità dei rapporti.

Nonostante diverse ragioni, che vanno dagli aspetti storici all’evoluzione della politica – dalla scarsa convergenza delle culture sindacali, poco convinte di riuscire ad individuare linee di intervento comuni, alle avversioni delle organizzazioni datoriali, che naturalmente ed ovviamente propendono per la tutela del libero esercizio dei poteri imprenditoriali, dalla centralità di concezioni individualistiche dell’impresa alla precarizzazione dei contratti di lavoro – concorrano nel frenare lo sviluppo di soluzioni innovative, parte della dottrina non demorde e si sforza di ricercare nel vivo delle esperienze aziendali le condizioni per far avanzare la prospettiva partecipativa. Infatti, pur in assenza dell’impulso politico normativo, nell’impresa possono maturare le esperienze più avanzate di partecipazione, per iniziativa unilaterale del management o addirittura come risultato di relazioni bilaterali.

La c.d. “aziendalizzazione” delle relazioni industriali ha una ricaduta sulle principali forme di partecipazione dei lavoratori alle varie decisioni e aspetti della vita aziendale, sulla partecipazione economica e finanziaria, sulle varie forme di welfare aziendale (11) fino alla decisione strategica, in cui si dà vita anche a forme di concertazione trilaterale, in quanto partecipano imprese del territorio interessate da criticità produttive simili, sia le istituzioni locali. Tali esperienze partecipative maturano in aziende medio – piccole, come in grandi imprese.

Le aziende a partecipazione pubblica, sia statale che locale, hanno anticipato in Italia diverse esperienze partecipative dei lavoratori nell’impresa.

In particolare le aziende IRI hanno siglato agli inizi degli anni ottanta un Protocollo (12), considerato ancora oggi il tentativo più avanzato di partecipazione istituzionalizzato per via contrattuale.

Più recenti gli accordi di Eni (maggio 2011) e di Finmeccanica (aprile 2014)(13) che definiscono una serie di strumenti partecipativi, con la previsione di rappresentanti dei lavoratori fino in seno ai Comitati competenti per individuare gli indirizzi fondamentali della vita aziendale.

Nonostante l’obiettiva incidenza di tali forme partecipative, certa dottrina coglie l’inevitabile limite rappresentato dal riferimento comunque alla contrattazione (14), che risente ovviamente dell’avversione imprenditoriale da un lato e dello scarso potere negoziale dei sindacati dall’altro, specie nelle PMI.

Venendo alle forme più moderne di partecipazione organica, emerge che esse sono accomunate dal fatto che si sviluppano all’interno di imprese avanzate e sono purtroppo sollecitate in larga misura dall’iniziativa manageriale (15), escludendo la rilevanza dell’azione sindacale o comunque la concertazione tra le parti.

Stesse considerazioni valgono per gli incentivi economici e per i vari tipi di welfare aziendale, che in teoria possono essere sia concessi unilateralmente, sia essere un nuovo oggetto della contrattazione aziendale.

Non diversa è la situazione per l’azionariato, spesso usato per catturare il consenso dei lavoratori, con erogazioni monetarie, spesso modeste e per lo più individuali, tanto che gli stessi sindacati hanno sempre rivendicato una regolamentazione contrattuale nonché la previsione di strumenti che consentono un esercizio collettivo delle azioni. Infatti, quasi mai, i piani azionari hanno comportato una presenza dei lavoratori aziendali nelle sedi decisionali.

In effetti, anche quando non è individuale, la partecipazione è a bassa formalizzazione, strutture collettive più o meno formalizzate, come team, gruppi ad hoc all’interno della fabbrica concepita come fabbrica partecipativa.

Dal variegato scenario – per caratteri e per obiettivi – delle forme partecipative e delle eterogenee ragioni ad esse sottese, si deve purtroppo dedurre che è impraticabile una diffusione di fatto degli istituti partecipativi in quanto sono determinanti gli elementi contingenti: identificabili talvolta nell’esigenza di sostenere l’innovazione e cambiare il modello produttivo, assicurando performance nuove, altre volte rinvenibili più semplicemente nella realizzazione di obiettivi più limitati, come maggiore rapidità e flessibilità nei processi produttivi, o ancora nelle crisi aziendali, che danno origine ad una collaborazione “costretta”, con una serie di convergenze necessitate dall’obiettivo di superare la crisi e salvare l’occupazione.

A fronte dell’analisi effettuata, parte della dottrina conclude che è indispensabile una qualche forma di sostegno legale e istituzionale, che spinga verso una partecipazione diffusa e incisiva anche perché tali forme di partecipazione diretta sono trainate in prevalenza dalle esigenze di iniziativa organizzativa e manageriale, con connotazioni se non antisindacali, tali da escludere la rilevanza dell’azione sindacale.

Infatti, l’idea originaria legata al protocollo IRI viene soppiantata da strategie delle risorse umane e di iniziative manageriali ispirate alle RHM (Human Resource Management) e alle Hpwp (High Performance Work Practices), indirizzate al miglioramento della produttività e della qualità, a scapito dell’azione sindacale e delle strutture intermedie. Piccoli gruppi di lavoratori vengono coinvolti – ad opera del management – nello svolgimento di varie attività operative, con livelli diversi di autonomia e possibili ampliamenti in ambito organizzativo attraverso anche il conferimento di deleghe che comportano, accanto ad una maggiore autonomia del lavoro, anche un aumento di responsabilità (16).

Ma oltre ad una normativa coerente, occorrerebbe anche la diffusione di una cultura diversa di impresa – un nuovo modo di concepire i rapporti all’interno dell’azienda, che assume una sua nuova identità, diventando “azienda partecipativa” o “azienda comunitaria” (17) – che consentirebbe di superare anche le resistenze che trovano origine nella presenza di una forte impronta famigliare nelle aziende di piccole e medie dimensioni, animate da forte spirito padronale, in contrapposizione alle nuove realtà aziendali caratterizzate dalle reti – imprese (public company).

I modelli partecipativi nelle relazioni industriali e la responsabilità sociale di impresa

La sostenuta ed auspicata vocazione partecipativa delle relazioni industriali collima e si incrocia con la responsabilità sociale di impresa ogni qualvolta quest’ultima si sviluppa e sostiene modelli partecipativi; infatti le strategie delle relazioni industriali possono non essere necessariamente e meccanicisticamente condizionate dall’opzione dell’impresa per la RSI.

Conseguentemente delicato è anche il confine tra l’idea dei lavoratori come stakeholder interni o come invece strumenti per realizzare all’esterno la responsabilità sociale, con una conseguente dilatazione e aggravamento, in questo ultimo caso, dei doveri di diligenza e collaborazione del dipendente (18).

La responsabilità sociale, che trova un suo riferimento europeo nel libro Verde della Commissione del 18 luglio 2001, dal titolo “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale dell’impresa”, induce l’imprenditore ad andare al di là del mero rispetto degli obblighi giuridici, investendo di “più” nel capitale umano nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate(19), con conseguenti responsabilità filantropiche, etiche, legali ed economiche.

Proprio quella che il libro Verde identifica come dimensione “interna” (20) produce gli effetti principalmente sui lavoratori dipendenti, in tre ambiti di intervento: gestione delle risorse umane, salute e sicurezza sul lavoro, adattamento alle trasformazioni.

Per quanto concerne le risorse umane significative sono le misure di istruzione e formazione o l’agevolazione della partecipazione dei lavoratori ai piani di azionariato e di benefit (21).

Circa l’adattamento alle trasformazioni emerge l’opportunità di garantire la partecipazione e il coinvolgimento delle persone interessate attraverso una procedura aperta di informazione e di consultazione (22).

Anche in tema   di responsabilità sociale si avverte, tuttavia, l’esigenza di arrivare ad una integrazione, per via legislativa, nei sistemi di governo dell’impresa o quantomeno alla definizione di “orientamenti” o “linee guida”, elaborati nell’ambito di un dialogo allargato a tutti i soggetti del dialogo sociale ed alla società civile, auspicando e premiando, comunque,  l’iniziativa spontanea delle imprese oltre le prescrizioni sancite obbligatoriamente dalla legge, allo scopo di sviluppare attività integrative per conciliare sviluppo sociale e maggiore competitività (23) e trasformare i diritti già tutelati dalle norme giuridiche in un veicolo di diffusione di pratiche socialmente responsabili.

Pur con i suoi limiti e le sue evidenti ambiguità, sembra che la stessa RSI si presti ad offrire nuove modalità di dialogo e di confronto tra le parti nei sistemi economici avanzati, che possono affiancare e integrare il canale tradizionale delle relazioni negoziali e contrattuali.

Essa sarebbe un’ulteriore via per affermare come centrale l’esigenza di valorizzazione del capitale umano, inteso come risorsa chiave per la produttività e la competitività dell’impresa e del sistema nel suo complesso, contribuendo all’elaborazione di una cultura gestionale nuova e inclusiva (24).

Il caso dell’impresa “umanistica” di Brunello Cucinelli

A livello nazionale, un esempio virtuoso di impresa sociale è l’azienda dell’imprenditore umbro Brunello Cucinelli.

La filosofia di questo illuminato imprenditore sembra riprendere quella di Adriano Olivetti quando affermava  … al di là dei profitti, al di là del ritmo apparente, esiste qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica…; il suo impegno in tal senso lo ha portato anche al riconoscimento di un premio come imprenditore olivettiano per aver riprodotto in piccola scala quanto imprese, come Olivetti, hanno fatto in passato in scala più grande.

Egli, infatti, ha cercato di introdurre nell’impresa i grandi valori dell’essere umano, il rispetto, la dignità economica e morale del lavoro specialmente artigiano. Ha fondato un’azienda solida e sana, di circa 1300 dipendenti, che lavora per la dignità dell’uomo, per ridare dignità al lavoro manuale, con una particolare attenzione al trattamento economico e alle altre legittime aspettative dei lavoratori, affermando quella visione che nega all’impresa il solo ruolo di funzione di produzione e massimizzatore di profitto.

Dal 2012 l’azienda è quotata in borsa; di essa Cucinelli è Presidente ed amministratore delegato. Da imprenditore illuminato ha puntato all’interno dell’azienda al c.d. patto tra generazioni, che aiuta ad immettere giovani in azienda, miscelando le esperienze; ad ogni postazione di lavoro siedono, infatti, insieme persone più giovani e più anziane all’insegna di una cultura di condivisione.

L’età media in azienda è di 36 anni per i dipendenti e di 39 anni per il management; attraverso il patto a sessanta anni si esce dal ruolo ricoperto per fungere da supporto senior alle giovani leve. Per i manager della prima linea, che raggiungono i 60 anni di età, è prevista una riduzione dello stipendio del 30%. In ogni caso i manager hanno una retribuzione superiore al massimo di otto volte quella dei dipendenti (25).

Vi è un’assemblea ogni due mesi con i dipendenti, in cui si affrontano i temi di come vivere e lavorare insieme, perché Cucinelli è convinto che è importantissimo che l’impresa deve donare una parte dei suoi profitti al benessere dell’umanità. Nell’azienda non vi sono sindacati ma si registra un’apertura e una flessibilità assoluta della governance, pur non prevedendosi rappresentanze dei lavoratori in organi decisori o consultivi dell’azienda.

La sede, nonché l’unico luogo di produzione dei capi in cashmere, sorge a Solomeo, borgo medievale dell’Umbria, in un contesto dove tutto è ancora a dimensione d’uomo.

Qui il fondatore e capo dell’azienda ha creato il laboratorio, che tanto desiderava: una polis in cui artisti, ingegneri e artigiani collaborano a cose destinate a durare nel tempo. Ogni giorno a pranzo raduna i suoi dipendenti e tutti mangiano assieme attorno allo stesso tavolo. La pausa pranzo è rigorosamente fra le 13 e le 14.30: per cucitrici, muratori e giardinieri, per i manager così come per gli allievi della Scuola dei mestieri e di recitazione.

I dipendenti percepiscono una retribuzione superiore di circa il 20% della media. La giornata, iniziata alle ore 8,00, si conclude alle 17,30.

Nel suo sforzo di dare dignità anche al lavoro manuale del sarto, punta molto sulla formazione del personale e finanzia le scuole professionali. Alla fine i corsisti conseguono una certificazione con cui possono andare anche altrove e spendere il titolo. Persegue anche un’idea di formazione permanente attraverso un Progetto triennale di formazione non soltanto professionale ma anche morale e civile (26).

Egli insiste che occorre investire in queste professioni, facendo comprendere ai giovani che con orgoglio si può fare il mestiere del sarto. Nel concepire nuovi modelli organizzativi e una nuova cultura è, altresì,  convinto che anche il governo debba fare la sua parte prevedendo una riduzione degli  oneri previdenziali e fiscali, così da poter remunerare meglio i dipendenti.

Nel contempo attraverso la Fondazione, che ha fondato, sta realizzando un progetto di “decementificazione” del fondovalle umbro; al posto di capannoni grigi realizzati negli anni 70 – 90, adibiti attualmente a deposito, saranno ripristinati giardini, orti e frutteti, che riforniranno il ristorante dell’azienda. Sorgerà anche un oratorio laico, dotato di stadio per far giocare i bambini (27).

Fuori dagli schemi formali e dalle prassi più diffuse, questa azienda testimonia un’esperienza produttiva e sociale plurale: tutti cooperano ai risultati dell’impresa e al miglioramento delle condizioni di lavoro e tutti beneficiano dei risultati. Un modello di partecipazione creativa e produttiva che pone al centro la persona e le sue capacità.

Conclusioni

Le diffuse criticità in ambito nazionale e le isolate esperienze positive locali fanno intendere che il problema dell’evoluzione delle relazioni industriali non può trovare radicale soluzione nell’iniziativa dei singoli secondo un processo bottom-up, che pur è auspicabile ma in via complementare ad un intervento istituzionale.

Un’urgenza particolare è data dalla definizione delle regole che disciplinano le relazioni industriali; questo stato di debolezza interna oggi concorre a determinare l’incertezza dei rapporti, favorisce controversie e conflitti.

I nuovi strumenti dovranno innanzitutto consentire ai lavoratori di contare maggiormente nelle decisioni aziendali, oltre che di entrare nella partecipazione economica e finanziaria e di beneficiare di un welfare aziendale.

Una particolare attenzione dovrà essere riservata anche all’assetto del sistema sindacale, dalla struttura agli effetti della contrattazione, alle forme e al ruolo delle rappresentanze sindacali aziendali.

Tale previsione   dovrebbe essere accompagnata da una promozione di appositi incentivi per le aziende partecipative e dovrà tenere conto del sistema produttivo nazionale, costituito prevalentemente da piccole e medie imprese.

Non possono, poi, mancare anche previsioni di dispositivi premianti per quelle imprese che realizzano standard qualitativi più alti, “certificati” sulla base di indicatori comuni.

Nel contempo, anche i sindacati, forti di una rinnovata legittimazione, dovranno recuperare il loro ruolo rappresentativo specie a livello locale, nel mentre gli imprenditori, specie piccoli e medi, abbandonando l’idea di una gestione padronale, dovranno praticare una nuova cultura, convincersi che l’impresa non può esistere senza il coinvolgimento dei lavoratori, senza una effettiva motivazione degli stessi. Questi ultimi dovranno sentirsi parte di una squadra e non un “pezzo” di una catena di montaggio, in un modello organizzativo multistakeholder, in cui vengono interiorizzati i valori e le aspettative di tutti gli attori.

Così certi spazi partecipativi dei lavoratori non saranno più il frutto di concessioni unilaterali e di iniziativa del management ma il risultato di un dialogo e di una mediazione tra interessi confliggenti, magari anche oltre i limiti “minimi” garantiti dal legislatore.

La partecipazione, in tal senso definita, consentirebbe di affermare la tanto auspicata democrazia industriale, di migliorare la competitività aziendale, di rispettare la dignità del singolo lavoratore e le sue legittime aspettative, in un assoluto equilibrio tra capitalismo ed etica del lavoro, tra esigenze dei sistemi organizzativi innovativi e nuova cultura aziendale.

 

Note

  1. L’art. 46 Cost. riconosce il “diritto dei lavoratori a collaborare … alla gestione delle aziende”, sancendo in via generale i principi dell’armonia e della collaborazione ed escludendo ogni forma di  antagonismo tra le parti. Aggiungasi l’art. 39, che garantisce ai soggetti collettivi un potere di autoregolamentazione dei propri interessi;
  2. Giuseppe Berta, Appendice in Verso Nuove relazioni industriali, a cura di Mimmo Carrieri e Tiziano Treu, il Mulino, p.438;
  3. ibidem, p.441;
  4. Marzia Gandiglio, Appendice in Verso Nuove relazioni industriali, cit., p. 477;
  5. Il modello Valletta predilige i modelli tradizionali dell’economia aziendale;
  6. Adriano Olivetti si è sforzato di ricercare forme e modi per rendere la fabbrica un bene di tutta la comunità e trasformare il mondo produttivo e l’economia in strumenti di solidarietà per realizzare un’autentica giustizia sociale. Una copiosa serie di pubblicazioni che racchiudono e commentano la sua filosofia è disponibile sul sito Edizioni di Comunità della Fondazione Olivetti.  Le Edizioni di Comunità, sin dagli esordi, furono caratterizzate da un intenso programma editoriale, in vari campi della cultura, del pensiero politico, delle scienze sociali, della filosofia, dell’organizzazione del lavoro, facendo conoscere autori d’avanguardia o di grande prestigio all’estero, ma poco conosciuti nel nostro paese;
  7. Marzia Gandiglio, cit., p. 462;
  8. I rapporti di lavoro e le relazioni industriali, Mimmo Carrieri e Tiziano Treu (a cura di), in Proposte di politiche pubbliche per il governo del paese, Passigli Editori, p.178;
  9. Cfr. da ultimi, i saggi di E. Ales, Quale futuro per il modello partecipativo in Italia e E.C. Zoli, La partecipazione dei lavoratori in Italia tra vecchi e nuovi modelli, entrambi in L. Zoppoli, A. Zoppoli e M. Delfino (a cura di), una nuova Costituzione per il sistema di relazioni sindacali?;
  10. Lorenzo Zoppoli e Raffaele Santagata, Il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle imprese e l’azionariato su base collettiva, in La partecipazione incisiva, Mimmo Carrieri, Paolo Nerozzi e Tiziano Treu (a cura di), il Mulino, p.301;
    Sono apprezzabili gli sforzi di una certa parte della dottrina che ha sperimentato un laboratorio normativo, pubblicando una proposta di legge sindacale “organica” nel n. 1/2014 della Rivista “Diritti, lavori, mercati”. In essa si prospetta una regolazione degli istituti di coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle imprese come tassello fondamentale di un nuovo diritto sindacale nella fase “costituente” avviata con il Testo unico di gennaio 2014 sulla rappresentanza sindacale e sulla contrattazione collettiva. La proposta presenta diversi elementi di novità: essa opta per un sistema partecipativo, che si articola non solo sui diritti di informazione e consultazione e sulla partecipazione c.d. organica, ma anche sui diritti di “codeterminazione” mutuati dal sistema tedesco;
  11. Tiziano Treu, Conclusioni, in La partecipazione incisiva cit., p.341;
  12. ibidem, p.344; Il Protocollo Iri siglato il 18 dicembre 1984 va a definire le nuove linee guida per le relazioni industriali; IRI, Intersind, CGIL, CISL, UIL, firmano un’intesa volta a determinare i nuovi principi cardine, basati su condivisione e partecipazione, da far valere per la costituzione di nuovi rapporti all’interno delle aziende a prevalente controllo statale. Nelle premesse viene identificata la figura del lavoratore quale soggetto centrale per il raggiungimento degli obiettivi delle imprese. Esperienze simili, anche se non certamente collegabili, sono state alla fine degli anni Settanta e all’inizio anni Ottanta quelle delle “conferenze di produzione” proposte dal sindacato milanese in alcune grandi fabbriche e più recentemente proposte dal sindacato dei lavoratori della conoscenza negli enti di ricerca;
  13. ibidem, p.344. Gli accordi Eni e Finmeccanica definiscono alcuni strumenti partecipativi a vari livelli e su vari temi e prevedono anche la presenza di rappresentanti dei lavoratori in Commissioni miste di vario livello fino ai Comitati competenti per individuare gli indirizzi fondamentali della vita aziendale;
  14. ibidem, p.344;
  15. Tiziano Treu, Conclusioni, in La partecipazione incisiva cit., p.347;
  16. P. Pini, Partecipazione diretta, partecipazione indiretta e innovazioni tecnico – organizzative, in Quaderni di rassegna sindacale, 2, pp. 195 – 225. F. Butera, Automation, in N.J. Smelser, J. Wright e P.B. Baltes (a cura di), International Encyclopedia of Social and Behaviral Sciences, Oxford, Elsevier, 2014;
  17. Marzia Gandiglio, Partecipazione agli utili, azionariato dei dipendenti e salario di produttività: dialoghi con le aziende sulla partecipazione finanziaria, in La partecipazione incisiva cit., p. 118. Nella recente risoluzione del 2014 del Parlamento europeo sulla partecipazione finanziaria dei dipendenti agli utili dell’impresa si afferma a chiare lettere che : “i piani di Pfl possono svolgere un ruolo significativo nel coinvolgere ulteriormente i lavoratori nei processi di informazione, consultazione e decisionali durante le ristrutturazioni e che la partecipazione dei dipendenti alla gestione attraverso i diritti di voto, il diritto a presenziare o altre forme di governance può migliorare la gestione e il flusso di informazioni nonché aiutare i dipendenti a comprendere meglio la situazione quando la loro impresa attraversa delle difficoltà e ad ottenere delle ricompense quando l’impresa è in una fase positiva”;
  18. Armando Tursi, Responsabilità sociale dell’impresa, “etica d’impresa” e diritto del lavoro, in Lavoro e diritto, I, 2006, p.74 e s.;
  19. Libro Verde paragrafo 2.21. Al Libro Verde ha fatto, poi, seguito la Comunicazione della Commissione Com (2002) 347 def., del 2 luglio 2002. Ciò è in linea anche con la dottrina sociale della Chiesa. Nella “Centesimus Annus” di Giovanni Paolo II si trova che lo scopo dell’impresa è l’esistenza stessa dell’impresa come comunità di uomini che perseguono il soddisfacimento di loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell’intera società. Mediante il suo lavoro l’uomo si impegna non solo per sé stesso ma anche per gli altri e con gli altri;
  20. paragrafo 2.1;
  21. punto 28;
  22. punti 35 e 36;
  23. punti 22 e 21;
  24. Riccardo Del Punta, Responsabilità sociale dell’impresa e Diritto del lavoro in Lavoro e Diritto, fasc. 1, inverno 2006, il Mulino, p. 55;
  25. Corriere economia, 30 giugno 2014, p.10;
  26. La Stampa, 14 luglio 2013, p.11;
  27. La Stampa 27 novembre 2014, p.20. Per una più ampia rassegna degli articoli, apparsi su riviste anche straniere, sui temi della politica dell’azienda Cucinelli e sulla filosofia del suo fondatore si rimanda al link ufficiale della omonima Fondazione.

A cura di: Anna De PascaleCapo Ufficio Ricerca Università degli Studi di Salerno

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