Il segreto è farsi capire (cosa c’entra il calcio?)

Qualche tempo fa ho accompagnato mio figlio – il terzo, di 8 anni – alla sua partita di calcio.

A quell’età già parlare di “calcio” mi sembra decisamente un’esagerazione, diciamo che cominciano a tirare un po’ di calci a un pallone.
Tutto si svolgeva nella consueta normalità: bambini in campo, genitori fuori che fingono di essere indifferenti alla capacità (incapacità) del proprio figlio, nonni, zii e tutto l’albero genealogico. Allenatori, panchine, addirittura massaggiatori, la squadra di mio figlio con una bella divisa rossoblù, l’altra squadra vestita di un giallo quasi fosforescente. Ovviamente non mancavano le esclamazioni di gioia o delusione a seconda dell’esito dell’azione, come se contasse vincere e non divertirsi e imparare a stare in una squadra, rispettare un minimo di regole e correre a perdifiato.

A un certo punto mi è entrata nell’orecchio la voce di uno dei due allenatori di mio figlio (già, due, perché oggi uno non basta più). Urlava, anzi sembrava più un lamento cantilenante:

“Sali!” (ma dove sono le scale?!)
“Accorcia!” (cosa devo accorciare? Forse i pantaloncini? Il campo? Boh!)
“Marca l’uomo” (uomo?! Ma se il più grande ha sempre il dito in bocca!)
“Aggressivo!” (a casa e a scuola mi dicono sempre di essere calmo, accogliente…)
“Più grinta!” (cosa sarà mai, ‘sta grinta?)
“Stai basso!” (per forza, avrà pensato mio figlio, sarò alto sì e no 1 metro e 40!)
“Allarga sulle fasce!” (allargo cosa? E cosa sono le fasce?)

Insomma, l’allenatore stava sciorinando tutto il gergo calcistico che conosceva, frustrato perché i giovani calciatori non mettevano in pratica le sue direttive; nel frattempo io vedevo i bambini spaesati, ognuno correva per conto proprio ammucchiandosi agli altri o a tratti isolandosi totalmente dal gioco. Dopo qualche minuto, nessuno se lo filava più, credo sentissero solo un ronzio in lontananza e ogni tanto un nome urlato a caso: Antonio! Luca! Paolo!
Ma non si voltavano neanche, sempre più persi in un gioco complicato e faticoso.

A un tratto l’altro allenatore – più vecchio ed esperto – lascia la panchina a testa bassa, esce dal campo e mi passa vicino piazzandosi proprio accanto a me. Silenzio per un paio di minuti, poi inizia quasi sottovoce: Bravo! Dai! Non importa! Rincorrilo!” A un certo punto un calcio d’angolo per gli avversari, ovviamente il solito urlio dell’allenatore giovane, quello “bravo”: “Marcalo! Non lo far saltare! Attento alla respinta!” E altre amenità varie. L’altro, quello vecchio e con pochi fronzoli, dopo un attimo di silenzio, a mezza voce dice: “Mettetevi accanto a quelli con la maglia gialla!”

Tutti i giocatori si sono guardati intorno e si sono piazzati al “giallino” più vicino. Ovviamente sono riusciti a prendere la palla e a non farsi fare gol.

Mi sono voltato e ho fatto le mie congratulazioni al Mister: bravo! Aveva usato un linguaggio comprensibile ai bambini e in un colpo solo aveva ottenuto un doppio risultato: lo avevano capito al volo e si erano motivati, felici perché erano stati capaci di fare quello che gli veniva detto.

La riflessione successiva che ho fatto è questa: siamo capaci di comunicare efficacemente o ci affanniamo a sembrare bravi, eruditi, migliori degli altri senza considerare la cosa più importante e cioè che gli altri ci capiscano?

Riusciamo a capire qual è il linguaggio giusto da usare a seconda di chi abbiamo davanti, oppure “spariamo” sempre col cannone – anche alle mosche?

Credo che sia necessario allenare questa capacità che spesso non consideriamo importante ma è, in realtà, fondamentale; e sono convinto che l’unico modo per farlo sia mettersinei panni dell’altro”, sentirsi come si sente lui ed essere interessati al fatto che capisca veramente quello che stiamo dicendo.

Voi cosa ne pensate? Ma, soprattutto, mi avete capito? 😉

 

Articolo a cura di Cristiano Pratelli

Profilo Autore

Consulente di impresa
Sales trainer
HR specialist

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