I cambiamenti indotti dalle tecnologie nel tessuto industriale (trasformazione digitale) riguardano, oltre ai rapporti con i clienti e ai modelli di business, anche i processi interni e il lavoro, sia per quanto attiene alla tipologia delle attività svolte, che per le sue modalità di svolgimento.
Nel 2012 McKinsey, suddividendo le prestazioni lavorative in tre tipologie, forniva, per ognuna di esse e per alcuni paesi, la percentuale del numero di addetti sul totale della forza lavoro e la percentuale del loro costo sul totale del costo del lavoro del paese (i dati riportati si riferiscono agli USA):
Come si vede l’automazione dei processi industriali e manifatturieri da un lato e l’informatizzazione delle attività (ripetitive e codificabili) di elaborazione di dati e informazioni dall’altro, stanno facendo sì che la maggior parte della forza lavoro (come numero di addetti, ma ancor più come costo del lavoro) sia impiegata in attività non standardizzabili, di interazione o che comunque richiedono competenze e capacità di giudizio (“knowledge work”).
Le attività di tipo “intangibile” su dati e informazioni oppure di relazione (svolte da interaction workers e transaction workers) occupavano negli USA già nel 2012 il 65% della forza lavoro e assorbivano il 77% del costo del lavoro (in UK il 69% della forza lavoro per il 79% del costo del lavoro). Non a caso su queste tipologie di attività è maggiore l’impatto della trasformazione digitale.
Le tecnologie dell’Informazione e della comunicazione consentono oggi di accedere, utilizzare e condividere, in maniera sicura, dati e informazioni e di comunicare con chiunque, utilizzando semplicemente un apparato digitale e una connessione di rete opportunamente configurati.
Per la maggioranza delle attività lavorative (quelle di tipo “intangibile” viste sopra) non è più quindi necessario né, soprattutto, conveniente per le aziende concentrare i fattori di produzione (strumenti e persone) in un luogo fisico (posto di lavoro/ufficio) in cui richiedere la presenza dei propri dipendenti, ma è sufficiente consentire loro di accedere, tramite la rete e a prescindere dal luogo in cui si trovano, ad applicazioni, dati e informazioni aziendali, e consentire loro di comunicare singolarmente o partecipare, sempre tramite la rete, a incontri e riunioni con colleghi, clienti, partner e fornitori.
L’insieme delle attrezzature e applicazioni individuali (PC, Tablet, Smartphone…), e delle applicazioni e infrastrutture aziendali necessarie a permettere quanto sopra, definisce un posto di lavoro che non è più fisico (ufficio) ma virtuale (“digital workplace”) in cui convergono e da cui sono accessibili tutti i fattori di produzione necessari allo svolgimento delle attività.
La virtualizzazione del posto di lavoro può portare significativi benefici ai clienti (es. riduzione dei tempi di risposta e risoluzione dei problemi), all’azienda (es. riduzione dei costi di locazione e gestione degli immobili adibiti ad ufficio e dei relativi servizi) e ai dipendenti (es. riduzione dei tempi di trasferimento, work-life balance,…), ma non può essere limitata al semplice intervento tecnologico, essa richiede prima di tutto un profondo ripensamento del modo con cui si relazionano azienda e dipendente.
Consentire alle persone di lavorare in spazi non preassegnati o predefiniti, indifferentemente dentro o fuori l’azienda, richiede infatti che:
Ovviamente la tecnologia, i.e. il posto di lavoro digitale, dovrà essere funzionale a quanto sopra: fornire i dati gestionali e di utilizzo necessari al management e alla gestione delle risorse umane, integrarsi e poter essere utilizzata agevolmente nelle diverse aree funzionali presenti in azienda,…
L’insieme di questi quattro fattori (pratiche HR, cultura manageriale, spazi fisici, tecnologia) è strumentale a quello che nel mondo anglosassone (Chartered Institute of Personnel and Development) viene definito “smart working”, inteso come “Un approccio all’organizzazione del lavoro che si propone una maggiore efficienza ed efficacia nel raggiungimento dei risultati del lavoro attraverso una combinazione di flessibilità, autonomia e collaborazione, in parallelo con l’ottimizzazione di strumenti e ambienti di lavoro dei dipendenti ”.
Recentemente anche il legislatore italiano ha definito la normativa per l’introduzione dello smart working sotto il nome di “lavoro agile” (Capo II della LEGGE 22 maggio 2017, n. 81, Art. 18): “…quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.
Vale tuttavia la pena di notare come, sempre nei paesi anglosassoni, l’”agile working” sia una forma ben più radicale di lavoro flessibile in cui la provenienza della forza lavoro è sia interna che esterna all’azienda e reclutata al bisogno tramite siti web dedicati (“Human Cloud”), con ruoli e compiti assegnati in funzione della situazione contingente, sia per il personale interno che per il personale esterno all’azienda.
A cura di: Alvaro Busetti
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