Un nuovo modello di leadership per le esperienze della “cultura del pari”

Il manager del nuovo millennio non deve sapere comandare o controllare; ha necessità, piuttosto, di mettere in discussione la propria idea verticale di potere favorendo quella cultura condivisa, distribuita e aperta, che sostanzia la leadership orizzontale.

Sta prendendo piede, pertanto, il modello che alcuni definiscono di open leadership[1], che presuppone il senso di comunità e la capacità di garantire supporto reciproco nel rispetto del principio della “cultura del pari” tipica di quelle organizzazioni ripensate conciliando il ruolo direttivo con l’autonomia del singolo avendo come fulcro il riconoscimento della responsabilità/autorità delle persone al lavoro.

Le più significative esperienze di “cultura del pari” sono sicuramente quelle dello smart-working e della olocrazia.

La prima, nota anche come “lavoro agile[2], coinvolge più direttamente i ruoli dirigenziali in quanto nuova modalità di eseguire e organizzare le prestazioni lavorative. Si tratta, infatti, non solo di smaterializzare il luogo di lavoro, per cui la prestazione non si fonda più sulla presenza fisica in un determinato luogo e in un momento prestabilito. Ne consegue che promuovere lo smart-working significa cambiare le modalità di organizzazione del lavoro che potranno essere svolte sempre di più in autonomia spazio-temporale, data la loro connessione ad un impegno avente dimensione prevalentemente intellettuale.

È chiaro come tutto questo incida profondamente sia sui rapporti tra management e persone al lavoro, dal momento che apre uno spazio molto ampio alla dimensione della fiducia verso le persone “nella consapevolezza che esse porteranno a termine i compiti assegnati sebbene in assenza di un controllo a vista”[3], sia sulla valutazione delle performance e della produttività, che non fa più leva sul monitoraggio in tempo reale della prestazione, garantito dalla supervisione fisica diretta.

Occorre, allora, che il manager riveda la propria funzione e le proprie competenze avendo come obiettivo di creare un ambiente nel quale i processi non debbano più procedere gerarchicamente da lui stesso, ma si generino nell’autonomia e nella responsabilità di una rete coordinata di professionalità connesse all’ambiente esterno dell’organizzazione e a tutta la supply chain[4].

È questa la chiave di volta della open leadership, metodologia che interpella autorevolezza e autenticità, che vengono generate dalla relazione tra la fiducia ottenuta e quella data, anziché l’autorità del dirigente.

L’ulteriore sfida ai modelli tradizionali della leadership è costituita dalla olocrazia, i principi della quale iniziano a diffondersi e prendere piede soprattutto nelle imprese informatiche e ad alto contenuto tecnologico e professionale a partire dal 2007, fino ad essere applicati negli anni più recenti anche a imprese manifatturiere (ad esempio, General Electric).

Il paradigma su cui fonda l’organizzazione olocratica necessita di una autorità e decision-making[5] non acquisiti dall’alto di una gerarchia verticale, ma distribuiti tra team che si auto-organizzano in quanto la centralità dell’operare si sposta dalla struttura fissa ai compiti necessari in un dato momento, con l’obiettivo di riallineare il più possibile esigenze flessibili e mutevoli con la risposta ad esse da parte delle persone al lavoro. Ciò non fa venire meno il principio di autorità, che è ripensato e utilizzato unicamente nelle decisioni ultime e nel coordinamento dei vari team (oltre che per risolvere problemi che emergono) garantendo una gestione sussidiaria dei processi organizzativi.

La olocrazia, che Brian Robertson definisce “una nuova tecnologia sociale per gestire e orientare un’organizzazione, definita da una serie di regole di base nettamente distinte da quelle di un’organizzazione gestita convenzionalmente[6], ha come fondamento una “Costituzione” approvata dall’Amministratore delegato (il CEO – Chief Executive Officer), che sancisce le regole di governance della organizzazione e che legittima il potere. Nella organizzazione olocratica il fulcro della struttura organizzativa è costituito dai processi lavorativi in sé e non dalle modalità con cui le singole persone li svolgono.

Sicché l’olocrazia si fonda su una differenziazione tra individui e ruoli che essi ricoprono: la struttura organizzativa è definita per ruoli e le persone entrano in gioco in seguito, sulla base dei talenti posseduti alla luce dei quali vengono attribuiti i ruoli, in modo che ognuno sia in grado di operare al massimo del proprio potenziale. Diversamente dalle organizzazioni tradizionali i ruoli della organizzazione olocratica si presentano come “organismi viventi”, dinamici, che cambiano nel tempo restando in continuo allineamento con le esigenze del contesto evolutivo dell’organismo.

Entrambe le esperienze dinanzi considerate sono caratterizzate dalla “cultura del pari” e chi in esse venga chiamato al ruolo di direzione delle persone al lavoro deve possedere carismi tali da renderlo capace di innescare logiche condivise – e accettate – di empowerment.

La dirigenza di cui parlo, dunque, deve saper valorizzare e volere organizzare la professionalità delle persone al lavoro, a partire dal dare peso alla comunicazione con le persone affidate al management riducendo parallelamente gli elementi connessi al controllo delle attività del singolo e gli elementi legati alla leadership, così da permettere alle persone al lavoro di maturare la consapevolezza delle proprie capacità, utili ad avviare e alimentare processi creativi e organizzativi propri del loro ruolo.

Note

[1] Per un approccio ragionato e rigoroso alla strategia vedasi Li C., Open leadership. Dirigere con successo nell’era dei social network, Rizzoli Etas, Milano, 2011.

[2] Si veda De Giosa V., Di Sabato T., Smart Working: verso una leadership agile, Leadership e Management, 8 Marzo 2019.

[3] Bochicchio F., Di Sabato T., Apprendimento e cambiamento nelle organizzazioni, Libellula editore, Tricase, 2018.

[4] Cfr Mentzer, J.T. et al., Defining Supply Chain Management, Journal of Business Logistics, Vol. 22, No. 2, 2001, pp.1–25 che definisce la supply chain come il sistematico e strategico coordinamento delle tradizionali funzioni aziendali e delle tattiche prima all’interno di ogni azienda e poi lungo i vari membri della catena di distribuzione con l’obiettivo di migliorare le prestazioni di lungo periodo dei singoli membri e dell’intera catena. La supply chain costituisce condizione irrinunciabile per garantire una “catena di fornitura” conoscere, e soprattutto utilizzare, sistemi che consentono di misurare le prestazioni operative delle attività aziendali; per giungere a tanto occorre mappare i processi, evidenziare i flussi, misurare le prestazioni per ridurre i costi connessi alle attività.

[5] Adain J., Decision making & problem solving, Franco Angeli, Milano, 2018.

[6] Robertson B. J., Holacracy. Come superare la gerarchia, Guerini Next, Milano, 2018.

 

Articolo a cura di Tommaso Di Sabato

Profilo Autore

Docente presso la Scuola di Alta Formazione della UNINT- Roma e Collaboratore del Consorzio Interuniversitario sulla Formazione – Torino.
Già Direttore vicario della Ripartizione Risorse Umane di UNISALENTO e Professore a contratto dei Corsi di Laurea in Scienza dell'Amministrazione - Facoltà di Giurisprudenza di UniTELMA – Roma.

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