Smart Working: riprogettare il lavoro

Lo chiamano Smart Working (SW), ma nella grande maggioranza dei casi è stato (e spesso ancora è) solo “lavoro da remoto forzato” imposto dai protocolli per la prevenzione dal Covid-19: una situazione che di smart non ha nulla e che neppure nelle sue premesse (di fatto e di diritto) può far pensare al “lavoro agile”.

Eppure durante la “Fase 1” e poi anche in questa lunga, interminabile “Fase 2” della pandemia – e nonostante il perdurare delle condizioni coatte del lavoro da remoto, nelle quali si sono trovati e si trovano milioni di lavoratori – il tema dello SW è esploso non solo inteso come misura di sopravvivenza (delle persone e del lavoro), ma anche come terreno di coltura di una serie di utopie che si sono prodotte a causa di una vera e propria infodemia (termine azzeccatissimo, ancorché coniato dall’OMS per descrivere la ridda di notizie circolanti sul coronavirus), ossia un’alluvionale pubblicistica che (fatte salve rare eccezioni) ha amplificato la confusione concettuale sul “lavoro agile” alimentandola con alcune “visioni” – alcune anche di vago sapore new age – che rischiano di non giovare alla futura diffusione di questa modalità organizzativa.

Tanto per complicare il quadro, poi, da un lato, ci si è messa la politica che, con le norme emergenziali, si è riferita allo SW pur avendone essa stessa mutato la funzione (ora associata a finalità di “ordine pubblico” sanitario ed economico) e dall’altro, sorprendentemente, si è aggiunta anche una parte di coloro che avevano contribuito a definire tecnicamente l’istituto e che, invece di difenderne la “purezza”, hanno cavalcato l’onda mediatica associando al mismatch concettuale anche una lettura opportunistica del “successo” di una misura che, nelle condizioni date, tutto poteva e può dirsi che sia, tranne che reale SW.

Due evidenze sono però inconfutabili e devono essere sùbito riconosciute: la prima è che il “lavoro da remoto forzato”, pur nella sua iniziale improvvisazione, grazie alle tecnologie disponibili e agli sforzi di milioni di lavoratori, ha salvato tante imprese e (almeno per ora) moltissimi posti di lavoro, limitando almeno i danni sin qui prodottisi; la seconda è che il “lavoro da casa” ci ha consentito di approdare, molto più rapidamente, alla consapevolezza dell’agevole digitalizzazione di attività che diversamente, forse per qualche anno ancora, avremmo continuato a gestire come s’era sempre fatto (ed abbiamo scoperto che, in effetti, non sempre era la cosa più smart, ossia la più intelligente, da fare).

Smart Working a-tecnico

Se si escludono i casi di quelle pochissime aziende nelle quali si è proceduto ad una corretta strutturazione dello SW (generalmente attuata ante pandemia), le restanti esperienze precedenti l’arrivo del Covid-19 si prestavano ad essere incluse tra due estremi: da un lato, quelle aventi natura complementare rispetto ai programmi di welfare aziendale (il “lavoro agile” come strumento per un benessere smart) e dall’altro quelle riconducibili a nuove forme di articolazione del lavoro in attuazione di policy espressamente dedicate alla conciliazione vita-lavoro o introdotte per tenere conto di particolari condizioni individuali o familiari o, infine, per assicurare ad un’élite di lavoratori un benefit collegato alla funzione svolta in azienda. Questi due estremi avevano (ed hanno) come denominatore comune l’assenza di una sottostante complessiva riprogettazione dell’organizzazione del lavoro e dunque dell’impresa intesa come sistema socio-tecnico ed utilizzano lo SW senza avere mutato granché delle procedure operative che, sostanzialmente, sono rimaste quelle di prima.

A queste due tipologie di “lavoro agile” (che possiamo definire a-tecnico) si è poi aggiunta la recente esperienza di massa rappresentata dallo SW emergenziale imposto dalle finalità di prevenzione anti-contagio: non già, quindi, “lavoro agile” (neppure in senso a-tecnico), ma unicamente una misura prevenzionale coatta di distanziamento dei lavoratori tradottasi in una sorta di riedizione del telelavoro la cui inevitabile diffusione ha nondimeno indotto alcuni a disegnare scenari sulla cui plausibilità è lecito nutrire più di un dubbio (basti pensare alle teorie del lavoro da remoto “per sempre”, al South Working, all’ossimorico Holiday Working per giungere fino alle teorie che mirano a imporre un “diritto al lavoro agile” che finirebbe per burocratizzarne il suo sviluppo negandone la sua stessa natura e funzione).

Fortunatamente, pur nelle difficoltà del momento attuale, almeno in alcune imprese (e con maggiore realismo) si è avviato quel processo di capitalizzazione dell’esperienza vissuta nei mesi più critici cercando di dare forma a modalità più efficienti di “lavoro da casa” che potessero assicurare, se non già i mirabolanti incrementi promessi dagli ottimisti, almeno il mantenimento dei livelli di produttività precedenti. Si tratta di casi che potrebbero rappresentare, in prospettiva, un primo passo perché queste imprese possano ridefinire il lavoro e le sue modalità esecutive consentendo, più avanti, di portare a compimento una “rivoluzione” organizzativa che solo il ritorno ad una condizione meno drammatica potrà consentire di realizzare.

Da queste premesse si comprende come possa essere utile procedere ad una rilettura del fenomeno che valga, se non altro, ad arricchirla di quei contenuti che – tranne alcune limitate eccezioni – sono sin qui sostanzialmente (e talvolta deliberatamente) mancati nel dibattito. Tra queste mancanze vi è quella che riguarda proprio il grande sforzo di riprogettazione dell’organizzazione d’impresa, associato alla trasformazione tecnologica ed antropologica del lavoro che si sta delineando sul più ampio sfondo dell’evoluzione riassunta con il termine “Industry 4.0”, ossia nel quadro di quella “grande trasformazione” polanyana del lavoro che da quella discende e sulla quale la cd. “Quarta Rivoluzione” industriale si basa. È solo avendo a mente questo presupposto che può procedersi ad una ricostruzione del perimetro nel quale il “lavoro agile” diventa definibile nella sua reale essenza.

Smart Working come “lavoro 4.0”

L’incessante sviluppo dell’ICT e la possibilità di organizzare la produzione virtualmente, tramite internet e le tecnologie “abilitanti”, in ambienti cyber-fisici che consentono di superare le rigidità del fordismo parallelamente alla creazione di conoscenza con una potenza senza precedenti (Big Data), danno conto delle trasformazioni in atto che riguardano sia la manifattura, sia il terziario evidenziando una forte spinta espansiva nella ridefinizione dei metodi organizzativi.

In questo quadro, assume rilievo la crescente flessibilità spazio-temporale nell’organizzazione del lavoro resa possibile anche dalla “portabilità” dei device e talvolta degli stessi mezzi di produzione connessi alla rete internet. Automazione del lavoro e digitalizzazione di entità informazionali all’interno dei processi produttivi non rendono più necessaria la tradizionale organizzazione statica del lavoro e ciò finisce per impattare anche sul vincolo della subordinazione che la dottrina, infatti, definisce “attenuata” perché, in prospettiva, sembra orientarsi verso nuove fisionomie che richiamano, almeno in parte, il lavoro autonomo. È questa una prospettiva che anche lo SW sembra contenere, almeno in nuce, che sfida il diritto del lavoro sul piano della nascita di contratti di lavoro che anche in àmbito sindacale si cominciano a definire “ibridi”.

Queste dinamiche, tuttavia, devono essere viste come le tracce di un percorso favorevole alla riconsiderazione dei luoghi di lavoro considerabili come realtà nelle quali la centralità della persona del lavoratore (e del lavoratore come persona) anziché svanire – come temono i tecnofobici – semmai si rinforza grazie ad un maggiore coinvolgimento che chiama a nuove responsabilità e ad interpretare ruoli da esprimere con rinnovate competenze e piene capacità che l’evoluzione tecnologica impone di sviluppare costantemente e che sollecita le imprese al redesign della loro complessiva configurazione organizzativa e culturale.

Ne derivano, così, un apporto individuale più ampio ed attività basate sulla condivisione di progetti che misurano il lavoro per i risultati che genera, più che per la fisica presenza in ufficio. Il lavoro, del resto, sta chiedendo maggiore corresponsabilità e non è più basato (solo) sullo scambio economicistico tradizionale (tempo ed energie in cambio di un salario), ma si trasforma in un rapporto umanamente più fecondo basato sul raggiungimento di obiettivi condivisi dal quale, sul piano retributivo e proprio in conseguenza di una subordinazione ridefinita nei suoi contenuti, potranno derivare corrispondenti incrementi, pur a fronte dell’assunzione di qualche inevitabile rischio connesso alla loro variabilità (lo SW, del resto, è già inserito dalle norme vigenti tra i criteri per la determinazione degli obiettivi di produttività associati alla corresponsione dei premi di risultato).

La flessibilità della produzione porta con sé anche la flessibilità della relazione che il lavoratore ha con il ruolo che è chiamato a svolgere e la polivalenza operativa, in parte autogestita dallo stesso lavoratore (o dai team nei quali è inserito), rendono conto di come le organizzazioni, nel loro complesso, diventino sempre meno gerarchiche e basate sul riconoscimento di crescenti gradi di discrezionalità (quando non di reale autonomia) capaci di irrobustire la relazione di lavoro e l’intera organizzazione.

È tuttavia un’illusione tipicamente tecnocratica (simile alle illusioni degli utopisti dello SW) quella che induce a ritenere che con la sola introduzione di nuova tecnologia (la cd. “naked technology”) si giunga al compimento di una reale digital transformation. Qui opera quella deterministica, ma errata, premessa che, come sottolinea Federico Butera, spinge a ritenere che “organizzazione e lavoro siano già incorporati nelle soluzioni proposte dai fornitori di tecnologia” [Butera, 2017]. Analogamente, nel passaggio dal coordinamento spazio-temporale del lavoro a quello info-telematico si è ritenuto che possano edificarsi, meccanicamente, nuove relazioni e nuove organizzazioni mentre è vero l’esatto contrario perché, citando ancora Butera, “la connessione informatica non genera di per sé la comunità […] mentre un’idea di comunità dovrebbe guidare l’applicazione delle tecnologie dell’informazione” [Butera, 1998].

L’innovazione presuppone un’attività di rigorosa progettazione che riguardando la complessiva organizzazione del lavoro, si origina, prima di tutto, nel mindset culturale delle persone che nell’impresa lavorano le quali non si possono limitare ad utilizzare soluzioni tecnologicamente avanzate e dunque solo ad “accogliere” l’innovazione. Quest’ultima, infatti, non è una semplice “novità”, ma è una condizione che per compiersi appieno presuppone un robusto impegno indirizzato verso un reale cambiamento sistemico. La trasformazione digitale della produzione (di beni e/o di servizi) e dell’organizzazione che la rende possibile presuppone, per poter essere realmente innovazione, anche la capacità di creare una discontinuità che, considerando le resistenze che s’incontrano spesso nelle aziende, si potrebbe definire quasi “eretica” rispetto alle impostazioni organizzative novecentesche.

Ne consegue che, così come lo SW chiama in causa qualcosa di più complesso della semplice “remotizzazione” del lavoro, così il cambiamento organizzativo sotteso al reale “lavoro agile” chiama in causa la complessità insita in un previo cambio di paradigma manageriale che sia coerente con le trasformazioni in atto e che si traduce nella riprogettazione della complessiva architettura organizzativa.

Il “nuovo umanesimo” del lavoro che sosterrà le relazioni nel mondo phygital caratteristico dell’onlife nel quale ci muoviamo [Floridi, 2017] e che sarà il tratto dei nuovi contesti organizzativi, è un portato anche del reale SW che non presuppone, né deve condurre all’alienante atomizzazione di lavoratori “senza luogo” e senza “presenza”, ma semmai implica un ridisegno decisamente human-centered del lavoro basato su valori capaci di guidare e sostenere le persone e la nuova organizzazione delle imprese.

Lavorare non è solo avere un’occupazione ed una retribuzione dignitosa: questo non basta più e già da tempo; lavorare, implica, invece, la ricerca di un “senso”, la possibilità d’immaginare il lavoro come un “luogo” nel quale ritrovare anzitutto libertà (intesa come libertà non “dal”, ma “nel” lavoro), ossia come concreta opportunità, per ciascuno, di realizzare una propria dimensione espressiva e dunque anche come partecipazione, capacità di voice e agibilità reale nell’esercizio di crescenti dosi di autonomia e di controllo sui processi operativi e per la realizzazione di “progetti” condivisi. Da qui diventa poi possibile immaginare il lavoro sempre meno come subordinazione passiva e sempre più come cooperazione “abilitante” (al pari delle attuali tecnologie) e il suo svolgimento come interpretazione, piena e gratificante, di ruoli in sostituzione di mansioni standardizzate e rigidamente proceduralizzate. E questa è senz’altro una delle molte “promesse” anche del “lavoro agile”.

Smart Working: un progetto partecipato

Lo SW non è una profezia che si autoavvera: non dà luogo, meccanicamente, a nuovi modelli organizzativi e a nuove regole del lavoro e della vita, ma si colloca a valle di un processo che, a monte, presuppone una previa, impegnativa e complessiva attività di progettazione che sappia ricombinare tra loro organizzazione, lavoro e tecnologia per ottenere incrementi della produttività e della qualità del lavoro e della vita.

Non si tratta, quindi, di concedere uno o due giorni alla settimana da trascorrere in SW, ma di realizzare una riprogettazione ingegneristica della comunità di lavoro. Se l’impresa resta una “burocrazia”, se il lavoro si continua a svolgere in “uffici-fabbrica di fantozziana memoria” [Butera, 2020] e non evolve in forme organizzative flessibili nessuna reale innovazione sarà possibile ed anzi lo SW potrebbe diventare unicamente funzionale a strategie d’intensificazione dei ritmi del lavoro lungo le linee di un neotaylorismo digitale che in questi casi è dietro l’angolo (il “capo” rischia di diventare l’algoritmo e il controllo s’intensifica nonostante il lavoratore non sia più visivamente alla portata dei manager).

L’adozione di policy di reale SW farà, allora, parte di un processo più ampio che condurrà le imprese, dalla loro tradizionale impostazione gerarchico-verticale (rigida catena di comando, standardizzazione delle mansioni, sistemi di controllo “in presenza”) alla costruzione di relazioni più orizzontali che, pur sempre dotate di un imprescindibile centro di comando, risulteranno fondate su rapporti maggiormente fiduciari che ridefiniranno il rapporto gerarchico incentrandolo sulla delega, sull’empowerment, sulla cooperazione per la realizzazione di progetti e sulla misurazione dei risultati generati da ciascuno interpretando ruoli nei quali l’apporto soggettivo sarà, ad un tempo, la fonte e il frutto di nuove responsabilità.

Nella trasformazione del lavoro e dei cicli produttivi che l’evoluzione tecnologica testimonia ormai quotidianamente, il passaggio dall’esecuzione della prestazione nel pedissequo rispetto di procedure che non prevedono alcuna possibilità di apporti individuali in grado di generare valore aggiunto (la “personalizzazione” esecutiva della mansione rappresenterebbe in tal caso un disvalore), all’esecuzione basata sull’apporto delle expertise individuali, àgito nella logica del progetto, del problem solving, del miglioramento continuo e del lavoro per obiettivi condivisi, dà conto del mutato protagonismo della persona nelle organizzazioni più avanzate e del crescente significato operativo e strategico del coinvolgimento dei lavoratori. Si riattiva, così, il tema della “partecipazione organizzativa”, sostanzialmente dimenticato dagli apostoli dello SW ed invece sempre più necessario proprio in conseguenza delle trasformazioni del lavoro, del suo crescente contenuto tecnologico e della customizzazione sempre più spinta della produzione di beni e di servizi e non da ultimo, anche per le possibilità di rivalutazione del contributo individuale che lo SW, tecnicamente ben realizzato, presuppone.

Oltretutto gli smart worker sono generalmente espressione della componente aziendale più dotata professionalmente e più “agile” sul piano esecutivo il che li rende già strettamente collegati ai risultati dell’impresa. Questi profili, dunque, sono senz’altro desiderosi di partecipare, sono già in qualche misura coinvolti nel rischio d’impresa, tuttavia non sempre sono protagonisti effettivi dei processi decisionali.

È un gap da colmare sol che si consideri che per i datori di lavoro più avveduti la partecipazione rappresenta ormai un fattore di competitività perchè essa non pregiudica l’efficiente conduzione aziendale, ma semmai la favorisce, oltre a presentarsi come coessenziale alla ridefinizione dei contesti organizzativi alla luce dell’implementazione di tecnologie che sempre di più richiedono un incremento dell’apporto cognitivo dei lavoratori (è il passaggio, nel lavoro 4.0, dalla manodopera alla “mentedopera” che già di per sé presuppone maggiore partecipazione).

Queste forme di coinvolgimento dei lavoratori all’organizzazione del lavoro – tra le quali lo SW si inserisce non foss’altro perché lo stesso accordo individuale che lo rende possibile include una fase di co-progettazione del lavoro realizzata congiuntamente tra il dipendente e l’azienda – sono ormai considerate strategiche anche nell’àmbito delle relazioni industriali che, negli ultimi anni ed a partire dal livello interconfederale, si sono dedicate al sostegno e alla diffusione di questo strumento.

Le best practice disponibili (si tratta di aziende che hanno avviato il loro turnaround culturale ed organizzativo, in taluni casi, anche prima della pubblicazione della stessa Legge 81/2017) ci indicano dei possibili percorsi, ma il benchmark qui conta relativamente perché ogni azienda è un “mondo” e soluzioni valide per tutte non ve ne sono. La riprogettazione organizzativa non può seguire una one best way come ai tempi di Taylor perché la diversità (dimensionale, settoriale, culturale, territoriale) delle imprese (ed anche delle persone che vi lavorano che sono, ormai, tra loro diversissime) è davvero caleidoscopica ed anche questa evidenza dà conto di come i processi partecipativi saranno sempre più necessari per tenere conto delle tante specificità esistenti.

Tutto ciò impone una rivisitazione radicale della cultura e dell’organizzazione aziendale che non si improvvisa e non si ottiene in tempi rapidi, né potrà dirsi avviata solo perché in azienda “si fa” SW applicando una legge che ne ha introdotta la disciplina (né tantomeno, poi, se la remotizzazione del lavoro è di tipo prevenzionale, come oggi accade).

Questa rivisitazione, però, non dovrà mai dimenticare che la gran parte delle imprese sono state sin qui organizzate (e lo saranno ancora) sulla base della condivisione umana degli spazi e di buona parte dei tempi del lavoro. Le aziende sono le persone che le abitano, nelle quali professionalmente (ed umanamente) esse vivono e crescono. Le aziende sono fatte delle relazioni che queste persone tessono ogni giorno e dalle quali deriva l’accumulazione ed il crescente valore di quel preziosissimo “capitale” immateriale – sociale ed umano – la cui preservazione, come la cui crescita, rischia di essere messa a repentaglio da errate impostazioni dello SW. Pertanto la riscrittura del disegno organizzativo e la diffusione delle modalità di lavoro “agili” non potranno comunque mai prescindere dal fatto che è proprio la prossimità tra le persone che rende possibile quelle organizzazioni e il lavoro che in esse si svolge.

Lo sosteneva anche uno dei padri dello sviluppo tecnologico contemporaneo e certamente uno più grandi innovatori del XX secolo: Steve Jobs. Ricordando che cose come Gmail e Street View erano nate dalle chiacchiere informali che alcuni ingegneri facevano durante la pausa pranzo nel ristorante aziendale, il cofondatore di Apple sosteneva che “nella nostra società digitale c’è la tentazione di pensare che le idee possano essere sviluppate tramite email e iChat. È folle. La creatività nasce dagli incontri spontanei, dalle discussioni casuali” [Isaacson, 2011]. Ne consegue che “nel lavoro agile è ancora più decisiva la relazione, il lavoro di gruppo, la capacità di coordinamento con gli altri” [Bentivogli, 2020].

Trasformare il lavoro “in presenza” (anche) in “lavoro agile” è, quindi, un percorso che presuppone il ridisegno dell’intera struttura perché lo SW, anche solo di una parte dei lavoratori, impatta sul lavoro di tutti gli altri e sul coordinamento generale dell’intera azienda. Occorre quindi che la trasformazione socio-tecnica dell’impresa sia condivisa ad ogni livello non solo in vista di un “ritorno” in termini economici e produttivi, ma anche organizzativo-relazionali ed individuali (sul piano della dignità, della crescita professionale e della “fioritura” dell’umano).

Si tratta di realizzare una trasformazione che, volendo fare un paragone chimico, equivale ad un passaggio di stato: da quello “solido” (staticità, con rigida impostazione verticale ed orientamento al solo profitto per gli shareholders) a quello “liquido” (valorizzazione delle capability, dinamiche di partecipazione diretta dei lavoratori, apertura agli interessi di tutti gli stakeholder e spinta alla creazione di shared value).

Cammineremo su percorsi inediti

Quest’ultima notazione ci dice molto dell’ampiezza della trasformazione necessaria che, per essere anche reale innovazione (quindi duratura e sostenibile) non può essere solo industriale, ma dev’essere anche sociale, dovendosi estendere lungo l’intera filiera delle relazioni dell’impresa (all’interno e all’esterno di essa) atteso che non sono più separabili la fisica presenza delle aziende e l’impatto delle loro attività dalle ricadute che queste hanno rispetto all’ambiente più ampiamente inteso (la società nel suo insieme).

Se troveranno conferma gli scenari sulla diffusione di massa del “lavoro agile” post-pandemia (alcune stime ipotizzano cinque milioni di lavoratori coinvolti, nonostante il “successo” dello SW prima del Covid-19 si fosse limitato ad un nicchia di 570mila persone – fonte: ”Osservatorio Smart Working” del Politecnico di Milano), da quanto detto discenderà la necessità di una progettazione che non riguarderà solo le imprese, ma che dovrà coinvolgere i territori, le università, i sindacati e le organizzazioni della società civile, in quadro multidimensionale e multidisciplinare che ci dà conto della reale complessità delle dinamiche in atto e che, ad un tempo, rappresenta anche il presupposto per la bontà e l’efficacia dei mutamenti futuri.

Sono questi, insieme alla valutazione degli impatti generali sul piano della vita più ampiamente intesa, i temi da decifrare e sui quali concentrare l’attenzione, sapendo che, per ora, le premesse più robuste per il compimento della “rivoluzione” (ossia per una reale e diffusa “grande trasformazione” del lavoro e della società) mancano tanto nella maggior parte delle aziende (per evidenti gap culturali e tecnologici ancora tutti da colmare) quanto, soprattutto, nella visione dei policy maker.

Non c’è, però, alcun dubbio che, una volta superata la pandemia, la “Fase 3” schiuderà le porte ad una diversa concezione del lavoro che non potrà non tenere conto delle “scoperte” che abbiamo fatto sin qui.

Prepariamoci, allora, a muoverci lungo percorsi inediti, ma per poter sostenere seriamente che da domani “nulla sarà più come prima” è sin d’ora necessario non farsi trasportare da effimere fantasie o, peggio ancora, da inutili utopie ed è invece urgente dare spazio ad un soprassalto di pensiero, di visione e di profonda analisi uscendo da quella serpeggiante “convinzione deterministica che la crisi in corso per forza di cose cambierà, e in meglio, l’organizzazione del lavoro” e della vita scaricando le responsabilità dell’oggi “su una mano invisibile che si rivela sempre essere una grande illusione” [Seghezzi, 2020]. Dobbiamo evitare di consegnare (unicamente) alla tecnologia la dotazione di senso e di significato da attribuire alle trasformazioni destinate a modificare profondamente non soltanto la geografia economica ed imprenditoriale, ma anche gli stessi modelli antropologici del lavoro (compresi quelli della scuola e dell’università), i paradigmi culturali, le idee di città, di socialità, di esperienza vitale.

La sfida, come si comprende, è epocale e proprio per questo occorre mettere in cortocircuito la lettura sbagliata che s’è data del fenomeno e ridisegnare, con obiettività, la sua corretta fisionomia e soprattutto sostenerne lo sviluppo futuro che è certamente auspicabile, ma solo nella misura in cui sia anche umanisticamente sostenibile.

Umanamente lo è e lo abbiamo saputo dimostrare a noi stessi, anche drammaticamente, in questi lunghi maledetti mesi che purtroppo non dimenticheremo mai.

 

BIBLIOGRAFIA

  • Bentivogli M., “Indipendenti. Guida allo smart working”, Rubbettino Editore, 2020
  • Butera F., “Lavoro e organizzazione nella quarta rivoluzione industriale: la nuova progettazione socio-tecnica”, L’Industria, 3, 2017
  • Butera F., “Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, le nuove forme di organizzazione e le persone”. Atti del Convegno Internazionale “Sviluppo tecnologico, disoccupazione e trasformazione della struttura economica e sociale”, Accademia dei Lincei, 1998
  • Butera F., “Le condizioni organizzative e professionali dello smart working dopo l’emergenza: progettare il lavoro ubiquo fatto di ruoli aperti e di professioni a banda larga”, Studi Organizzativi, 1/2020
  • Floridi L., “La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo”, Raffaello Cortina Editore, 2017
  • Isaacson W., “Steve Jobs”, Simon&Schuster, 2011 tradotto in Italia da Mondadori, 2011
  • Seghezzi F., “Lavoro agile, cosa resta dopo il lockdown”, Bollettino ADAPT, 29/2020

 

Articolo a cura di Giovanni Scansani

Profilo Autore

Docente a contratto all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano dove coordina il Laboratorio “Progettazione dei Piani di Welfare Aziendale”. Giornalista pubblicista con oltre un centinaio di articoli all’attivo, collabora con testate specializzate nell’HR Management. È stato CEO di Società appartenenti a gruppi internazionali attive nei servizi per il benessere del personale di aziende ed istituzioni pubbliche ed è co-fondatore di Valore Welfare Srl, Società specializzata nella progettazione di piani di Welfare Aziendale. Tra le sue pubblicazioni più recenti segnaliamo: “Welfare Aziendale: e adesso? Un nuovo patto tra impresa e lavoro dopo la pandemia” con Luca Pesenti (2020, Vita e Pensiero), il capitolo “Il Welfare Aziendale come mercato” pubblicato nel volume collettaneo “Il Welfare Aziendale oggi: il dibattito de iure condendo”, curato dai Proff. Giuseppe Ludovico e Michele Squeglia dell’Università degli Studi di Milano (2019, Giuffrè Francis Lefebvre) e il capitolo “Il mercato dei Provider in Italia” scritto con Luca Pesenti e pubblicato nel volume collettaneo “Welfare Aziendale”, curato dal Prof. Tiziano Treu (2020, Wolters Kluwer).

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