Siamo in una società in continuo cambiamento. Il leader deve essere pronto a far fronte a problemi che richiedono soluzioni sempre nuove e a sapersi rapportare con collaboratori che mostrano caratteristiche molto diverse tra loro, anche a causa del gap generazionale mai così forte come in questi anni, con bisogni e aspettative non sempre coerenti con gli obiettivi e le attese dell’organizzazione.
Tutto ciò in un ambito aziendale che prevede innovazioni, evoluzioni tecnico-professionali crescenti, sotto la spinta di esigenze e aspettative provenienti dagli stakeholders che richiedono una risposta rapidissima e finalizzata in modo efficace.
Quando qualcosa non va in un’azienda, si è portati a ricondurre le difficoltà nella gestione del personale a un fattore che sta alla base di tutto ma che troppo spesso si finisce per equivocare, anche perché sfuggente, difficile da definire e inquadrare: la motivazione dei collaboratori.
Sappiamo bene che si tratta di uno stato d’animo – un insieme di desideri, aspirazioni, bisogni, orientamenti – che spinge la persona ad agire, a porre in essere un comportamento caratterizzato da impegno, determinazione e perseveranza. Ma come, in realtà, funzioni, alla fine, è poco chiaro.
Una prima risposta, ce la offre la ben nota piramide di Abraham Maslow (1954)[i] che stabilisce la differenza tra bisogni primari (di natura fisiologica, sicurezza, ecc.) e secondari (appartenenza, stima, autorealizzazione). Altro contributo importante su questo tema è senz’altro quello di Frederick Irving Herzberg[ii] con la sua teoria dei due fattori o dell’igiene motivazionale, che risale al 1959.
Alcuni fattori del lavoro possono creare soddisfazione nell’attività che una persona svolge, altri si limitano a prevenire l’insoddisfazione. Questi ultimi sono quelli che Herzberg definisce fattori igienici, che non portano a una motivazione del lavoratore ma, se mancano, creano insoddisfazione.
Si tratta di fattori estrinseci al lavoro come la retribuzione (che deve essere appropriata e ragionevole), le politiche aziendali e amministrative che comprendono le ferie, le pause, l’orario di lavoro, ecc., i benefit, come i piani di assistenza sanitaria, le agevolazioni per i familiari (asili), l’attenzione alle condizioni fisiche di lavoro, come l’igiene dell’ambiente in cui si opera, l’utilizzo di attrezzature moderne ed adeguate, il clima disteso e senza conflitti nelle relazioni interpersonali tra colleghi e superiori, la garanzia della sicurezza sul lavoro.
Esistono poi fattori intriseci al lavoro che sono veri e propri fattori motivanti e che soddisfano i bisogni psicologici più profondi, come il significato del lavoro, il riconoscimento dell’attività svolta, il coinvolgimento nel progetto finale, la possibilità di crescita e miglioramento professionale, la responsabilità e l’autonomia. (vedi tab. 1).
Tab 1.
I cinque punti-chiave della motivazione intrinseca
Diverse ricerche e sondaggi svolti negli USA, tra cui quella del professor Chip Heath[iii] della Stanford University, hanno avuto il pregio di portare alla luce la complessità del tema e anche i pregiudizi che continuano a sussistere.
E’ stato chiesto, ad esempio, a un campione di collaboratori di valutare l’importanza di cinque aspetti del loro lavoro: il senso di realizzazione, la retribuzione, la sicurezza del posto di lavoro, la disponibilità di tempo libero, la possibilità di crescita professionale. In media, gli intervistati hanno considerato il senso di realizzazione come l’aspetto più importante, mentre, ad esempio la loro remunerazione si è posizionata solo al terzo posto.
Poi, però, agli stessi collaboratori è stato chiesto quali tra questi cinque aspetti del lavoro, secondo loro, motivasse di più le altre persone. Oltre tre quarti non ha avuto dubbi: il livello della remunerazione.
Nessun mistero. A tutti fa piacere avere più denaro a disposizione ma questo elemento da solo, lo sappiamo, non può contribuire alla motivazione. Ciononostante, i manager, in genere, sono portati a sovrastimare l’importanza degli incentivi finanziari perché fanno fatica a riconoscere nei loro collaboratori l’esistenza di motivi più nobili. Questo equivoco – che ci auguriamo non sia atto di malafede – spesso nasconde anche l’incapacità di saper distinguere tra motivazione e soddisfazione. (vedi tab. 2)
Tab. 2
Quando mancano le motivazioni intrinseche. Il Caso Lehman Brothers
Julian Birkinshaw, professore alla London Business School, analizzando la crisi della Lehman Brothers, ha sottolineato – oltre a evidenti problemi di governance e all’errata gestione dei rischi – due aspetti importanti che hanno contribuito al tracollo dell’impresa e che riguardano la scarsa motivazione intrinseca dei collaboratori:
(Fonte: http://www.oxfordleadership.com/reinventing-management/)
La motivazione influenza il rendimento di una persona sul posto di lavoro. E’ fuor di dubbio. Quando un collaboratore è motivato, investe molto di più nel proprio lavoro e si sforza di fare meglio. Essere semplicemente soddisfatto, invece, non fa lavorare un collaboratore più duramente. Molti leader pensano che la soddisfazione dei collaboratori possa aumentare il loro livello di motivazione. Ma non è così.
Per essere ancora più precisi, richiamandoci a Herzberg: i fattori di igiene, se vengono a mancare, portano a insoddisfazione nel lavoro e inducono i collaboratori a cercare migliori opportunità altrove. Tuttavia, non è vero che il raggiungimento di migliori fattori di igiene aumenterà la motivazione o le prestazioni del lavoro.
Entrambi i fattori rappresentano componenti importanti dell’impegno dei collaboratori. I fattori di igiene sono più facili da identificare e migliorare. I fattori di motivazione specifici differiscono per ciascun collaboratore e sono maggiormente influenzati dal manager che ha il compito di gestirli. Il manager, in altri termini, deve capire che cosa è più efficace per ciascuno dei suoi collaboratori e creare le circostanze adatte per farli eseguire al meglio.
Motivare significa fornire motivi validi che possano spiegare per prima cosa la ragione del proprio comportamento e contemporaneamente aiutino gli altri ad agire secondo tali ragioni.
Motivare vuol dire essere in grado di navigare nel regno delle cause e delle possibilità, tra bisogni e desideri, tra aspirazioni ed aspettative, tra ragioni e scopi, ecc. Fornire dei motivi significa rendere sempre più chiari questi obiettivi, risvegliare passioni, prospettare mete, attivare intenzioni, trasformare mere potenzialità in possibilità.
Motivare significa agire su quell’intreccio di affetti, esigenze e cognizioni che fa da sostegno e dà continuità al lavoro quotidiano. Ecco perché motivare può essere visto anche come un sinonimo di comunicare, persuadere, incoraggiare e rassicurare.
Anche se non tutti siamo ugualmente convincenti, motivare costituisce in un certo senso un’attività alla quale nessuno, ad ogni livello, può sottrarsi, tanto meno i leader. Con una ovvia considerazione: chi motiva gli altri deve essere a sua volta motivato per essere credibile.
Un leader deve chiedersi sempre che cosa lo motiva nel profondo. Se, ad esempio, sono prevalentemente fattori estrinseci (crescente guadagno) difficilmente riuscirà a convincere i suoi collaboratori che i loro riferimenti e i loro principi devono essere più elevati.
A cura di: Ugo Perugini
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