Mondo del lavoro: il cambiamento anche a ritmo di jazz, anzi di gig!

Il lavoro occasionale, oggi a tempo di app, diventa gig economy!

Il nuovo ritmo di uno degli andamenti del mondo del lavoro prende a prestito il nome dal jazz.

Infatti, negli anni Venti (e a seguire), gig era la chiamata per una serata, un’esibizione, un ingaggio, nei fumosi locali di New Orleans o Chicago. Diviene così poi sinonimo di lavoretto e oggi, dopo le crisi del 2008 e soprattutto quella del 2011, il lavoro a chiamata in variante gig diventa il fenomeno della gig economy e si diffonde sempre più! (E per non fare brutte figure ricordiamoci che la pronuncia è con la g dura.)

Esperti e osservatori si dividono tra convinti assertori ottimisti del nuovo mondo del lavoro in versione gig a suon di app che aiuta logiche smart e free del lavoro e di vita, e altri meno ottimisti, più perplessi se non addirittura contrari a logiche che mettono a sistema precarietà totale, instabilità, insomma il delirio di una già difficile italiana flessibilità del lavoro. Con tutto ciò che ne consegue. Sembra allora riproporsi a questo proposito la diatriba tra apocalittici e integrati, per usare il titolo di un capolavoro di Umberto Eco (1964) su vantaggi e rischi della cultura e dei mezzi di comunicazione di massa.

Ma come vedono la gig economy coloro che lavorano così? Abbattimento dei costi per le aziende, e il lavorare quando e se voglio, sembrano i maggiori vantaggi da una parte, ma assenza di tutele e impossibilità di progettare qualcosa di non poco conto come la propria vita basandosi su una vita di lavoro gig sono gli svantaggi secondo un’altra prospettiva. E certo non da meno!

In quale cornice italiana si sviluppa questo fenomeno?

L’Italia conferma di non essere un paese per giovani anche se laureati, perché nel 2017 all’età di 30 anni 4 su 10 sono senza lavoro o sottoccupati, secondo i dati dell’Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro. Altro dato: secondo l’Istat, il “lavoro accessorio” per numero di committenti è quadruplicato nell’arco 2012-2016 e se fino al 2010 coloro che svolgevano “lavoro accessorio” non superavano i 100.000, nel 2016 diventano un milione e 800.000!

Ecco quindi qualche collegamento che aiuta a spiegare la diffusione della gig economy, ma le aziende protagoniste di questa forma d’impresa appena sentono il vento di qualche forma di regolarizzazione chiudono e si spostano su nuovi e più attrattivi mercati. E’ quello che ha fatto in Italia Foodora (della società tedesca Delivery Hero) con fattorini che consegnano cibo a domicilio, che ad agosto 2018 ha deciso di lasciare Italia, Francia, Olanda e Australia per lanciarsi in mercati più convenienti e fertili per i vantaggi di business del food delivery.

La gig economy resta comunque in Italia un fenomeno in espansione e non è un caso se a luglio 2018 è nata Gig-Imprese Confesercenti, come rappresentanza per tutte le piattaforme italiane della Gig-Economy: “un nuovo soggetto associativo che si candida a punto di riferimento di tutte le piattaforme digitali italiane, dalla ristorazione al turismo e ai servizi. E che si occuperà di promuovere la sostenibilità e la crescita di questo settore, per coniugare regole e flessibilità dei lavoratori della Gig Economy, che necessitano di tutele ad hoc non riconducibili alle classiche figure del lavoro subordinato, e per creare rapporti più strutturati tra le piattaforme digitali e le imprese” ( https://www.confesercenti-to.it/ ).

Resta però il dubbio se lavorare gig sia un modo che aiuta la qualità del lavorare smart

Perché la domanda è lecita: quali connessioni si possono individuare tra smart working e gig working?

Lavorare attraverso piattaforme digitali, non avere più bisogno della scrivania, eliminare la postazione fissa e la propria presenza stabile e oraria in ufficio superata dal lavoro da remoto, altrove e ovunque, produce sicuramente nuovi modi di lavorare e di intendere il lavoro, soprattutto il suo senso.  Ciò risponde a nuovi elementi di fattori motivazionali, i Millennials su questo insegnano, e a differenti modalità d’impostazione delle relazioni professionali e delle connessioni emotive che le caratterizzano, innescando così nuove dinamiche d’interazione, al di là e oltre la condivisione dello spazio e del tempo.

Un esempio italiano viene da “Hive – Il futuro al lavoro” con cui la Direzione Global Transaction Banking di Intesa Sanpaolo ha rinnovato il concetto e il modo di lavorare e di usare spazi e strumenti tecnologici, a vantaggio di business e del contemporaneo coinvolgimento proattivo delle persone che vi lavorano.

Il workplace, nei contesti organizzativi dunque si trasforma, sta rivoluzionando spazi e opportunità di ambienti, fa parte delle nuove strategie aziendali di gestione delle persone e di organizzazione del lavoro, per meglio dire della vita di lavoro.

Il lavoro agile, quindi lo smart working, può innescare circoli virtuosi a vantaggio d’impresa e dipendenti, e di rispetto per l’ambiente con un occhio all’ecologia dei materiali usati per la struttura di nuove aree e a beneficio non solo estetico anche del territorio (basti pensare, per esempio, al minore inquinamento ambientale dei trasporti non utilizzati per i trasferimenti casa-lavoro-casa). Altri, numerosi e in crescita, sono i progetti aziendali protagonisti di questa nuova forma di lavoro, come rileva ciclicamente l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano. Il che fa ben sperare!

Siamo sicuri che il lavoro on demand contenga altrettante positività, nel confronto con lo smart working, oltre a quella di lasciare – forse – uno spazio auto-organizzato per il proprio tempo/spazio, sempre che non si rincorrano tanti lavori on demand per poter così alla fine del mese comporre una sorta di minimo reddito complessivo che consenta una dignitosa seppur affannata autonomia?

Viene allora da pensare che gig economy e smart working, siano fenomeni e nuove configurazioni di lavoro con espressioni ben distinte quali risposte a nuove forme di rapporto persona-lavoro in nome di una maggiore libertà di scelta e autonomia, ma non solo.  Assumono a loro volta e proiettano nuovi significati e nuovi comportamenti.  Entrambe possono celare in modo più o meno offuscato il rischio di nuove forme di atomizzazione della persona che lavora e che si trova a scegliere (o a dover ristrutturare) il significato del senso di appartenenza “gruppale” sul lavoro. Si arriverà a moltiplicare un’appartenenza fluida a gruppi temporanei – o a nessuno – sul lavoro, ma magari stabile col gruppo del car sharing usato per andare a lavoro? Ciò porterà a nuovi bilanciamenti più sani ed equilibrati nella gestione del tempo e della vita personale rispetto alla vita professionale, rispetto alla quale i confini sono e saranno sempre più labili, quando non assenti? Se l’età delle macchine (nel senso di società industriale e post industriale) è superata, se la sharing economy è condivisione, e rende molto sfumato il confine tra datore di lavoro e dipendente, forse bisogna riflettere su implicazioni sottese a tali fenomeni. Una, ad esempio, è l’altra chiave di lettura per cui per la sparizione del posto fisso si ripiega – frustrati e instabili – sull’accumulo di lavoretti sottopagati che minano autostima e solidità… lo stress aumenta, come anche l’uso di psicofarmaci… Aumenta la richiesta di supporto e aiuto a trovare in se stessi gli strumenti per convivere con precarietà e incertezza, per sostenere una logica e una struttura di vita e di non equilibrio cui non si è preparati, soprattutto se si va verso gli Anta e le loro declinazioni, come verifico anche come coach e counselor nella mia esperienza professionale rispetto alle vite e ai vissuti di persone e aziende clienti.

Ma non doveva salvarci la robotica, liberandoci anch’essa dal tempo lavoro per dedicarci pure all’ozio creativo? Nell’era 4.0, secondo il rapporto del World Economic Forum (WEF) sul futuro del lavoro, potenzialmente il tandem di persone e robot al lavoro porterà a trasformazioni epocali con notevoli vantaggi occupazionali, al netto della differenza tra posti di lavoro sostituiti dalle macchine – o spariti- e nuovi posti creati con nuove competenze umane e persone necessarie. Si tratta di scenari di trasformazione non solo del lavoro, anche dell’economia.

Su questo, l’impatto sociale e professionale dell’innovazione e dell’intelligenza artificiale necessitano di alte e raffinate capacità di visione, di elaborazione di piani di sviluppo e di strategie che sappiano, partendo dal presente, attrezzare persone e Paese per affrontare questa rivoluzione e il suo ritmo.

Nel frattempo, però, almeno in Italia, c’è qualcosa che non torna, c’è qualcosa che non va e che distorce le possibilità e le opportunità straordinarie che certo abbiamo per essere nel cambiamento in un processo affascinante di progresso vero e di benessere collettivo… e per essere il cambiamento. Quello vero, però, non quello di slogan di facile consenso sul qui e ora.

Sarà meglio pensarci un po’ sù, magari rilassandosi sul divano, a occhi chiusi, ascoltando del buon jazz!

Riferimenti:

 

Articolo a cura di Luciana d’Ambrosio Marri

Profilo Autore

Sociologa del lavoro, specializzata in psicologia del lavoro e esperta di gestione dei processi formativi. Da oltre trent’anni è consulente di management, in particolare per attività di selezione, valutazione, formazione, benessere organizzativo, coaching e sviluppo delle persone nel mondo delle imprese, PA e scuole di management. Si occupa di Diversity Management, empowerment e di tematiche di genere. Docente in master universitari, è autrice di numerose pubblicazioni in ambito HR, e coautrice di CONFLITTI. COME LEGGERE E GESTIRE I CONTRASTI PER VIVERE BENE (Giunti, 2019); RISORSE UMANE E DISUMANE. COME VIVERE OGGI SUL PIANETA R.U. (Giunti, 2017); YES WE STEM (SGI, 2016); EFFETTO D: SE LA LEADERSHIP È AL FEMMINILE: STORIE SPECIALI DI DONNE NORMALI (FrancoAngeli, 2011); COME MUOVERE I PRIMI PASSI IN AZIENDA (FrancoAngeli, 2010). Ha anche pubblicato DONNE ALL’OPERA CON VERDI (2013). Intervistata da riviste, radio e tv, interviene in convegni su temi di scenario e attualità. E’ sposata e ha un figlio. www.lucianadambrosiomarri.it

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