Mission Command: come vincere la guerra in azienda. Strategie belliche per lavorare civilmente

Oggigiorno assistiamo a un avvicinamento dei civili alle dottrine militari e alle letture dei grandi strateghi per cercare utili spunti di riflessione, soprattutto per concorrere alla risoluzione di questioni legate al business e al management. È il caso del citatissimo Sun Tzu e del suo “L’arte della guerra”, sopravvissuto incolume a una strumentalizzazione e una manipolazione editoriale che ha voluto vestisse i panni, di volta in volta, di vera e propria Bibbia per manager, panettieri e per chi non vuole più “due di picche”.

Se è vero che molti manuali e classici militari affrontano problematiche generali e generalizzabili, è anche vero che un concetto, tanto più viene sradicato dal suo contesto di appartenenza, tanto più perde di significatività, così da diventare quasi decontestualizzato, inapplicabile, scevro di qualunque possibile nuova lettura.

Perché allora è possibile trovare un collegamento e un utilizzo fruttuoso (e soprattutto non forzoso) delle teorie militari nel campo aziendale?

Innanzitutto perché l’istituzione militare si configura come un’organizzazione, cioè un corpo organizzato, un insieme di persone collegate tra loro in una struttura organica per cooperare a un fine comune. Nulla di diverso da ciò che caratterizza un’organizzazione civile.

Punti di incontro possono esser letti nella funzione del Comandante e nel ruolo di grande importanza che viene ad avere il leader nell’orchestrare le attività al fine di raggiungere obiettivi perseguibili. Ci sono poi i singoli individui, soldati o dipendenti, che concorrono al raggiungimento dell’obiettivo mettendosi in gioco secondo la loro preparazione, le loro competenze e la loro singolarità.

Dalla semplice manovalanza, utile risorsa nel processo di realizzazione delle direttive concordate, che sia l’operaio di base o il soldato di truppa, al Comandante, leader o CEO, l’organizzazione si struttura a più livelli, gli stessi per tutte le organizzazioni, che lavorano insieme per il conseguimento dell’obiettivo generale realizzando ognuno le proprie missioni. Quindi, se approcciamo ai due mondi guardandone lo scheletro, ci accorgeremo che sono strutture molto simili. Se possono esserci differenze nel fine concreto da perseguire, in quanto le attività svolte dalle due organizzazioni saranno necessariamente diverse, ad esse sottendono gli stessi principi.

La dottrina che può unire i due mondi messi precedentemente a confronto è quella del Mission Command. Nata sotto il nome di Auftragstaktik nella Prussia ottocentesca, arriva incolume nei suoi tratti fondanti fino all’esercito americano odierno che le dedica anche un centro d’eccellenza, il Mission Command Centre of excellence.

La dottrina del Comando Decentralizzato – nomignolo italiano – si impernia su tre cardini:

Intento: viene espesso dal Comandante e deve essere chiaro, conciso, corto. Deve delineare l’end-state ed splicitare il “Cosa” e il “Perchè”. Serve a garantire l’unitarietà nella conduzione delle operazioni;

Missione: è la missione che l’unità deve portare a termine senza che sia specificato “come” farlo e deve includere tutti i normali elementi (chi, cosa, quando, dove, perché) con particolare enfasi sullo scopo, in modo tale da guidare l’iniziativa dei subordinati all’interno dell’intento del Comandante.

Iniziativa: consiste nell’assunzione della responsabilità di decidere e iniziare azioni indipendenti all’interno dell’intento esposto dal Comandante, in quanto i piani precedentemente definiti non sono più spendibili date le modifiche sul territorio. La possibilità è quindi muoversi liberamente all’interno della missione ma non di scavalcarla. Viene infatti chiamata “iniziativa disciplinata”.

Perché, quindi, le strategie falliscono e perché il Mission Command può aiutarci?

La difficoltà di messa in pratica di strategie praticabili, sia nel mondo militare che in quello aziendale, è dovuta all’“Attrito” – teorizzato per la prima da Clausewitz – che altro non è che la differenza tra realtà e aspettativa e si manifesta ogniqualvolta una variabile all’interno del processo non sia perfettamente definibile. Quindi, sempre.

Le organizzazioni cercano di dominarlo mettendo in pratica dei semplici comportamenti, logici e scontati: porre in essere un controllo più dettagliato, cercare informazioni più dettagliate, dare istruzioni più dettagliate.

Nulla di più sbagliato.

L’attrito non è dominabile, conoscibile o controllabile ma è, invece, gestibile ciò che pone in essere, cioè tra singoli gap, lacune, vuoti, zone deboli o scoperte.

Il Knowledge gap, tra piani e risultati, è data dalla differenza tra ciò che vorremmo sapere e ciò che sappiamo.

Innanzitutto fare strategia non vuol dire fare piani ma articolare e descrivere un intento, cioè la decisione di agire (input) per raggiungere un obiettivo (output).

La strategia deve essere reale e realistica e dare comunque probabilità di successo. È molto semplice: basta essere preparati al fatto che potrà accadere di tutto – e che questo tutto accadrà – per poterci mettere l’anima in pace.

È per questo che la strategia non è una scienza ma un sistema di espedienti; è l’applicazione del sapere alla vita pratica, la capacità di agire sotto la pressione di condizioni difficili.

Si dice che la fortuna gioca la sua parte ma che un buon stratega sappia manipolare la fortuna lanciando i dadi. Questo significa fare una serie di piccole scelte che, a loro volta, aprono la strada ad una serie di altre alternative possibili.

La strategia permette di combattere la battaglia giusta, le operazioni fanno sì che venga vinta, agendo come due elementi uniti.

Per aggirare il knowledge gap basta pianificare solo ciò che può essere pianificato e accettare l’incertezza e, invece che cercare più informazioni possibili, modificare lo scopo in base alle conoscenze che si possiedono. Bisogna accettare, quindi, che non possiamo creare piani perfetti e che la nostra conoscenza ha dei limiti; non comandare più del necessario e non pianificare dietro circostanze imprevedibili. C’è bisogno di poche e chiare informazioni da raccogliere. Bisogna capire innanzitutto l’obiettivo che si vuole raggiungere, le opportunità (esterne) e le capacità (elemento interno). Una buona strategia mette in relazione e crea coerenza tra questi tre elementi, è quindi importante riconoscerli e averli più chiari possibili.

L’organizzazione può essere pensata come una scala, cioè come una sequenza logica di step, in cui ogni posizione porta ad altre opzioni future. Gli step sono lo sforzo principale da compiere in un dato momento. È un obiettivo singolo e ha la priorità nel qui ed ora.

Questo permette di smembrare l’obiettivo generale in micro obiettivi, così da compiere piccoli e decisi sforzi che ci avvicinano all’obiettivo principale.

L’Alignment gap, tra piani e azioni, è la differenza tra ciò che vogliamo che le persone facciano e ciò che fanno realmente. Ciò si genera in quanto ogni ordine che può essere frainteso lo sarà.

È quindi importante comunicare a ogni unità tutto ciò che può essere utile nel raggiungimento dell’intento – che deve essere chiaro, preciso, completo, corto – tenendo a mente la massima “se chiedi qualcosa ai tuoi sottoposti e loro sbagliano, lo scemo sei tu”.

A un intento che contenga una spiegazione di cosa vogliamo raggiungere e perché, possiamo accompagnare un “anti-goal”, cioè una spiegazione di ciò che assolutamente non va fatto, qualsiasi cosa accada.

Sapere cosa si vuole è importante, eppure non è abbastanza. Bisogna saper informare l’organizzazione e porre in essere comandi direttivi.

Il messaggio che deve passare è “questo è quello che voglio che tu faccia per me e perché”.

Queste domande vengono fatte nella fase di briefing ed è quindi utile far seguire un backbriefing in cui ci viene dato un feedback in merito a quanto è stato formulato, così da avere la certezza della comprensione.

Il leader ha una funzione molto importante per chiudere questo gap, in quanto ha il compito di capire cosa sia vitale per l’organizzazione e cosa sia invece possibile togliere (e in che ordine).

Le prime domande a cui dare una risposta sono: “cosa?” e “perché?” e le conseguenze. Si passa poi a definire i limiti: i due più grandi di solito sono costi e risorse.

Affinché il gap venga chiuso non è importante il volume della comunicazione ma la qualità e la precisione della stessa.

L’Effects gap, tra azioni e risultati, riguarda cosa speriamo che le nostre azioni creino e cosa creano realmente. Non possiamo prevedere perfettamente come l’ambiente reagirà alle nostre azioni quindi, non possiamo sapere prima quali risultati otterremo. Pre-occuparsi, cioè occuparsi prima, fa usare male le energie.

Il ponte di collegamento è qui l’iniziativa individuale del dipendente che non può scegliere se obbedire o meno, ma può scegliere come farlo. Bisogna, a tal proposito, creare un’organizzazione intelligente che permette a persone nella media di avere performance oltre la media, giocando di squadra.

Affinchè ciò si verifichi, è importante il ruolo del Comandande o leader: alcuni vogliono solo seguire procedure e si sentono persi senza ordini, altri sono maniaci del controllo e non amano, quindi, l’incertezza o lasciare ad altri un po’ di potere decisionale. Il controllo stretto e coercitivo ha alla base la paura e la mancata fiducia del Comandante verso i suoi sottoposti. Infatti, tramite la delega, il leader dà via solo il potere ma non la responsabilità. Il capo, quindi, deve potersi fidare dei suoi collaboratori e del rapporto che ha instaurato con loro.

Inoltre l’obiettivo deve essere interiorizzato, dal momento che l’obbedire, di per sé, non è cosa naturale in quanto siamo stati creati per pensare da soli e prenderci i relativi rischi.

Siamo quindi dotati di creatività proprio per adattare il nostro comportamento al fine di raggiungere l’obiettivo.

Per capire se la strada intrapresa è quella che ci farà avere o meno dei risultati, c’è bisogno di calcolare gli effetti delle nostre azioni, che vanno letti in un’ottica di “command e control”. Per cui abbiamo l’atto del “comandare” che si impone come atto della volontà basato su considerazioni esterne e interne al sistema che si comanda; e l’atto del “controllo” che ci informa su cosa sta succedendo e ne dà il significato.

Senza il command, il control è vuoto perché non so cosa controllare. L’atto di comando è invece autonomo.

C’è bisogno, quindi, di un sistema di valutazione che sappia monitorare senza porsi come fine a sé stesso o soppiantare la strategia e questo perché si vanno a indagare due sfere distinte: quella qualitativa del “comando” e quella quantitativa del “controllo”. La misurazione va affiancata, quindi, al giudizio, che permette la valutazione degli elementi qualitativi legati a fattori umani.

I tre concetti tra cui ruota il discorso sono, quindi: Risultati, Azioni, Piani, i quali interagiscono in un teatro in cui l’incertezza e la mancanza di informazioni la fanno da padrone.

La questione generale diviene, a questo punto, come dirigere un’organizzazione troppo grande per un solo Comandante.

I sottoposti devono avere chiaro l’intento e capire l’intento vuol dire afferrare l’essenziale. Il link tra strategia e azione è proprio nel colmarsi dei tre gap.

La filosofia del Mission Command è quindi un utile strumento anche per le organizzazioni civili, in quanto descrive chiaramente il ruolo del Comandante che diviene, nel mondo civile, il leader, il manager e che deve proporsi come motivatore e trascinatore.

Il Mission Command inoltre permette un corretto bilancio tra l’arte del comando e la scienza del controllo, evitando di ridurre tutto a mere misurazioni e in standard asettici che poco tengono conto del capitale umano posto in gioco.

Proprio per valorizzare il capitale umano, un corretto uso di tale dottrina rinforza l’imperativo della fiducia, del rispetto, della collaborazione, del gioco di squadra.

Viene inoltre enfatizzata la centralità del comando che, aldilà delle tavole rotonde a cui siamo abituati nel mondo aziendale, deve rimanere in capo a un solo individuo.

In un’azienda i compiti da svolgere sono molteplici e diversificati: è quindi utile che ognuno abbia la libertà di decidere nel proprio settore di competenza e, dal livello più basso, proporre iniziative e progetti personali ai vari livelli superiori.

L’utilizzo del Mission Command permette sicuramente una rivalutazione del fattore umano ed evita l’alienazione e la frustrazione dei dipendenti, permettendo un posizionamento migliore sul mercato delle aziende che votino il loro operato a tale filosofia.

 

Bibliografia

BUNGAY, Stephen, The Art of Action, Clerkenwell, London, Nicholas Brealey Publishing, 2011.

MEYER, Thomas E., The Leadership Imperative: A Case Study in Mission Command,” in “Infantry Magazine”, Gennaio- Marzo 2014, pp 26-33.

NELSEN, John, T., Auftragstaktik: A Case for Decentralized Battle, in “Parameters”, September, 21-34, 1987.

SILVA, J. L., Auftragstaktik. Its Origin and Development, Baltic Defense College, 1999.

STEWART, Keith G., Mission command: Elasticity, equilibrium, culture, and intent, Defence R&D Canada Technical Report DRDC, Toronto, November 2006.

 

Articolo a cura di Sara Santella

Profilo Autore

Nata a L’aquila, laureata in Scienze Politiche alla facoltà di Teramo è Dottoranda presso la stessa facoltà dove studia la categoria di autorità, del suo ruolo nella vita delle società, proponendo un ripensamento filosofico e antropologico a partire dal recupero dei suoi elementi strutturali e fondativi con l’obiettivo ultimo di integrare quest’interpretazione nella moderna dottrina della leadership.
Ha conseguito il master triennale in Counseling ed ha acquisito competenze in gestione e mediazione dei conflitti secondo un modello che si ispira alle strategie militari, rimodulate per essere proposte in modo idoneo negli ambienti della politica e aziendali, in linea con le teorie sistemiche, PNL e Analisi Transazionale.
Attualmente è cultrice della materia presso le cattedre di “Analisi filosofica della politica”, “Mediazione e Gestione dei Conflitti”, “Filosofia del diritto” presso l’Università degli Studi di Teramo.

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