Mettere mano al lavoro nell’epoca della trasformazione digitale con quali domande?

UNA NUOVA VISIONE DEL LAVORO

Il lavoro sta cambiando profondamente. Cresce la consapevolezza che gli esiti della nuova grande trasformazione che lo coinvolge non siano ancora ben delineati e che abbiano bisogno, per essere compresi e governati, di numerosi approfondimenti e in più direzioni. Di certo questa trasformazione, che è di natura e portata diverse da quella precedente del post-fordismo, sta ridisegnando radicalmente modelli di business, organizzazione del lavoro, professioni. A ben vedere la nostra vita, la cultura e il modo con cui guardiamo dentro e fuori di noi. C’è una domanda più esigente delle altre che può essere posta in questi termini: quale ruolo avrà la persona che lavora nell’epoca segnata dalla digital transformation che si presenta infarcita di formule magiche come smart working, lavoro flessibile, lavoro agile, piattaforme collaborative? Quali esiti avranno le nuove modalità che vanno diffondendosi di ideazione, produzione e scambio di beni e servizi? E’ evidente come le applicazioni dell’innovazione tecnologica stiano accelerando in maniera vertiginosa questo cambiamento, lanciando a tutti una profonda sfida: comprendere, immaginare e governare le implicazioni di questa nuova onda del cambiamento nella società, nel business e soprattutto nei riguardi delle persone. Secondo i risultati di una survey condotta nel 2014 tra oltre 500 lettori della rivista Harvard Business Review, infatti, “The Digital Transformation of Business” ha significativi impatti non solo sulle strategie e sui business model delle imprese, ma anche su come le persone lavorano e lavoreranno. Tra i numerosi benefici che si accreditano a questa trasformazione ci sono:
• l’accesso alla rete da ogni luogo e da differenti mobile devices che consente maggiore flessibilità;
• l’incremento della produttività delle persone;
• una maggiore diffusione di comportamenti cooperativi tra i collaboratori.
Questa nuova “agilità” produttiva e del lavoro, inoltre, produrrà effetti positivi anche sui costi delle imprese. Come possiamo definire allora la digital transformation? Secondo la visione e il Manifesto di Agile Elephant, un team di consulenti che si propone di accompagnare le imprese lungo il viaggio di questa trasformazione culturale, sociale e di business, identifica un processo che conduce le imprese ad accogliere ed implementare un nuovo modo di pensare e lavorare usando le tecnologie emergenti. Per questo richiede anche un cambiamento di leadership e la valorizzazione diffusa della tecnologia per migliorare l’experience di collaboratori, clienti, fornitori, partners e stakeholder. In altre parole, la portata della trasformazione lascia supporre una rimessa in discussione del lavoro in tutte le sue dimensioni. Occorrono, dunque, grande consapevolezza e determinazione per esplorare nuove questioni e sfide.

IL LAVORO SENZA TEMPO E SENZA LUOGO

Sono in molti a pensare che l’epoca in cui siamo entrati sarà ricordata soprattutto per la sua attitudine a ridisegnare progressivamente il lavoro facendolo diventare “senza tempo e senza luogo”. Everytime e everywhere sono, infatti, le nuove espressioni che segnalano la direzione e il ritmo di questa nuova onda di cambiamento sottolineandone forza e pervasività. D’altro canto sono già disponibili ampie sperimentazioni in tal senso che lasciano intravvedere caratteristiche e modalità del lavoro prima inimmaginabili, come la possibilità per il lavoratore di fornire la prestazione ovunque e a vantaggio anche di più datori di lavoro. Ricerche sempre più numerose anche di natura interdisciplinare, infatti, mostrano un lavoro che conosce nuove forme rese possibili dalla tecnologia che, grazie a potenti devices sempre più smart e a piattaforme collaborative, rendono marginale – facendogli perdere quella centralità ricoperta per tutto il secolo scorso – l’individuazione del luogo (azienda, fabbrica, ufficio) dove erogare la prestazione. Non solo. Ormai, questi strumenti intelligenti consentono agli stessi lavoratori di diventare proprietari dei mezzi di produzione, facendo saltare così anche un’altra premessa attorno alla quale si è costruita l’impalcatura culturale, giuridica, sociale del lavoro subordinato, ossia che l’imprenditore – proprio perché proprietario dei mezzi di produzione, e diversamente dal lavoratore – si deve assumere i rischi dell’organizzazione dell’impresa. Spinti da queste indubbie opportunità, si diffondono così accordi aziendali che incentivano il cosiddetto “lavoro agile”, ossia il lavoro reso in spazi non aziendali e in tempi non fissati dal ritmo dei vecchi processi produttivi dominati dalle macchine ormai in via di demolizione. Gli uni e gli altri, invece, possono ora essere “selezionati” autonomamente dai collaboratori anche in funzione di esigenze personali e familiari. Inoltre, il caso Ducati e quello della Fiat di Pomigliano – con l’autonomia di cui godono i team di lavoro – lasciano immaginare che questa conquista di maggiore libertà possa avere un futuro anche nelle fabbriche e non solo nei luoghi virtuali dell’economia dei servizi e della conoscenza. Sono destinati a crescere e diffondersi così quelli che Dario Di Vico ha chiamato “lavori senza tempo”, espressione che coglie appieno questa loro caratteristica di liberare il lavoratore da vincoli temporali eterodiretti.

VERSO IL LAVORO AUTODETERMINATO?

Oltre al luogo del lavoro, dunque, salta anche il tempo. La flessibilità, considerata un tempo diritto da conquistare a fatica, oggi è guardata da una diversa prospettiva. Viene esaltata come una virtuosa esigenza dell’organizzazione produttiva cui adeguare tempi e luoghi – avremmo detto nel secolo scorso – di “svolgimento della prestazione lavorativa”. Un’esigenza virtuosa anche perché consente maggiore libertà alle persone, lasciando supporre uno scenario in cui sarà possibile svincolarsi progressivamente dal potere di determinazione dell’impresa cui il lavoratore si assoggetta attraverso il vincolo della subordinazione. Un’esigenza virtuosa, infine, perché capace di riposizionare l’asimmetria del lavoro riconoscendo al collaboratore il potere di “autodeterminare” anche l’orario, scegliendo in una sorta di menu l’opzione più favorevole. Una prospettiva, questa, che ci riporta alla memoria le linee guida e la strategia contrattuale scritte nei documenti del XIII Congresso Nazionale della CGIL di fine secolo scorso, quando si rivendicava “la conquista di nuovi spazi per l’autodeterminazione del lavoro” come strada da percorrere “per conquistare gradualmente un lavoro a misura della persona, un’impresa a misura del lavoratore cittadino, un’organizzazione sociale e un tempo di vita improntati alla salvaguardia dei diritti politici e sociali delle persone che lavorano”. Dunque, sembrerebbe arrivato il momento di svolta: grazie alla tecnologia e a un diverso atteggiamento (interesse) delle imprese si aprono nuove vie e opportunità sin qui non immaginabili perché la persona che lavora possa realizzarsi. D’altro canto, si tratta di una lettura che confermerebbe l’idea di quel ruolo di progressiva e maggiore responsabilizzazione che viene riconosciuto all’individuo nella costruzione, lungo tutta la vita, del suo percorso di crescita, sviluppo e carriera. Un tratto questo che fornisce, forse, una chiave di lettura utile per cogliere l’evoluzione del people management del XXI secolo. Una tendenza, del resto, cui rendono testimonianza ormai numerose pratiche di gestione delle risorse umane delle imprese, per esempio quelle che si muovono nella direzione di un uso sempre più diffuso di strumenti di auto-valutazione, auto-sviluppo, auto-formazione, autoapprendimento, auto-narrazione ecc.

TEMPO LIBERATO O TEMPO IMBRIGLIATO?

Insomma, la possibilità di scegliere il tempo di lavoro non costituisce più un tabù, un’idea traumatica ed eversiva. Il contrario. Oggi, assume piuttosto il significato di un adeguamento coerente alla trama sottile di quest’epoca dominata dalla tecnica e interpretata dal nuovo volto del capitalismo che vi abita. Ogni sistema tecnico è rappresentato – scrive il sociologo Mauro Magatti – da “un aggregato di dispositivi, reti, infrastrutture che definisce criteri cognitivi e standard di efficienza”. Una sorta di tessuto morbido e avvolgente che veste il nostro comportamento guidandolo discretamente ma con inflessibile fermezza. Anche la grande trasformazione del lavoro, allora, deve misurarsi con i nuovi dispositivi culturali, economici e sociali che contraddistinguono la contemporaneità e le sue nuove figure del potere. Jonathan Crary, in un recente saggio dove discute delle mire del capitalismo, scrive: “L’intero pianeta viene riprogettato come luogo di lavoro perennemente in attività o come centro commerciale che non chiude mai, capace di garantire un’infinita varietà di offerte di funzioni, di scelte e di alternative”. La funzione del dispositivo, d’altro canto, è proprio quella di creare “corpi docili, ma liberi”, scrive il filosofo Giorgio Agamben, attraverso pratiche, esercizi e saperi. Se l’operatività e il suo flusso produttivo e consumistico sono sempre garantiti e ininterrotti, diventa accettabile, e ancor prima desiderabile, l’idea di un sistema strutturato temporalmente 24 ore per 7 giorni che lascia all’individuo la (sola) libertà di scegliere come adeguarvisi. In questo modo prende forma, manifestandosi in tutta la sua dirompenza, il potere di disciplina e controllo che ogni dispositivo incorpora e rilascia ovunque con generosità.

NUOVE FRAGILITÀ E NUOVI RISCHI. CHI SE NE FA CARICO?

A questo punto potremmo domandarci quanto la spinta verso il modello di autodeterminazione nel lavoro – vero o apparente che sia – sia compatibile con quella “subordinazione” (e le sue caratteristiche, prima fra tutte l’eterodirezione) che resta il paradigma ispiratore del Jobs Act. Scegliendo un’altra prospettiva potremmo chiederci: se l’epoca del post-fordismo, la sua impalcatura ideologica e concettuale, i suoi strumenti sono in via di dismissione, come mai la riforma del lavoro – indicata come una rivoluzione copernicana- si muove ancora lungo una strada che appare destinata solo a essere presto coperta da rovi e sterpaglie? E’ sullo sfondo di questo complesso, articolato e non univoco “movimento” del lavoro che va collocata anche la più recente discussione avviata sull’orario di lavoro e i dubbi sollevati circa l’attualità dell’idea di indicarlo ancora come elemento utile per determinare la retribuzione. Interpretare la trasformazione del lavoro fuori di questa cornice più ampia, che intreccia diversi piani di lettura per cogliere l’evoluzione del lavoro e il filo delle strategie perseguite dai suoi attori, avrebbe poco senso. E’ qui, infatti, che vanno trovati i nessi più profondi anche con la visione dell’economia, dell’impresa e del lavoro che si ha. E va coltivato su questo terreno il confronto aperto per chiarire le diverse posizioni e, soprattutto, i beni che si vogliono tutelare. Semplificando molto, ci pare che il nucleo centrale della questione ruoti attorno a questa domanda: il tempo di lavoro nel futuro (prossimo) di chi sarà? Sarà sempre dell’imprenditore, che potrà dunque organizzarlo per produrre e scambiare beni e servizi realizzando così gli obiettivi del progetto d’impresa? O piuttosto il tempo sarà del lavoratore, che potrà a sua volta organizzarlo in autonomia per offrire competenze, servizi, pensiero, energia? Nel primo caso non potremmo che muoverci all’interno di uno schema retributivo prevalentemente fondato sul tempo come misura di determinazione della retribuzione delle attività di lavoro (“operae”), anche se mitigato dagli strumenti già disponibili che collegano parte della ricompensa a obiettivi (individuali, di team, aziendali, di gruppo) che individuano forme d’incentivazione della prestazione e/o di partecipazione dei lavoratori all’impresa. Nel secondo caso, invece, lo schema retributivo vedrà spostare il suo baricentro verso il risultato (”opera”) individuato anche come fonte da cui trarre i criteri che legittimano e misurano la ricompensa. Come saranno allocati allora i rischi del lavoro nell’epoca della trasformazione digitale e dei lavori senza luogo e senza tempo? Evidentemente, sono tutte questioni molto complesse che aiutano a visualizzare i contorni della grande sfida che abbiamo di fronte. Una sfida a tutto campo che dovrà essere giocata necessariamente su più fronti. Senza dubbio, sarà anche una sfida culturale perché di natura interdisciplinare. Per immaginarne la portata basta riflettere sulle implicazioni di una questione aggiuntiva che forse, Luigi Olivieri, formulerebbe così: cosa comporta il passaggio da una logica del “ti pago per” a quella del “ti pago se”?

LAVOREREMO TUTTI IN UN UNICO E GLOBALIZZATO OPEN-SPACE?

Questi primi tre lustri del nuovo secolo ci offrono, dunque, numerose piste per esercitare la riflessione, il confronto e la sperimentazione. Tra queste spicca per la sua portata quella che lascia supporre un assottigliamento progressivo della distanza tra l’imprenditore e il dipendente. Fare l’imprenditore è stato sempre un privilegio di pochi. La prospettiva però può essere cambiata, perché ora ci sono fattori che aprirebbero questa possibilità a molti. Perché allora non assumere l’ipotesi che tutti abbiano questa vocazione e vogliano diventare imprenditori, assumersi i rischi conseguenti e autodeterminare il proprio lavoro? La visione – da discutere naturalmente – troverebbe supporto in diverse componenti della trasformazione in atto. Soprattutto avrebbe dalla sua parte un solido partner strategico: quell’innovazione tecnologica che – sfruttando le potenzialità della connettività – abbatterà le mura dei vecchi e obsoleti luoghi di lavoro (fabbriche, uffici ecc.) senza erigerne altri al loro posto. A che servirebbero in fondo? Perché limitare la libertà degli individui irretendo la creatività delle persone? In questo scenario, inoltre, sarebbe una scelta appropriata quella di continuare a guardare al tempo come criterio più adeguato per determinare la retribuzione, o non sarebbe preferibile puntare diritti al risultato? Tirando le fila del discorso, il nostro pianeta potrebbe diventare così un unico e globalizzato open-space senza orario, dove le persone continueranno a lavorare, certo, disponendo però dei mezzi di produzione divenuti nel frattempo ancora più smart (e accessibili) e senza dover più sopportare (almeno sembrerebbe) il peso della direzione altrui. D’altro canto, perché non dobbiamo credere che ciascuno di noi sia in grado di darsi la direzione che vuole? In questa prospettiva, non c’è nemmeno da escludere che la nuova grande trasformazione potrà aiutarci anche a superare l’esperienza del limite, una palla al piede poco efficiente. E’ una visione che, facile immaginare anche questo, resta da discutere nelle premesse e nelle implicazioni. Quel che appare certo è che le opportunità da cogliere per accrescere il benessere sono numerose, ma non ci debbono abbagliare; non dobbiamo infatti dimenticare che la trasformazione porta con sé anche una lunga lista di domande sulla visione dell’essere umano e del lavoro rispetto alle quali non restare miopi o addirittura ciechi. Con quale atteggiamento ci poniamo verso le nuove fragilità che la trasformazione lascerà scoprire? Come prendersene cura per non lasciarle ai margini? Della trasformazione occorre assumerne la densità problematica, aumentarne la consapevolezza e maneggiarla con cura.

SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Crary J., 24/7 Il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, Torino, 2015

Eurofound, New form of employment, 2015
http://www.eurofound.europa.eu/sites/default/files/ef_publication/field_ef_document/ef1461en_3.pdf

Gabrielli G., Appunti sul Jobs Act e sul lavoro che cambia. http://www.lavoroperlapersona.it/appuntisuljobsactesullavorochecambia/# more-8548

Magatti M., Lo spazio pubblico nella città del XXI secolo, in Dialoghi, n.3, lugliosettembre 2015

McKinsey Global Institute, Help wanted: The future of work in advanced economies, 2012 http://www.mckinsey.com/global-themes/employment-and-growth/future-of-work-in-advanced-economies

Olivieri L., Lavoro agile: di che si parla? Di negare l’elemento tempo o di nuovi sinallagmi contrattuali?
http://www.bollettinoadapt.it/wp-content/uploads/2015/11/2015_42_oliveri.pdf

Seghezzi F., Le grandi trasformazioni del lavoro, un tentativo di periodizzazione. Appunti per una ricerca, working paper, 2015.
http://www.bollettinoadapt.it/wp-content/uploads/2015/02/wp_2015_169.pdf

Tiraboschi M., Seghezzi F., Al Jobs Act mancano l’anima e una visione del lavoro che cambia. Ecco perché rileggere oggi la Grande trasformazione di Polanyi, 2015 http://adapt.nova100.ilsole24ore.com/2015/01/22/al-jobs-act-italiano-mancano-lanima-e-una-visione-del-lavoro-e-della-societa-che-cambia-ecco-perche-rileggere-oggi-la-grande-trasformazione-di-karl-polanyi/

 

A cura di: Gabriele Gabrielli

Articolo pubblicato sulla rivista Leadership & Management – Gennaio/Febbraio 2016

Profilo Autore

Executive Coach e Consulente, docente di HRM & Organisation alla LUISS Guido Carli, Professor of Practice in People Management alla LUISS Business School, Presidente Fondazione Lavoroperlapersona (www.lavoroperlapersona.it)

Condividi sui Social Network:

Articoli simili