Parlare di impresa familiare richiede particolare attenzione e rispetto perché si affronta uno dei temi più straordinari che contribuiscono all’evoluzione della nostra specie e che rileva nell’economia globale tanto quanto nella maggior parte delle nostre vite. Il modello familiare è fenomeno planetario, non locale, non italiano: 80% del PIL globale deriva da imprese familiari, 7 imprese su 10 sono familiari e 7 persone su 10 che lavorano, lavorano in imprese familiari. Persino gli Stati Uniti – solitamente associati al capitalismo delle grandi corporates – hanno un PIL rappresentato per due terzi dal family business e la più grande azienda statunitense, WalMart (famiglia Walton) ha le caratteristiche dell’impresa familiare. In Italia il fenomeno è ancor più accentuato, con 750.000 aziende familiari accertate (di cui 100.000 sono PMI, da 10 a 250 dipendenti e fatturato tra 2 e 50 milioni EUR) e più di 3,5 milioni stimate considerando le microimprese.
Se il fenomeno è di per sé rilevante, ancor più lo è alla luce della crisi che ha investito il mondo negli ultimi 10 anni, incrociando:
Per avere un quadro completo del contesto, dobbiamo aggiungere alle “rivoluzioni” appena descritte, gli effetti geo-politici ed economico-sociali che ci proiettano da qui a trent’anni (2050 o anche prima) in un futuro che è più un domani:
Non sappiamo se siamo a tutti gli effetti di fronte ad una “singolarità tecnologica” – un momentum nello sviluppo di una civiltà, in cui l’accelerazione del progresso e dell’incertezza supera la capacità di comprendere e prevedere degli esseri umani – ma possiamo a buona ragione dirci all’inizio di un viaggio trans-epocale in cui la cultura, la società e la civiltà intera cambiano attraverso eventi improvvisi e trasformazioni sostanziali e non trend e cambiamenti incrementali e continui. La partita da giocare non è tanto sugli aspetti tecnici, quanto sulle abilità cognitive di comprensione dei fenomeni e di formulazione di modelli di business che catturino le opportunità del cambiamento e garantiscano all’impresa l’antifragilità necessaria per abbracciare la nuova epoca. Non è più la mera transazione economica di prodotti e servizi il nocciolo della partita, ma la ben più differenziale transazione di valore e di fiducia sottostante, nel nome di un equilibrio economico e sociale per tutti gli stakeholders e per l’ecosistema locale e transnazionale nel quale l’impresa è inserita. Questa la maggiore consapevolezza che la pandemia ci lascia.
Nella misura in cui l’esercizio del rischio imprenditoriale nel family business è quasi per definizione in mano ad una persona al vertice e le scelte sono condizionate molto più che in aziende non familiari o managerializzate, dal fattore “famiglia”, l’impatto della crisi sull’impresa familiare più che su altri soggetti economici richiede che l’imprenditore faccia un passo indietro dal management dell’impresa. Chi se non lui dovrà affrontare in prima persona – prima di trasferirlo nella cultura aziendale – un nuovo modello cognitivo, un diverso modo di conoscere il mondo, di in-formarsi e formarsi? Chi se non lui dovrà preservare l’equilibrio delle tre dimensioni fondamentali del Family Business – impresa, famiglia e patrimonio – spersonalizzando progressivamente il suo rapporto con l’impresa per concentrarsi sull’indirizzo strategico di lungo termine e sulla selezione, formazione, ingaggio e sostegno delle persone che sceglierà per darvi seguito?
In contesti di mercato ad elevata complessità e volatilità, infatti, l’unicità dell’imprenditore e la sua identificazione con l’impresa rischiano di pregiudicare la sostenibilità nel tempo, se la cifra imprenditoriale che ci ha traghettati fino all’oggi non viene opportunamente compresa, codificata e declinata nelle dimensioni del rischio imprenditoriale da esercitare nel contesto di domani.
Per fare questo ci vuole tempo da dedicare alla formazione, all’in-formazione, alla relazione ed al confronto. Un tempo che la rivoluzione digitale dell’industria 4.0 ha da offrirci, nella misura in cui permetterà a persone, alleggerite del giogo dell’operatività, di esprimere il proprio contributo creativo, la propria intelligenza applicata al fare, prima del fare. Sostenere questo paradigma, innescando l’acceleratore di una cultura aziendale partecipativa, permetterà di riqualificare il coinvolgimento delle persone in azienda, abilitando la consapevolezza del ruolo e del contributo sia intellettuale che di risultati. Persone appunto, non robot.
È in questo contesto ed ambito che professionisti del management e della governance hanno l’onere e l’onore di contribuire alla continuità di impresa dei family businesses. Comprendendo, smussando o affrontando a viso aperto l’imprenditore, quando necessario, pur che maturi ogni giorno di più la consapevolezza e la confidenza in una missione che solo lui può scrivere e solo da lui può procedere:
Solo così comunità di interessi che condividono obiettivi e sviluppano senso di appartenenza, si fondono con la cultura aziendale nell’insieme delle visioni delle persone, che diventano a tutti gli effetti i detentori del suo valore, invertendo il paradigma dell’innovazione dall’alto (top-down) in una spirale ascendente di contributi (bottom-up), circolarizzati dal legante culturale. Imprenditori come esploratori e maestri dell’umana intelligenza razionale ed emotiva, dunque, prima che di innovazione, tecnologie, mercati e modelli di business. Professionisti del management e della governance come catalizzatori della trasformazione personale dell’imprenditore, prima ancora che di quella aziendale.
Articolo a cura di Alessandro Scaglione
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