Il lavoro dirigenziale e il superamento dei limiti orari a tutela della salute

Le norme della contrattazione collettiva, generalmente, si rivelano di scarsa utilità ai fini di un’esatta quantificazione dell’orario di lavoro dei dirigenti (in relazione al lavoro dirigenziale esistono in Italia oltre 20 contratti collettivi), in attuazione del preciso rinvio e richiamo operato dall’art. 1, d.lgs. n. 66/2003, che disciplina l’organizzazione dell’orario di lavoro e gli aspetti connessi e che, all’art. 3, prevede la disciplina ordinaria (Orario normale di lavoro: “1. L’orario normale di lavoro è fissato in 40 ore settimanali. 2. I contratti collettivi di lavoro possono stabilire, ai fini contrattuali, una durata minore e riferire l’orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all’anno”).

Dopo aver ricordato la particolarità della posizione ricoperta dal dirigente all’interno dell’impresa, le sue funzioni e le sue responsabilità, i contratti collettivi si limitano, infatti, a precisare che la relativa prestazione lavorativa non è quantificabile, anche se, poi, dispongono che essa tende a correlarsi in linea di massima, ma pur sempre con ampia discrezionalità, all’orario dell’unità lavorativa cui il dirigente è addetto.

Si tratta, invero, di clausole in cui le parti, alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza in materia, hanno tentato di coniugare il principio, derivante direttamente dalla Costituzione (art. 32), di tutela dell’integrità fisica del lavoratore, con la peculiarità dell’attività del dirigente (art. 2087 cod. civ. – Tutela delle condizioni di lavoro: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”).

Se è infatti vero che è proprio della funzione direttiva il carattere fiduciario delle prestazioni, per cui l’imprenditore si affida alle doti di capacità ed esperienza del dirigente, confermandogli poteri di iniziativa, nell’esercizio di un’attività di lavoro qualitativamente superiore, che ammette e spesso richiede interruzioni e discontinuità, e per la quale non possono stabilirsi vincoli normali e costanti di orario, è altrettanto vero che la figura odierna del dirigente – o, quantomeno, di molti dirigenti – mal si adatta a quella di colui che era tradizionalmente definito l’alter ego dell’imprenditore (secondo il concorde riferimento degli studiosi in materia all’idea della funzione c.d. “sostitutiva”, insita nell’essenza stessa del lavoro dirigenziale).

Accanto alle posizioni di coloro che restano i più diretti collaboratori dell’imprenditore sono sempre più diffuse, infatti, le cc.dd. forme di dirigenza “intermedia” e di “minidirigenza”, queste ultime ricondotte a lavoratori che, pur avendo la qualifica dirigenziale, sono, di fatto, anche se non sempre, assimilabili ai quadri o agli impiegati, sia pure ai massimi livelli.

Invero, la categoria dirigenziale è incardinata, secondo lo schema legale, in una nozione unitaria, che non conosce gradi o livelli di gerarchia interna, salvo quelli dell’organizzazione aziendale.

Al dirigente che lavora oltre l’orario normale dell’azienda in cui presta la propria attività non spettano, comunque, gli straordinari, così come non spetta alcuna maggiorazione nell’ipotesi di lavoro effettuato nella giornata del sabato.

È comunque possibile – astrattamente – che il contratto individuale preveda un compenso speciale – o, al limite, lo stesso straordinario – per l’ipotesi in cui la prestazione lavorativa superi un determinato numero di ore settimanali, o anche soltanto il limite orario normalmente osservato per prassi aziendale. In questo caso la volontà contrattuale delle due parti del rapporto di lavoro risolve e disciplina preventivamente ogni possibile profilo di regolamentazione in ordine all’orario di lavoro.

In ogni caso, occorre sottolineare come sussista pur sempre, anche per il personale dirigente, un limite quantitativo globale in rapporto alla necessaria tutela della salute e dell’integrità fisica e psichica garantita dalla Costituzione a tutti i lavoratori (art. 32 cit.); spetta, comunque, al lavoratore/dirigente il dover dimostrare il superamento del detto limite di ragionevolezza, e anche quello di provare la durata del lavoro svolto in concreto durante la giornata lavorativa. Questo è un punto critico nella complessiva questione di diverbio e rivendicazione del dirigente per asserite prestazioni di lavoro in eccesso e oltre i limiti suddetti. I giudici, infatti, richiedono che il dirigente fornisca una prova rigorosa, puntuale, precisa e specifica dell’orario svolto in eccesso, giorno per giorno, settimana per settimana, mese per mese e via dicendo, cosa che, in assenza di supporti documentali di tracciatura e registrazione degli orari e delle prestazioni, difficilmente può essere supportata da semplici testimonianze, per evidenti dubbi di credibilità e difficoltà nella narrazione del testimone.

Scendendo più in dettaglio sull’argomento, si osserva che la normativa fondamentale in materia di orario di lavoro è costituita dal r.d.l. n. 692/1923, e successive modifiche, integrato, oggi, stante lo specifico richiamo che figura nella suddetta normativa di cui al d.lgs. n. 66/2003, che ha portato l’orario legale a 40 ore.

Il decreto citato, dopo aver stabilito i limiti entro i quali deve essere contenuto il tempo della prestazione lavorativa, esclude dall’applicazione di detti limiti, tra gli altri dipendenti, con la tecnica legislativa del rinvio alla disposizione originaria, anche il personale direttivo.

La ragione dell’esclusione di detto personale dalle regole sull’orario di lavoro va ricercata, con ogni probabilità, nel fatto che le mansioni direttive (e/o dirigenziali), a causa del loro carattere particolare, non possono essere predeterminate in modo rigido.

In particolare, con riferimento al dirigente (che senza ombra di dubbio rientra nella nozione di personale direttivo), l’esclusione di cui al r.d.l. n. 692/1923 implica la conseguenza che, non essendo possibile parlare di lavoro straordinario, a questi non spetta alcun compenso per il superamento dell’orario di lavoro.

L’art. 1, comma 2, del r.d.l. n. 692/1923 (convertito nella legge n. 473/1925,) (nonché l’art. 1, n. 4, legge n. 370/1934 sul riposo domenicale e settimanale), è stato riconosciuto costituzionalmente legittimo dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 101/1975, purché sia salvo il rispetto dei limiti imposti da criteri di “ragionevolezza”.

La giurisprudenza ha precisato, a questo proposito, che l’esclusione del detto compenso opera a condizione che il dirigente fruisca effettivamente di quella autonomia operativa che gli consenta di organizzare liberamente la gestione del proprio tempo lavorativo, senza alcuna imposizione esterna e che, in via generale, dipende dalla corrispondenza delle mansioni in concreto assegnate al lavoratore a quelle previste dalla disposizione definitoria di detto personale (art. 3, n. 2, r.d. n. 1955/1923), non potendo certo derivare dal dato formale del conferimento della qualifica né, tantomeno, dal solo esonero esplicito dall’obbligo di utilizzare il badge magnetico o, addirittura, di sottostare alle limitazioni di orario.

Anche per il dirigente, peraltro, è individuabile un limite quantitativo nello svolgimento della sua attività: questo consiste, come detto, in un equilibrio accettabile delle prestazioni eseguite.

Il limite in parola, in concreto, coincide con la quantità di lavoro che può essere tollerata dal lavoratore senza che ne derivi alcun pregiudizio per la sua salute psico-fisica, ed è di volta in volta verificato dal giudice, con riferimento alla natura delle funzioni esercitate dal dirigente ed alle effettive esigenze di servizio proprie del settore nel quale opera l’azienda. In altre parole, dunque, le prestazioni del dirigente non devono assumere dimensioni temporali contrarie alla prassi aziendale o, comunque, abnormi o, ancora, in contrasto con la tutela, costituzionalmente garantita, del diritto alla salute (Cass. 12367/2003; Cass. 11616/1999), fermo restando che il dirigente deve provare non solo l’effettiva prestazione di lavoro straordinario ma, in mancanza di una specifica previsione collettiva o individuale di un “tetto” massimo dell’orario lavorativo, “il superamento del limite di ragionevolezza dello stesso, in quanto determinante un’usura psicofisica del dipendente” (Cass. 5598/1987; Cass. 6145/1985), e che grava sul datore di lavoro, che abbia eccepito la discontinuità del lavoro, l’onere di fornire la relativa prova (Cass. 2363/1989).

La conseguenza è che, per il personale direttivo, l’accertamento giudiziale circa la proporzionalità della retribuzione alla qualità e quantità del lavoro prestato, deve essere riferito al trattamento economico “complessivo” erogato e non alle singole voci, correlate più o meno espressamente alla presenza del lavoratore in azienda, derivandone che, anche nel caso in cui si sia superato il limite della ragionevolezza, il diritto al compenso per lavoro straordinario è escluso se tale più gravosa prestazione risulti già remunerata dal complesso degli elementi retributivi corrisposti. Sul punto, la giurisprudenza, per un caso specifico, ha avuto modo di affermare che, laddove i dirigenti fruiscano di una “indennità funzioni direttive” per le prestazioni eventualmente rese oltre le quaranta ore, in quanto svincolati da limiti di orario di lavoro, non hanno diritto a percepire lo straordinario e le relative maggiorazioni, con la conseguenza che le maggiorazioni riferite allo straordinario non sono pertanto applicabili.

Laddove, invece, anche tale accertamento risulti negativo, al dirigente, ove il limite della ragionevolezza risulti superato, spetta il risarcimento del danno, che può essere determinato dal giudice in una quota percentuale dello stipendio relativo al periodo contestato, ovvero essere parametrato alla maggiorazione per lavoro straordinario prevista nel contratto collettivo applicato in azienda per la generalità degli altri lavoratori (Cass. 2070/1992).

Già in passato, comunque, nell’ipotesi in cui il superamento del normale orario di lavoro risultasse tale da compromettere l’integrità psico-fisica del dirigente, la giurisprudenza riconosceva il diritto ad un compenso per il lavoro straordinario svolto dal medesimo  (Corte cost. 101/1975, cit.; Cass. 604/1986).

In tempi più recenti si è andato affermando un orientamento che riconosce il diritto al compenso per lavoro straordinario anche quando l’entità del superamento dell’orario di lavoro sia tale da rendere la prestazione lavorativa – seppur non lesiva dell’integrità psico-fisica – comunque particolarmente gravosa ed usurante (Cass. 3680/1990; Trib. Milano, 25 gennaio 1992).

Alla stregua di tali principi, per esempio, se venisse considerata usurante l’attività lavorativa che fosse prestata oltre 11 ore al giorno (che si avvicinano al limite legale massimo del lavoro giornaliero per la generalità dei lavoratori dipendenti, individuabile in 13 ore), con la valutazione di 10 ore quale limite normale nel settore di attività del dirigente, valutate tutte le specifiche circostanze del caso concreto, allo stesso spetterebbe il compenso per lavoro straordinario di un’ora al giorno (ovvero, 5 ore alla settimana). Il relativo meccanismo di calcolo è replicabile in relazione al quantum di ore in eccesso rilevabili nei singoli casi concreti.

I relativi giudizi valutativi, come si può vedere, sono alquanto delicati e, sul punto, la parola decisiva spetta al prudente apprezzamento del Giudice chiamato a decidere sul caso concreto. In altre parole, non possono enuclearsi metodi automatici di rilevazione e determinazione delle soluzioni ipotizzabili.

A cura di: Pasquale Dui

Profilo Autore

Avvocato - Partner presso DV-LEX DUI VERCESI & PARTNERS Studio Legale - Professore a contratto di diritto del lavoro - Revisore Legale - Giornalista pubblicista

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