Il lavoro che cambia: contro o con l’innovazione?

Cos’è la Quarta Rivoluzione Industriale?

Il cambiamento che viviamo è senza precedenti, così intenso e pervasivo che Klaus Schwab, fondatore e presidente del World Economic Forum, non esita a indicarlo come la Quarta Rivoluzione Industriale. Tutte le rivoluzioni, anche le precedenti, sono state segnate da grandi innovazioni, ma quella che apre il Terzo Millennio presenta alcune caratteristiche che la distinguono decisamente dalle altre. Innanzi tutto la “velocità” con cui sta travolgendo tutti i settori, il loro modo di produrre e organizzare il business e il lavoro, forse anche la nostra vita. Le precedenti rivoluzioni – quella meccanica che ha consentito la nascita dell’industria, la seconda rivoluzione che ha reso possibile la produzione di massa e uno sviluppo del benessere su larga scala e la rivoluzione elettronica e informatica – hanno viaggiato con “velocità lineare”, questa corre invece a “velocità esponenziale”. Secondo Schwab, oltre alla velocità, la Quarta Rivoluzione Industriale poggia su altri due pilastri: portata e intensità, da un lato, impatto sui sistemi dall’altro Riguardo il primo, “la trasformazione si fonda sulla rivoluzione digitale e combina diverse tecnologie, dando luogo a cambi di paradigma senza precedenti sia a livello individuale, sia in termini economici, aziendali e sociali. Suddetto cambiamento non riguarda solo il “che cosa” fare e il “come”, ma anche il “chi” siamo”.

E cosa dire dell’impatto? E’ enorme perché il cambiamento in essere “riguarda la trasformazione di interi sistemi, Paesi, aziende, settori e le società in generale”. Basti pensare all’uso diffuso di Internet e alla possibilità che non solo le persone, ma anche gli oggetti, possano accedere e dialogare con un sistema (Internet of Things – IOT) che forma un’immensa sfera interconnessa. Una ricerca del World Economic Forum del 2015 a tal proposito segnala che nel 2022 saranno connessi a Internet oltre 1000 miliardi di “sensori”. D’altro canto oggi l’interconnessione tramite cellulare, smartphone, tablet ecc. é estremamente “facile” e sempre più a “buon mercato”. Così tutti, persone e oggetti, diventiamo produttori e costruttori della società dei big data, che rende disponibili miliardi e miliardi di dati, fonte della nuova ricchezza, che vanno elaborati, correlati e interpretati. C’è anche un altro fattore di discontinuità: è rappresentato dall'”intelligenza artificiale” e dall’uso di robot e “intelletti sintetici” come li chiama lo scienziato e imprenditore Jerry Kaplan in un bel saggio intitolato Le persone non servono. Gli “intelletti sintetici” sono macchine che imparano, probabilmente anche capaci di sviluppare un linguaggio proprio quando interagiscono tra loro e di sostituire molto lavoro umano.

Che effetti avrà la trasformazione sull’occupazione?

Le domande che questo scenario solleva, come è facile comprendere, sono numerose e stanno occupando sempre più il dibattito pubblico. Che impatto avrà questa rivoluzione sull’occupazione e sul modo con cui lavoreremo nei prossimi anni? I robot, oltre che sollevare uomini e donne dai lavori più faticosi e accrescere la produttività, potranno aiutarci a costruire anche un mondo più giusto socialmente? Quanto spazio lasceranno all’uomo? Riusciremo a controllarli o saranno loro a prevalere?

Sono domande complesse che non consentono approcci affrettati, richiedendo piuttosto competenze multidisciplinari e profondità di analisi. Riguardo alle implicazioni che la Quarta Rivoluzione Industriale avrà sull’occupazione, semplificando molto possiamo dividere gli studiosi tra pessimisti e ottimisti. I primi pensano che nei prossimi 10-20 anni nei paesi sviluppati dell’occidente sarà a rischio di automazione circa metà dei lavori attuali. I secondi ritengono invece che quest’effetto “distruttivo” interesserà mediamente un 10% dei lavori. Aldilà di questi esiti diversi, dovuti soprattutto al fatto che si fondano su differenti metodologie di analisi come evidenziato da un paper dell’OECD dello scorso anno, tutti sono concordi nel ritenere che la tecnologia avrà effetti negativi sul mercato del lavoro, quantomeno nel breve periodo. La questione più delicata, infatti, è che questa trasformazione è così veloce che non lascia tempo al sistema di riqualificare (reskilling) con altrettanta velocità i lavoratori “disoccupati”. Né d’altro canto la “nuova” occupazione, che anche questa trasformazione come quelle che l’hanno preceduta sta creando riesce a compensare da sola l’effetto distruttivo (disoccupazione tecnologica) che comunque comporta. Il problema dunque c’è e richiede risposte decise e coraggiose. Decise, perché non possono essere frammentate ma coinvolgere invece organicamente tutte le componenti interessate (formazione, investimenti, reti di tutela e accompagnamento, legislazione di sostegno ecc.); coraggiose, perché devono essere scelte di lungo periodo che, come tali, non danno ritorni apprezzabili a decisori interessati a riscuotere crediti nel breve. Un aspetto non di poco conto perché richiede visione e sapienza.

Come cambierà il lavoro. Alcune questioni

C’è poi la seconda grande questione delineata in apertura. Come cambieranno le condizioni di lavoro con le nuove tecnologie che lasciano immaginare lavori sempre più numerosi “senza luogo” e “senza tempo”? Come abbiamo già scritto in questo Magazine, infatti, perde centralità il luogo dove si presta il lavoro che può essere ormai svolto ovunque, anche fuori dell’azienda o dagli uffici, purché si abbia una connessione e la possibilità di accedere ad archivi dati comuni (qui ci viene in aiuto il cloud computing). La flessibilità consentita dalle innovazioni tecnologiche, però, porta con sé anche la perdita di centralità di un’altra tradizionale componente del lavoro: il tempo. Perché dovremmo essere ancora vincolati a un orario di lavoro, a timbrare il cartellino, a organizzare la nostra vita e quella della famiglia in funzione di un vincolo che ora la tecnologia sembra rendere inconsistente? Potremo finalmente lavorare con più intelligenza, ovunque convenga e quando si voglia. Autodeterminando il lavoro che vogliamo, forse, potremo anche essere più felici.  Siamo entrati così nel mondo dello smart working e in prospettiva dell’enterprenurship diffusa, le cui applicazioni – anche grazie a un’intensa attività della contrattazione collettiva – si stanno sempre più diffondendo in tutte le industrie coinvolgendo oramai numerose decine di migliaia di lavoratori. Non sfuggirà come questa evoluzione – ecco di nuovo tornare la portata straordinaria della Quarta Rivoluzione Industriale – stia travolgendo in definitiva i pilastri (luogo e orario di lavoro) del “lavoro subordinato”, lasciando immaginare un futuro dove i “dipendenti” saranno sempre meno (magari quelli che “dipenderanno” da un solo datore di lavoro) e cresceranno invece lavoratori autonomi, freelance, micro-imprenditori. Alcuni vantaggi sono evidenti, come la flessibilità e la possibilità di autodeterminare il lavoro, almeno in parte. Caratteristiche queste molto apprezzate e ricercate dalle nuove generazioni. Secondo uno studio di BCG, infatti, la ricerca di indipendenza sarebbe il fattore motivazionale più importante per un sempre maggior numero di persone, soprattutto tra i Millenials e la Generazione Z (ossia i nati dalla fine degli anni novanta) che sembrano meno attratti dalle carriere tradizionali e maggiormente orientati invece a ricercare percorsi di imprenditorialità e di self-employment. Evidentemente, ci sono però anche numerosi aspetti da valutare con attenzione e grande prudenza. Per esempio: come saranno allocati i rischi della impossibilità di lavorare per malattia, disabilità ecc.? Il lavoro sarà pagato soltanto “a risultato” come oggi è retribuito il lavoro autonomo o anche in parte “a tempo” secondo le regole del lavoro dipendente? Il reddito che se ne ricaverà sarà sufficiente? Chi rappresenterà questi nuovi lavoratori e nei confronti di chi? Come evitare che questa trasformazione porti con sé – invece che nuovi diritti rimodellati per tener conto delle nuove esigenze – una più accentuata “precarizzazione” del lavoro e nuove aree di suo sfruttamento?

La vera sfida: interrogarsi sulle conseguenze della trasformazione per vivere bene “tra algoritmi e robotica”

Sono questioni di straordinaria complessità e concretezza per la vita delle persone. Per questo meritano seri approfondimenti, anche per ricercare risposte che – senza scoraggiare il cambiamento incentivando improduttivi sentimenti di paura verso l’innovazione – possano valutare invece con consapevolezza le conseguenze. Con quali finalità? Per consentire di assumere le scelte più appropriate ad accompagnare il percorso di umanizzazione della vita che dovrebbe rappresentare, senza alcun dubbio, l’obiettivo di fondo (e il criterio misuratore) di ogni progresso. In questa cornice, sono in molti anche a chiedersi allora se l’innovazione porterà maggiore giustizia sociale o se invece aggraverà la situazione di diseguaglianza sociale ormai insostenibile cui siamo giunti. Non è più tollerabile, infatti, che la ricchezza continui a concentrarsi sempre più in poche mani. I robot – verso cui si sposterà sempre più capacità produttiva – potranno aiutarci ad attivare un più efficace processo di redistribuzione? E ancora: proprio perché i robot diventeranno la fonte principale di produzione della ricchezza, cresce il numero di studiosi che pensano vadano immaginate forme di condivisione diffusa della loro proprietà in modo da garantire una sorta di “dividendo tecnologico” per tutti che possa aiutare a vivere “tra algoritmi e robotica”.

L’innovazione è inscritta nel nostro DNA

Che fare allora? Dobbiamo armarci “contro” l’innovazione seminando paura e ricercare vie di fuga, o piuttosto valorizzarne le potenzialità controllandone l’uso perché applicazioni senza sapienza e prudenza non feriscano l’umanità e i principi di eguaglianza e dignità di tutte le persone? E’ possibile allearsi “con” l’innovazione sottoscrivendo patti con i suoi molteplici e globalizzati protagonisti? Andare “contro” l’innovazione ci sembra un andare contro la vita, il suo fluire e, in definitiva, contro la storia dell’umanità. L’uomo, fin dalla nascita, si è adoperato sempre per migliorare il mondo innovando, ingegnandosi, trovando soluzioni per accrescere benessere per sé e le generazioni successive. L’innovazione in altre parole è inscritta nel nostro DNA. Quello che bisogna comprendere, per governarle, sono invece le implicazioni e l’uso della tecnologia. Solo questa consapevolezza diffusa, che passa attraverso investimenti cospicui, duraturi e di alta qualità in istruzione e cultura, può aiutarci a dare il “senso di marcia” al futuro per trovare risposte appropriate alla straordinaria complessità delle questioni che abbiamo di fronte a noi. E le risposte sono appropriate soltanto quando mettono al primo posto la persona e la ricerca del bene comune. E questo non dipende dai robot, ma solo da noi.

Suggerimenti bibliografici

  • AA.VV., Reddito garantito e innovazione tecnologica. Tra algoritmi e robotica, Asterios, Roma, 2017
  • BCG (The Boston Consulting Group), Twelve Forces That Will Radically Change How Organizations Work, 2017
  • Kaplan Jerry, Le persone non servono. Lavoro e ricchezza nell’epoca dell’intelligenza artificiale,  LUISS University Press, 2016
  • OECD, The Risk of Automation for Jobs in OECD Countries. A comparative analysis, 2016
  • Schwab Klaus, La quarta rivoluzione industriale, Franco Angeli, Milano, 2016
  • WEF (World Economic Forum), Deep Shift. Technology Tipping Points and Societal  Impact,  2015

A cura di: Gabriele Gabrielli

Profilo Autore

Executive Coach e Consulente, docente di HRM & Organisation alla LUISS Guido Carli, Professor of Practice in People Management alla LUISS Business School, Presidente Fondazione Lavoroperlapersona (www.lavoroperlapersona.it)

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