Sebbene il corredo normativo di riferimento in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro sia, attualmente, il d.lgs. 81/2008, s.m. o i., e sia stato, precedentemente, negli ultimi anni a decorrere dal 1994, il d.lgs. 626/1994, in uno scenario notoriamente riferito a principi comunitari, non può comunque ritenersi “esiliato” il dettato normativo dell’art. 2087 cod. civ., di piena matrice nazionale e codicistica, a mente del quale “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
La personalità morale, di per se stessa, a rigore, non ha tradizionalmente goduto di forme specifiche di tutela nel panorama normativo italiano, sul quale si è affacciata la previsione dell’art. 2087, che, quanto meno, ha indubbiamente il merito di aver colmato una significativa lacuna dell’ordinamento.
In generale, la differenza tra l’idea di fatica – e stanchezza – fisica, e fatica – e stanchezza – psichica, non corrisponde, ad una precisa categoria concettuale e, soprattutto, medica. Quello che può affermarsi con una certa sicurezza è che gli eccessi e così i lunghi periodi di situazioni psicologiche non esternate ma trattenute, sono in generale cause importanti di malessere e, dunque, tecnicamente, di malattia. In particolare due sono gli stati emotivi considerati causa diretta di quello stato generale del corpo che si definisce astenia:
Se queste sono le manifestazioni e le conseguenze per il lavoratore ascrivibili all’ipotizzato comportamento (contrattualmente inadempiente, come noto) del datore di lavoro, nel ricercare i fenomeni relativi sui quali ha concretamente influito la norma dell’art. 2087, dando la possibilità alla giurisprudenza di intervenire nonostante il vuoto normativo di norme specifiche, non vi è dubbio che gli esempi paradigmatici sono – ancora oggi – costituiti dalle molestie sessuali e, soprattutto, dal mobbing.
In particolare, come noto, parlando di mobbing ci si riferisce alla violenza psicologica nell’ambito del rapporto di lavoro, caratterizzata dalla azione diretta – o indiretta, attraverso terzi, dipendenti o meno – del datore di lavoro, secondo un preciso schema di reiterazione e continuazione, qualificata da un evidente intento persecutorio. Le relative condotte del datore di lavoro, come detto lato sensu persecutorie, possono poi nella realtà quotidiana realizzarsi e manifestarsi con tipologie svariate, sempre accomunate, peraltro, dalla modalità aggressiva e vessatoria e dalla manifestazione prolungata nel tempo. Lo scopo perseguito dal datore di lavoro, generalmente, oltre all’infliggere nocumento fine a se stesso (caso tutt’altro che teorico), è quello di preordinare ed ottenere, col trascorrere del tempo, dapprima una estromissione dall’organigramma aziendale e, dunque, una emarginazione, successivamente l’espulsione, attraverso le dimissioni per esasperazione (se non un licenziamento sulla base di situazioni disciplinari provocate in realtà dal datore di lavoro stesso).
L’azione del datore di lavoro (e/o dei colleghi del lavoratore/vittima) per essere attratta nella definizione/qualificazione del fenomeno idonea a costituire una base minima di tutela a favore dell’interessato deve, come detto, manifestarsi continuativamente, con più atti, in un arco di tempo sensibilmente significativo, individuato, generalmente, nel semestre pieno: sono dunque escluse dalla tutela altre situazioni non caratterizzate da questo requisito ed ascrivibili alla generica categoria delle temporanee situazioni conflittuali, ai contrasti gerarchici di diversa natura, in quanto verosimilmente ascrivibili al contenuto specifico dell’esecuzione del rapporto di lavoro ed alla relativa dinamica di comunicazioni e contatti.
Volendo citare alcuni esempi di condotte vessatorie e mobbizzanti tra le più diffuse e significative, anche secondo il quadro che ne offre la giurisprudenza (non tralasciando di ricordare come il mobbing possa concretarsi, secondo la giurisprudenza, in una serie di atti ciascuno dei quali, isolatamente considerato, sia formalmente legittimo ed apparentemente inoffensivo), posso ricordare: emarginazione del lavoratore, in genere, con vuoti di comunicazione e palesi manifestazioni di ostilità diffusa (negare informazioni relative all’attività lavorativa, o fornirne errate); ostacolo o sabotaggio nell’esecuzione del lavoro; minacce esplicite, intimidazioni o manifestazioni di disprezzo; quotidiane critiche sul lavoro svolto e, in genere, sull’operato del lavoratore; insulti e reazioni ostili; molestie sessuali (comportamenti, allusioni, apprezzamenti); trasferimenti “punitivi” o, comunque, immotivati; manifestazioni offensive caratterizzate da assoluta mancanza di rispetto; visite fiscali di malattia inutilmente reiterate; dequalificazione professionale con adibizione a compiti esecutivi e mortificanti in relazione alla figura professionale rivestita in azienda; protratta inattività forzata del lavoratore; sanzioni disciplinari o procedimenti disciplinari reiterati con carattere persecutorio ed immotivato; ritmi di lavoro insostenibili. Tutti questi comportamenti sono generalmente rivolti al personale di ogni ordine e grado e, a differenza di quanto si possa credere, anche a quello con qualifica dirigenziale, in misura tutt’altro che infrequente.
I profili risarcitori del danno arrecato al lavoratore attraverso i suddetti comportamenti, ed altri che abbiano le caratteristiche tali da essere ascrivibili alla fattispecie del mobbing, come fonte di danno a carico del lavoratore/vittima generano un correlato obbligo risarcitorio a carico del datore di lavoro, sia in via diretta che in via mediata, qualora l’attività che abbia prodotto il danno sia stata posta in essere dai colleghi del lavoratore (mobbing orizzontale). Le relative implicazioni, nel caso di cooperazione fra datore di lavoro e colleghi della vittima o, più in genere, sottoposti del datore di lavoro, si articolano secondo i criteri tipici della responsabilità civile, così come scaturenti, a seconda dei casi, dall’art. 2087, dall’art. 2043 o dall’art. 2049 cod. civ., senza escludere, se del caso, l’art. 2056 o, da ultimo, l’art. 2059, per quanto ivi disciplinato: il mobbing, infatti, secondo qualche pronuncia di merito, può configurare il reato di tentata violenza privata, ex art. 610 cod. pen. (nonché il reato di maltrattamenti – severamente punito – di cui all’art. 572 cod. pen., nel testo modificato dalla legge 172/2012, seppure ritenuto applicabile in un contesto aziendale non articolato ma solo nell’ambito di realtà di stretta comunanza di lavoro).
Più specificamente, dai comportamenti di mobbing può scaturire innanzitutto un danno di natura biologica: questo si verifica nel caso residuino postumi indennizzabili, che, verosimilmente, si riferiranno alla sfera psico-fisica in forma di somatizzazioni, soprattutto di natura depressiva. Conseguenza ulteriore, diretta ed immediata, di queste alterazioni è il danno alla vita di relazione (esistenziale) che viene a manifestarsi nell’impatto di queste alterazioni della salute permanenti o, comunque, gravi e di lunga durata, sull’ambiente familiare e, più in genere, sull’ambiente di vita (quanto detto senza prescindere dalle regole generali sull’onere della prova, specificamente per quanto attiene al nesso di causalità, che, generalmente, rappresenta il nodo cruciale del sistema di tutela).
Se questo è lo scenario normativo, fenomenico e giurisprudenziale nel quale si presenta il mobbing, vorrei ora accennare ad un istituto che evoca nominalmente le problematiche che ho sin qui descritto e che, nella logica dei temi affrontati in questo scritto, si inserisce in quanto richiamato da una norma specifica del decreto 81/2008, citato in premessa.
L’art. 28 (Oggetto della valutazione del rischio), nel comma 1 dispone che nel D.V.R. devono essere valutati tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori “ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004”. Nell’art. 32 (Capacità e requisiti professionali degli addetti e dei responsabili dei servizi di prevenzione e protezione interni ed esterni), poi, si legge che, per lo svolgimento delle funzioni di R.S.S.P. è necessario frequentare appositi corsi di formazione, ivi meglio specificati, “in materia di prevenzione e protezione dei rischi, anche di natura ergonomica e da stress lavoro-correlato di cui all’art. 28, comma 1”.
L’accordo-quadro europeo di cui si parla è stato recepito il 9 giugno 2008 dalle parti sociali.
Al punto 3 del suddetto accordo, lo stress viene definito “una condizione, accompagnata da sofferenze o disfunzioni fisiche, psichiche, psicologiche o sociali, che scaturisce dalla sensazione individuale di non essere in grado di rispondere alle richieste o di non essere all’altezza delle aspettative”.
Così descritto e riguardato in una prima accezione interpretativa, tale “stress”, in effetti, può essere conseguenza dell’azione di fattori esterni, sicuramente idonei a causare come risultato finale una diminuzione sensibile dell’efficienza sul lavoro, ed in questo caso il problema può effettivamente essere al di fuori della sfera di azione o, comunque, di controllo del datore di lavoro. Laddove, diversamente, i fattori determinanti possano qualificarsi come interni all’ambiente di lavoro e, conseguentemente, causalmente connessi a tale ambiente o, in senso più generale, come detto sopra, ascrivibili alla sfera di azione e/o influenza deterministica del datore di lavoro (organizzazione del lavoro, ambiente di lavoro, difetti di comunicazione interna, contenuto del corredo mansionatorio, etc.), il fenomeno deve essere riguardato in una ben diversa visuale, comportando, all’evidenza e supposto il suddetto fattore causale, quanto meno un principio di responsabilità, da qualificare e specificare nelle dovute modalità.
La questione, in effetti, si prospetta, come detto in premessa, già in sede di elaborazione del D.V.R., che deve contenere, stante la previsione legale specifica che non pone, al riguardo, margini interpretativi di applicazione, l’indicazione delle misure necessarie per eliminare il rischio da stress e, ove ciò non sia possibile, le modalità, azioni ed interventi per una riduzione alla fonte.
Si ritiene, perlopiù, per entrare più in dettaglio con qualche dato ed esempio, che le fonti principali dello stress da lavoro-correlato siano soprattutto rinvenibili nei rischi ambientali o psico-sociali. Tra i rischi ambientali si enumerano la rumorosità, le vibrazioni, le carenze igieniche ambientali, il microclima, etc.; tra i rischi psico-sociali si ricomprendono, in generale, quelli specificamente presenti nel contesto dell’attività lavorativa: modalità di sviluppo della carriera, relazioni interpersonali, mobilità interna ed esterna; equilibrio lavoro/tempo libero e vita privata, ritmi di lavoro, tipologia delle mansioni, etc.
Non sfugge all’esame della normativa ed alle considerazioni esposte che il fulcro della tutela contro i rischi in parola gravita innanzitutto sul datore di lavoro, che, normalmente, opererà con la collaborazione e con la partecipazione dei lavoratori e del R.L.S. nell’attuazione delle misure di prevenzione, individuali e/o collettive, idonee, nello specifico scenario e contesto aziendale, ad eliminare o, quanto meno a ridurre al minimo il rischio. Questo fermo restando il principio che la responsabilità può essere esclusa solo dalla programmazione concreta di una politica aziendale specifica in materia di stress lavoro-correlato.
La apparente sovrapposizione di concetti e tutele, così come riguardabile nell’esposizione delle due figure descritte, può indurre qualche dubbio sulla esatta individuazione delle due fattispecie del mobbing e del rischio di stress lavoro-correlato.
Ogni incertezza può essere agevolmente superata sulla base delle seguenti, finali e schematizzate considerazioni:
A cura di: Pasquale Dui
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