La leadership da necessità organizzativa a dimensione emozionale

Elemento costitutivo di tutti i gruppi sociali, la leadership è stata al centro dell’interesse di studio dei maggiori esponenti del pensiero organizzativo, da Barnard, a Merton, da Selznik a Simon, ed Etzioni.

Per leadership intendiamo la “capacità di influenzare i membri dell’organizzazione al fine di far conseguire un determinato obiettivo esplicitando gli scopi, fornendo i mezzi per raggiungerli, facendo leva sulle motivazioni”[1].

Obiettivo della leadership è massimizzare ciò che Barnard definisce l’area di disponibilità degli individui a perseguire gli scopi dell’organizzazione, con senso del dovere e professionalità, ma soprattutto con appagamento.

Tuttavia, poiché si tratta di uno dei comportamenti organizzativi più studiati e oggetto di una pluralità di lavori teorici ed empirici, attribuire un significato univoco alla leadership non è certamente un compito di semplice portata.

I primi studi teorici sulla leadership si sono concentrati soprattutto sulla componente soggettiva, ovvero sulle qualità personali del leader di successo.

In seguito, dalla fine degli anni Quaranta del Ventesimo secolo, gli studi hanno cominciato a considerare gli aspetti relazionali della leadership passando da una visione tradizionale, secondo cui l’andamento del gruppo è funzione delle caratteristiche della personalità del leader (approccio innatista[2]) e del suo stile di direzione (approccio comportamentista[3]), ad una concezione che analizza la leadership alla luce dei modelli situazionali o sistemici, sottolineando l’interdipendenza tra le diverse componenti strutturali (leader, gruppo, contesto).

L’approccio situazionale, infatti, afferma che la leadership diventa efficiente nella misura in cui si sofferma ad esaminare aspetti come il clima interattivo, le risorse necessarie, la chiarezza e il conseguimento degli obiettivi.

L’attenzione si è, dunque, spostata dalla personalità e dai comportamenti del leader alle variabili di contesto, ritenute determinanti per l’emergere della sua figura all’interno di un gruppo. Sono molteplici, infatti, le interpretazioni datene dagli studiosi in relazione all’aspetto analizzato (dalla figura del leader, alle persone che accettano o subiscono il potere d’influsso, sino al contesto sociale o situazionale entro cui il potere è esercitato).

Diversamente dai primi studi, per i quali il gruppo è il fattore determinante, per l’approccio situazionale decisivo diviene ciascun follower. La leadership è quindi funzione di ciascun individuo con cui il leader interagisce: maggiore è l’apprezzamento del leader verso i singoli followers, più questi ultimi miglioreranno la loro performance. L’approccio situazionale ha il pregio di enfatizzare il concetto di flessibilità del leader, che deve essere in grado di adattarsi ad ogni situazione peculiare, pur registrando il limite di sopravvalutare il contesto, riducendo, al contrario, il ruolo stesso del leader, considerato un attore passivo.

A partire dall’ultimo decennio del Ventesimo secolo, “il ritmo sempre più incalzante delle innovazioni e della globalizzazione impongono alle organizzazioni di attrezzarsi per interagire adeguatamente alla nuova complessità ambientale”[4]. Si afferma così, un ulteriore filone di ricerca, quello della leadership trasformazionale, che evidenzia la capacità del leader di dar vita ad un cambiamento sociale.

L’influenza del leader trasformazionale si basa sulla sua abilità a ispirare e far aumentare la coscienza dei singoli follower appellandosi ai loro ideali e valori più alti. Ciò che rende la leadership trasformazionale è la capacità del leader di porsi in sintonia con gli altri membri del gruppo, creando un legame di motivazione e di moralità. Ciò che connota il leader trasformazionale è, dunque, la sua capacità di promuovere dei cambiamenti radicali nella cultura delle organizzazioni, oltre che nella gestione delle risorse umane. Come argomentato anche da Bass, “nella leadership trasformazionale ciò che è centrale non è tanto la capacità del leader di ottimizzare la qualità dello scambio sociale tra le due parti in gioco (leader e collaboratore) quanto piuttosto la sua capacità di influenzare la crescita umana e professionale del collaboratore, attraverso l’estensione del suo sistema di bisogni, il cambiamento dei valori organizzativi, la trasformazione di atteggiamenti[5]”. A tal proposito Karl Weick afferma che in ogni impresa il vero leader non è “un contabile”, bensì un evangelista, cioè colui che indica agli altri il significato delle cose. Ciò equivale a dire che per realizzare il necessario impegno (commitment), ogni attore organizzativo deve essere coinvolto nella vita simbolica, ancora prima che operativa, dell’organizzazione[6].

Studi ancora più recenti hanno dimostrato come le competenze e le abilità tecniche non siano sufficienti al fine dell’eccellenza lavorativa, poiché sono necessari carattere, personalità, intelligenza emotiva[7]. Goleman, principale sostenitore del valore dell’intelligenza emotiva, riconosce l’importanza delle emozioni poiché parte ineliminabile di ogni azione umana. Ciò dimostra l’importanza di prestare attenzione alle cosiddette “qualità soft”. Pur non sottovalutando le “qualità hard” efficaci, ad esempio, per incrementare l’efficienza organizzativa, al buon leader è richiesta la capacità di coniugare entrambe le qualità.

Nell’interminabile confronto tra razionalità ed emozione, il concetto di intelligenza emotiva “sembra costituire la ricetta per coniugare al meglio le due dimensioni, da sempre ritenute inconciliabili, per una felice gestione delle dinamiche intersoggettive[8]. Si è rilevato, infatti, che i migliori leader sono quelli che:

  • dimostrano di essere abili nella comunicazione schietta e proattiva;
  • sono in grado di articolare chiaramente la ratio e la necessità del cambiamento, malgrado le difficoltà che derivano dai periodi di transizione;
  • sanno ben ascoltare e dimostrano sensibilità quando trattano con i propri collaboratori.

Un bravo leader deve saper gestire le emozioni del gruppo e guidarlo verso un obiettivo comune, creando un’atmosfera positiva e di reciproco aiuto e supporto. Ciò avrà un impatto positivo sulla cultura organizzativa ed influenzerà i lavoratori ad operare con più motivazione e maggiore impegno, tenendo lontano il rischio burn-out e il mobbing, fenomeni spesso indotti dai ritmi organizzativi contemporanei.

Palesare il livello emozionale nell’analisi organizzativa è una delle esigenze prioritarie di un paradigma che si pone in modo alternativo all’imperante razionalismo. L’azienda non è un contenitore privo di passione: entrarvi significa mettere in moto una serie di sentimenti, dal coinvolgimento per il proprio lavoro, all’invidia, o semplicemente all’indifferenza nei confronti della propria occupazione o di quella altrui. L’analisi della leadership non può quindi essere scissa della dimensione emozionale, che la informa in modo determinate nella costruzione ed assunzione di ruoli, nello svolgimento dei compiti, nell’esercizio del potere, nell’assunzione di decisioni.

Note

  • [1] Battistelli F., (2008), Manuale di sociologia militare, FrancoAngeli, Milano, pp. 55-56.
  • [2]L’approccio innatista ha dominato gli studi sulla leaedership dalla fine del XIX secolo sino alla metà del XX secolo. Cfr. Stogdill R. M. (1948), “Personal Factors Associated with Leadership: A Survey of the Literature” in Journal of Psychology, 25, pp. 35-71. Inoltre, tra i diversi studi, strettamente collegate ad una visione della leadership di taglio genetico-evoluzionista, sono alcune dimensioni della personalità espresse nei Big Five, ossia l’identificazione di cinque grandi fattori della personalità. I Big Five sono: nevroticismo, estroversione, apertura, amabilità, coscienziosità. Secondo questo studio, in particolare l’estroversione sembra essere un tratto ricorrente nei leader di successo, che tendono ad essere socievoli, energici e piacevoli con gli altri. Per un’attenta disamina dei vari studi basati sulla relazione leadership –tratti della personalità cfr. Tosi H. L., Pilati M. (2008), Comportamento organizzativo, Egea, Milano, pp. 10-12 e p. 266.
  • [3] All’interno di questo approccio Lewin, Lippit e White ne hanno individuato tre principali stili: a) autoritario, consistente in un elevato controllo sui membri del gruppo e nella loro esclusione dal processo decisionale; b) democratico, in cui il leader esercita una funzione di guida, favorendo la piena partecipazione del gruppo alle varie fasi del processo decisionale; c) laisser-faire, caratterizzato da uno scarso controllo del leader ed ampi spazi di autodeterminazione da parte dei subordinati. Cfr. Lewin K. et al. (1939), “Patterns of aggressive Behaviour in experimentally created social Climates”, in Journal of Social Psychology, 10, pp. 271-299.
  • [4] Battistelli F., op. cit., p. 57.
  • [5] Bass M. B. trad. it. (1975), Psicologia e guida degli uomini nelle organizzazioni, FrancoAngeli, Milano, p. 79.
  • [6] Battistelli F., op. cit., p. 57.
  • [7] Goleman D. trad. it. (2000), Lavorare con intelligenza emotiva. Come inventare un nuovo rapporto con il lavoro, Bur, Milano, p. 33.
  • [8] Si veda su queste tematiche si veda Fireman S. (2000), Emotion in Organizations, Sage, London, ma anche Lodedo C. (2005), La dimensione emozionale della cultura organizzativa, Manni, Lecce.

 

Articolo a cura di Vanessa De Giosa

Profilo Autore

Dottore di ricerca in Sociologia e docente a contratto di Sociologia del lavoro e delle organizzazioni presso l’Università del Salento, si occupa anche di cultura e comunicazione, svolgendo attività di studio su teorie organizzative e metodologie della ricerca.
Attualmente Capo Ufficio Piani Formazione e Sviluppo competenze, è stata nominata componente di UniSalento in seno all’assemblea del Consorzio Interuniversitario sulla Formazione CO.IN.FO.

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