La didattica del leader

Leader e leadership sono per lo più associati a motivazione, volontà, mission, vision. Di rado ad essi si collega il concetto di “didattica”. Eppure è alquanto frequente che, in alcuni contesti professionali, il leader sia anche colui/colei che trasmette ai nuovi arrivati conoscenze e competenze. In pratica, in queste circostanze, è proprio il leader ad insegnare ai principianti il “mestiere”.

Immaginiamo, ad esempio, un team di venditori diretti, di esperti di informatica, di operatori di call center o qualsiasi altra tipologia professionale che – almeno in dati momenti del processo lavorativo – chieda al leader di tradursi anche in didatta e formatore. Quando si verificano queste condizioni, è opportuno che il leader rispetti alcuni principi che sono imprescindibili per qualsiasi buon insegnante:

a) non metterla sul personale;
b) non cercare talenti ma sostenere la normalità;
c) non insegnare il proprio metodo di lavoro ma il metodo;
d) favorire la personalizzazione del metodo, da parte dei singoli componenti dello staff, fermo restando il rispetto dei principi teorico-esperienziali su cui quello stesso metodo si poggia e da cui esso deriva;
e) elaborare efficaci ed efficienti strategie sia di trasmissione del sapere che di monitoraggio della sua applicazione da parte dello staff.

Riflettiamo, ora, su ogni singolo punto di questa sintesi.

  • Non metterla sul personale.

Questa affermazione, per quanto risulti semplicistica e banale, costituisce un pilastro dell’esercizio della leadership e a cui sono connessi tutti gli assunti sottoelencati.

“Non metterla sul personale”, in sostanza, vuol dire che il leader orienta il suo intervento verso il comportamento dei suoi follower e non sui loro caratteri, ossia il loro modo di considerare se stessi, gli altri, il mondo in genere. Queste sono certamente variabili che influenzano la qualità della prestazione eppure è proprio compito del leader far sì che esse non prevalgano sulle procedure e sui metodi di lavoro. Lo scopo della leadership è costruire le condizioni materiali e, specialmente, immateriali che permettano al team di produrre al meglio delle proprie capacità e possibilità. Non si tratta, perciò, né di cercare “consenso” né di favorire “crescite personali”.

Nel primo caso si rischierebbe di generare uno stile di leadership compiacente o competitivo, teso più a far sì che il gruppo aderisca al mainstream dell’organizzazione che a fornire gli strumenti cognitivi necessari alla realizzazione della meta aziendale. In soldoni, la ricerca del consenso rischia di portare il leader a preoccuparsi più che al team piaccia quel che fa che di insegnargli come deve farlo.

Il mito della crescita personale, poi, retaggio new age degli anni ‘80/’90 del secolo scorso, concentra l’esercizio della leadership sulla componente motivazionale del processo produttivo che, in tal modo, resta sempre più personalizzato e connesso ad una variabile spesso difficile da definire. Non a caso, infatti, spesso “motivazione” viene intesa come sinonimo di “volontà”. Si tratta, invece, di due variabili che si escludono a vicenda: se c’è motivazione, ossia attrazione verso l’obiettivo, non c’è bisogno che ci sia volontà. Questa è la forza a cui bisogna ricorrere, e sollecitare, proprio quando manca la motivazione.

  • Non cercare talenti ma sostenere la normalità.

La didattica del leader, essendo finalizzata alla costruzione delle condizioni funzionali alla produttività del team, non contempla la cura del talento e ciò per alcuni fondamentali motivi:

  1. non è sempre chiaro cosa sia il talento. Per quel che ci riguarda, con questa denominazione intendiamo la capacità di svolgere i propri compiti ottenendo costantemente risultati eccellenti e con il minor sforzo possibile e nel minor tempo possibile. Il talentuoso è veramente tale se risulta in grado di realizzare simili performance costantemente e in qualsiasi condizione (variazioni di prodotto, di tipologia di target di riferimento, di ambiente di lavoro, di composizione dello staff). La pratica quotidiana porta ad affermare che questo tipo di talento, in azienda, raramente è presente. Qualora lo sia, si tratta di un’entità autonoma e che non necessita nemmeno del leader.Più di frequente nelle organizzazioni esistono validi professionisti che, per tradurre in risultati il loro talento, necessitano di particolari condizioni materiali ed anche immateriali. Tra queste ultime c’è proprio la “normalità” degli altri membri dello staff. L’obiettivo privilegiato della leadership è occuparsi della crescita professionale proprio dei normali, coloro che, infine, rappresentano la vera spina dorsale della produzione aziendale.
  2. Il talentuoso è spesso, professionalmente parlando, egoista. Non si cura dell’attività altrui a meno che non sia in qualche modo funzionale alla sua.
  3. Non è un esempio, anche se spesso viene considerato tale dal management. Il talentuoso è tale in base a peculiarità prettamente personali che lo conducono ad adottare stili professionali altrettanto personali e, in quanto tali, non estendibili agli altri membri dello staff.
  4. Il talentuoso raramente si accorge dei cambiamenti che avvengono intorno a lui/lei e, pertanto, mette in atto le sue metodiche anche quando esse risultino obsolete e così facendo va verso l’insuccesso. In tal caso si blocca senza comprenderne il perché o attribuendo a cause esterne il suo fallimento.
  • Non insegnare il proprio metodo di lavoro ma il metodo.

È forte la tentazione di trasmettere agli altri il proprio modo di fare le cose, specialmente se quel modo ha prodotto esiti soddisfacenti tanto da condurre il professionista ad assumere il ruolo di leader.

Ogni didatta/formatore/istruttore sa bene che tale spinta è da tenere costantemente sotto controllo onde evitare di produrre, qualora fosse poi possibile, dei propri cloni. Questo assunto vale anche per il leader, naturalmente, che spesso è tentato di fornire ai suoi follower le soluzioni ai problemi che lui/lei avrebbe adottato in quella stessa situazione o che ha messo effettivamente in atto. Non necessariamente la medesima strategia vale per il discente, che avrà certamente carattere/attitudini/motivazioni ed aspettative diverse rispetto al suo leader  e che, dunque, ha bisogno di elaborare una sua autonoma modalità per mettere in atto il metodo.

  • Favorire la personalizzazione del metodo.

Pertanto il leader si trova ad agire in due direzioni: da un lato favorire l’apprendimento di strategie operative ben definite, strutturate, sperimentate, monitorate. Dall’altro incoraggiare la rielaborazione personale, da parte del singolo professionista, della stessa metodologia, che non può che essere arricchita dall’apporto di qualità emotive, cognitive e comportamentali individuali e diverse. In sostanza la leadership, particolarmente nell’azienda moderna, deve giungere ad un bilanciamento tra la regola oggettivata dal management e la creatività personale del singolo follower.

  • Elaborare efficaci ed efficienti strategie sia di trasmissione del sapere che di monitoraggio della sua applicazione da parte dello staff.

Questo è il segmento più operativo della didattica del leader. Si tratta di definire le metodologie di insegnamento e di verifica, sia sul campo che, lì dove necessario, nell’aula di formazione. Le metodiche assumono forme e contenuti diversi a seconda del tipo di professione a cui esse si applicano. Sono schemi che includono regole ben definite e sempre valide, così come prevedono variazioni in linea con i mutamenti socio-economici che, oggi più che mai, accompagnano ogni attività professionale.

 

Articolo a cura di Alfonso Falanga

Profilo Autore

Formatore specializzato in Analisi Transazionale.

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