La creatività come presupposto per governare l’organizzazione flessibile

“L’organizzazione è come un Rolex”. Molte volte si è potuto sentire ripetere a lezione questa affermazione per rendere esplicito – con riferimento alla metafora dell’organizzazione che trae spunto dagli studi sul taylorismo – che ogni singola parte del complesso meccanismo che rende un Rolex un orologio prestigioso è essa stessa un gioiello.

È di tutta evidenza come una tale visione dell’organizzazione, fondata sulla suddivisione dei compiti in operazioni semplici e standardizzate, favorisca ripetitività e regolarità delle attività, presupposto necessario a soddisfare quel bisogno di precisione, generatore di affidabilità e di efficienza che è a fondamento della concretezza dell’adempimento.

In questo contesto, tuttavia, siamo davanti a soggetti che nell’organizzazione si trovano a dovere rispondere a prescrizioni; sicchè il loro impegno individuale risulta “diretto” da regole che ne limitano e comprimono le esigenze di crescita intellettuale con la conseguenza che il loro ruolo risulta ridotto proporzionalmente alla responsabilità connessa al compito. In un tale contesto diviene elemento motivante il compenso, che risulta rapportato all’aderenza alle prescrizioni ricevute[1].

La classificazione dell’organizzazione alla stregua di una macchina esclude che vi possa essere una qualsivoglia interconnessione tra quanti siano nell’organizzazione e gli obiettivi dell’organizzazione stessa con la conseguenza che, raggiunto il risultato sperato, l’organizzazione non avrebbe ragione di sopravvivere.

Obiettivo dell’organizzazione deve essere, invece, la propria sopravvivenza. Sovviene a questo proposito l’apologo che la mitologia romana attribuisce al console Menenio Agrippa[2], con cui lo stesso, raccontando l’episodio delle membra ribellatesi contro lo stomaco con danno di tutto il corpo (simboleggiando nelle membra i plebei e nello stomaco i patrizi), nel 494 a.c. sedò la rivolta dei plebei mostrando come la loro secessione producesse bensì la rovina dei loro oppressori, ma non risparmiasse la propria. Sì, perché l’organizzazione altro non è se non un sistema che, come conferma Edgar Morin, si origina per la “associazione combinatoria di elementi diversi”[3]. Piace particolarmente che l’autore abbia scelto di mutuare un termine tecnico per sostanziare il concetto del legame tra le varie parti che costituiscono l’organizzazione, che dunque assurge al ruolo di “sistema” (vivente) atteso che la combinazione, nel linguaggio della scienza (dei chimici) altro non è se non l’unione di più corpi eterogenei, dai quali risulta un corpo omogeneo dotato di proprietà autonoma.

Appare di tutta evidenza allora che la sopra-vivenza dell’organizzazione (la sua esistenza come sistema) è direttamente collegata alla consapevolezza di essere, in senso olistico, un soggetto che ha un’anima[4] in quanto in grado di interagire con l’ambiente per rivedere costantemente le strategie valutandone l’efficacia, al fine di fornire risposte adeguate alle esigenze di adattamento del sistema: modus operandi deve diventare quindi la flessibilità.

È questa la concezione “organicistica” dell’organizzazione: come un organo vivente, infatti, essa risulta possedere il vantaggio di adeguarsi spontaneamente alle situazioni; le persone (non i soggetti, gli individui) che la costituiscono sono incoraggiati ad adattarsi alle mutevoli richieste del mercato modificando le proprie competenze in funzione delle necessità e con le modalità che valutino più convenienti[5].

L’organizzazione “sistema” (vivente) meglio di altre si presta al concepimento e alla realizzazione di progetti complessi e unitari e pronta a rispondere alle sollecitazioni verso il cambiamento, forte della consapevolezza che la modifica si un sotto-sistema ha ripercussioni, più o meno prevedibili, su altri sotto-sistemi[6].

Per conseguire un simile obiettivo serve che l’organizzazione sia presidiata da un processo dinamico, sensibile ai problemi e in grado di produrre idee. In altri termini, risulta necessario che il management (nella metafora dell’organo, la testa) dia spazio alla creatività, che risulta essere uno degli aspetti psicologici che costituisce la più potente fonte di energia e di motivazione al conseguimento degli obiettivi dell’organizzazione[7].

La creatività,  infatti, va intesa come il luogo di relazione in grado di offrire l’occasione per l’affermazione professionale e la crescita di tutte le persone che sono nell’organizzazione e che vivono relazioni e rapporti interpersonali.

Parliamo di una capacità legata all’intelletto e, dunque, all’inventiva e allo spirito di iniziativa, che non può prescindere dalla consapevolezza del doversi muovere seguendo quello che alcuni autori definiscono il “pensiero divergente”[8]: vale a dire la capacità di produrre una gamma di possibili soluzioni per un dato problema, in particolare per un problema che non preveda soltanto una risposta corretta (la flessibilità).

È facile rendersi conto che una simile virtù ha probabilmente un ruolo nell’atto creativo, che risulterà originale quanto più ampia sarà la gamma di possibilità che il management è in grado di produrre. Come sostiene Virginio Bertone, la creatività è l’abilità di pensare fuori dagli schemi, arrivando a conclusioni nuove e funzionali, adatte a risolvere un problema o cogliere un’opportunità[9].

Da qui l’affermazione che la creatività manageriale è indice di possibile successo[10].

 

Note

[1] Sull’argomento si veda Bonazzi G., Storia del pensiero organizzativo, Franco Angeli, Milano, 1991.

[2] Tito Livio, Storia di Roma (II,32), Zanichelli, Bologna, 1980.

[3] Morin E., Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer, Milano, 1993.

[4] Nella concezione olistica le proprietà del tutto non sono riconducibili a quelle delle singole parti.

[5] Bochicchio F., Di Sabato T., Apprendimento e cambiamento nelle organizzazioni, Libellula edizioni, Tricase, 2018.

[6] Oggero L., L’organizzazione è una metafora, Franco Angeli, Milano, 2004.

[7] Oggero L., cit.

[8] Valga per tutti il pensiero di Joy Paul Guilford. Vedasi: Guilford, J. P., The nature of human intelligence, McGraw-Hill, New York, 1967.

[9] Bertone V., Creatività aziendale, Metodi, tecniche e casi per valorizzare il potenziale creativo di manager e imprenditori, Franco Angeli, Milano, 1993.

[10] Si veda la ricerca svolta nel 1990 da Virginio Bertone su 60 aziende italiane, da cui è emerso che le aziende valutate come più creative nel 60-65% dei casi avevano raggiunto risultati reddituali più brillanti delle altre e, nel 75-80%, dei casi avevano ottenuto maggiore successo in termini di competitività.

 

Articolo a cura di Vanessa De Giosa e Tommaso Di Sabato

Profilo Autore

Dottore di ricerca in Sociologia e docente a contratto di Sociologia del lavoro e delle organizzazioni presso l’Università del Salento, si occupa anche di cultura e comunicazione, svolgendo attività di studio su teorie organizzative e metodologie della ricerca.
Attualmente Capo Ufficio Piani Formazione e Sviluppo competenze, è stata nominata componente di UniSalento in seno all’assemblea del Consorzio Interuniversitario sulla Formazione CO.IN.FO.

Profilo Autore

Docente presso la Scuola di Alta Formazione della UNINT- Roma e Collaboratore del Consorzio Interuniversitario sulla Formazione – Torino.
Già Direttore vicario della Ripartizione Risorse Umane di UNISALENTO e Professore a contratto dei Corsi di Laurea in Scienza dell'Amministrazione - Facoltà di Giurisprudenza di UniTELMA – Roma.

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