Intraprendere o lasciarsi organizzare?

Con la volontà affermiamo noi stessi, ma non sono poi così tanti quelli che lo fanno davvero.

“Volere” è espressione di vita. E’ attraverso la volontà infatti che decidiamo chi vogliamo essere, mettendo a terra le azioni necessarie per realizzare le progettualità più importanti per noi servendo i fini che con le stesse intendiamo perseguire. “Volere” è espressione di vita perché è con atti di volontà che affermiamo noi stessi creando uno spazio – prendiamo a prestito quanto scrive lo psicoterapeuta e filosofo Piero Ferrucci– che origina dalla lotta contro l’inerzia e la paura. Non tutti però hanno un’attitudine adeguata a compiere atti di volontà capaci di costruire questo spazio per affermarsi e realizzare ciò che si desidera. Anzi, la maggior parte degli individui, sappiamo bene, sembra piuttosto nascondersi. Non ama farsi vedere, discutere le proprie convinzioni e “intraprendere”. Preferisce rimanere in ombra e indistinta, una canna tra le altre che si confonde nella moltitudine. In molte persone prevale così l’attitudine a lasciarsi organizzare la vita da fattori che sfuggono al loro controllo. In questo senso sono privi di volontà, perché – scrive ancora Ferrucci – “la volontà significa riportare il locus di controllo (per lo meno in parte) dentro di noi”. Perché? Suscita sentimenti di rabbia questa situazione che dipinge la vita, nel significato che le abbiamo dato aprendo la riflessione, come una condizione di espressione di noi stessi che appartiene a pochi, di certo a una minoranza. Perché questa diversità tra gli individui che ci restituisce l’immagine di una umanità prevalentemente pigra?

L’umanità “imperfetta” che ha bisogno di capi.

Se l’umanità fosse stata perfetta, scriveva settanta anni fa Emmanuel Mounier, avrebbe certamente “vinto le pigrizie dell’automatismo. Ciascuno si sarebbe impegnato all’azione e alle responsabilità, ciascuno avrebbe preso l’abitudine della decisione e del rischio. Ma nell’umanità così com’è l’inerzia riporta un trionfo non indifferente sull’iniziativa, l’automatismo vince lo spirito di creazione, il gusto della tranquillità soffoca il senso vitale dell’avventura rischiosa”. E’ interessante notare che questa riflessione conduce il filosofo francese a discutere dell’arte del capo, o meglio delle “arti” di capo, “perché vi sono parecchi temperamenti di capi”. Tra questi vi è anche quello che vede il capo come “colui che prende su di sé il peso degli altri, il peso delle loro responsabilità incerte e deboli”. Secondo questa prospettiva, in altre parole, il capo è colui che ha “la vocazione di volere e di decidere per altri”. In questo senso chi guida si muove all’interno di uno spazio di affermazione che potrà essere più o meno vasto a seconda della dimensione dei suoi atti di volontà che erodono in qualche misura quello di chi rinuncia a essere ciò che si è cedendolo ad altri. E’ come se l’individuo pigro, rappresentativo della maggioranza degli individui, volesse restringere la propria identità se è vero, secondo quanto scrive Piero Ferrucci, che “la nostra identità è costruita dai singoli atti di volontà che noi facciamo”.  Così, se riduco gli atti di volontà finisco per ridurre anche lo spazio della mia identità che cedo per far posto alla volontà di altri.

Pigrizia e attitudine all’obbedienza: un territorio dove la leadership si espande.

Proviamo a calare questa riflessione nella prospettiva della leadership e del people management. Viene da domandarsi fino a che punto è bene assecondare questa “imperfezione” dell’umanità per farla diventare territorio di affermazione dei capi che avrebbero vita difficile se la pigrizia fosse combattuta e ridotta. C’è qualche limite che i “capi” dovrebbero rispettare in questo schema di gioco o piuttosto si tratta di cogliere appieno le potenzialità di tale atteggiamento alla passività diffusa tra gli individui per valorizzarne i suoi esiti performativi? E’ facile immaginare, infatti, che risiede probabilmente proprio in questa attitudine all’obbedienza della maggior parte degli individui il fattore principale di successo delle imprese che devono poter contare su un lavoro ben organizzato e disciplinato. Frederick Taylor l’aveva ben capito quando cercava di costruire su basi scientifiche il management. Ma oggi è ancora così? La trasformazione dell’economia, l’innovazione tecnologica e il cambiamento dei modelli di business sembrerebbero porre in dubbio i benefici di questa rinuncia degli individui alla volontà e all’assunzione di responsabilità che il suo esercizio comporta.  Non è forse questa l’epoca nella quale il successo delle imprese è garantito piuttosto da leadership aperte e distribuite lungo tutta la filiera produttiva? Non è forse questo il tempo in cui si cercano – attraverso coerenti modelli organizzativi e manageriali – responsabilità  maggiormente diffuse e collocate nelle periferie dell’organizzazione che ora diventano il centro nevralgico del suo funzionamento? Non è questa l’epoca dove si acclamano gli esiti di una più spinta autonomia delle persone, sollecitate da più parti ad andare in questa direzione, considerata fattore critico di performance eccellenti e sostenibili?

Come far convinvere nello stesso spazio comando e autonomia?

Attorno a questa riflessione “estemporanea” ruota, a ben vedere, uno tra i più complessi dilemmi manageriali della nostra epoca, reso ancora più critico dalle sue venature antropologiche e psicologiche che alzano l’asticella ben al di sopra dell’altezza posta dalle sfide della razionalità economica. Si tratta infatti di rileggere con nuove lenti la dinamica di due spinte opposte: da un lato, quella dell’umanità imperfetta descritta da Mounier che è propensa a restringersi nello spazio esiguo proprio della pigrizia, dall’altro, quella della “vocazione” di caricarsi dell’incuria altrui allargando lo spazio dove fare esercizio di volontà che diventa anche inevitabilmente esercizio di potere. Una frontiera dai confini incerti e scivolosi. Una strettoia angusta dove il sole riesce a malapena a farsi strada lungo i pendii rocciosi di questo dilemma. Come evitare che il differenziale di potere in mano ai capi soffochi la volontà degli altri (il cui esercizio, si diceva, costruisce spazi di affermazione e autonomia) che si vorrebbe invece incentivare? Come allenare i leader ad accogliere quello che il filosofo Luca Alici chiama il paradigma del “potere che cede per generare”? Come allenare d’altro canto gli altri (i tendenzialmente “pigri”) a cercare la giusta affermazione di se stessi per contribuire alla costruzione della società e alla generazione di valore? La questione complessa su cui stiamo discutendo, insomma, ruota attorno a come nelle imprese e nelle organizzazioni si possa generare – prendendo ancora un’espressione di Alici – tra l’antropologico e l’agire manageriale.

Far fiorire l’umano nell’economia e nel lavoro.

Si tratta di una questione che illumina bene, a mio modo di vedere, oltre che i termini di un intricato dilemma antropologico prima che manageriale, anche il fabbisogno emergente di una leadership dai contorni ancora non chiari, ma che l’evoluzione economica e culturale della società sembra evocare con forza. Si tratta di disegnare spazi nuovi dove poter, da una parte, fare avanzare con convinzione gli individui aiutandoli ad alleggerire il loro zaino dal peso di atteggiamenti pigri e passivi, dall’altra, fare indietreggiare leader e capi in modo da consentire l’affermazione di altri soggetti. Una costruzione per nulla facile perché toccando l’essenza misteriosa dell’umano, che è al tempo stesso possibilità di una generativa apertura ma anche possibilità di un rattrappimento improduttivo su se stesso, incrocia interessi e sensibilità diversi. Ma è una sfida che va accettata con la consapevolezza che si tratta di uno snodo centrale per far fiorire l’umano anche nell’economia e nel lavoro. E’ proprio di questi leader e capi “lottatori” che abbiamo estremo bisogno per riprendere quel percorso di umanizzazione del lavoro che molte storie, troppe storie, ci raccontano ormai essersi appassito per mancanza di acqua e luce. Abbiamo bisogno di leader e capi che – temprati dalla battaglia per occupare e ritrarsi dagli spazi di volontà – sappiano nutrire le imprese di quell’umano che resta il senso ultimo della vita, non solo organizzativa.

Suggerimenti bibliografici

  • Luca Alici, Patire e potere. Politica e questione antropologica, Morlacchi Editore, Perugia 2017, p. 214-215
  • Piero Ferrucci, La nuova volontà, Astrolabio, Roma 2014
  • Emmanuel Mounier, Trattato del carattere (Traité du caractère, Editions du Seuil, Paris, 1947), Edizioni Paoline, Roma, 1982, p. 592

A cura di: Gabriele Gabrielli

Profilo Autore

Executive Coach e Consulente, docente di HRM & Organisation alla LUISS Guido Carli, Professor of Practice in People Management alla LUISS Business School, Presidente Fondazione Lavoroperlapersona (www.lavoroperlapersona.it)

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