Innovation Manager: diffusione e caratteristiche di una figura professionale sempre più centrale

È tempo di Innovation Manager: tutti ne parlano e non c’è ambito in cui questa nuova figura professionale non venga evocata. È un ruolo tuttavia ancora giovane, che si sta inserendo nelle nostre imprese da qualche anno. Attraverso le ricerche dell’Osservatorio Startup Intelligence del Politecnico di Milano posizioniamo la diffusione dell’Innovation Manager intorno al 2014, anno in cui si avvia un’accelerazione alla sua introduzione nelle imprese italiane. Oggi è presente in oltre il 30% delle aziende con oltre 250 dipendenti.

Il 2019 è l’anno che ha in qualche modo consacrato questa figura nel nostro Paese, grazie anche al riconoscimento da parte del Ministero dello Sviluppo economico. Il MiSE ha infatti creato un albo dedicato per l’attuazione del voucher per le PMI e reti di impresa che intendono utilizzare un Innovation Manager per una consulenza di almeno 9 mesi. Sono circa 9000 gli Innovation Manager registrati all’albo MiSE, oltre 3000 le richieste pervenute e 96 i miliardi stanziati.

Ma di cosa si occupa l’Innovation Manager?
Lo abbiamo chiesto a 60 di loro attraverso una survey dedicata da cui emerge che la prima attività di cui si occupa, con più del 60% delle scelte, è l’attività di esplorazione delle opportunità. È spesso infatti un ruolo principalmente investigativo e di valutazione. Rappresenta l’interfaccia principale dell’impresa, sia con l’esterno sia tra le diverse funzioni aziendali, per l’identificazione di fonti e stimoli di innovazione, per cogliere segnali, conoscere nuovi interlocutori e valutare con il business nuove opportunità e nuovi ecosistemi.

Svolge poi un ruolo da regista dell’innovazione all’interno dell’organizzazione, gestisce il portafoglio dei progetti di innovazione e in qualche caso i budget, almeno per le prime fasi dell’innovazione, misura e valuta i risultati secondo nuove metriche. Si tratta di un insieme di attività emerse di recente nell’agenda dell’Innovation Manager e che indicano una crescente maturità del ruolo che include la governance dell’innovazione.

Infine l’Innovation Manager è l’evangelista, il change agent, a cui spetta la trasformazione dell’azienda per favorire il cambia­mento culturale verso un nuovo approccio all’innovazione più agile, aperto e imprenditoriale. È questa tuttavia la responsabilità che gli Innovation Manager ritengono più rilevante nel loro ruolo. Gli Innovation Manager sono quindi consapevoli che la loro funzione non ab­bia come obiettivo principale solamente gestire risorse o selezionare progetti, ma anche avviare e spingere un radicale cambiamento culturale e di mentalità all’interno dell’organizzazione, cercando di coinvolgere l’impresa in modo pervasivo.

Quali competenze deve avere quindi l’Innovation Manager per fare il suo lavoro?
Le capacità più rilevanti risultano essere la leadership, la capacità di motivare e ispirare e il change management. Nella nostra survey è un plebiscito, con il 73% delle scelte. Spesso nelle imprese l’attività svolta dagli Innovation Manager è fortemente ostacolata da problematiche culturali, come la sindrome del “not invented here”, la predilezione nei confronti dell’as-is, l’avversione al rischio e al cambiamento. Non sorprende quindi che sia fortemente sentita la necessità di avere leadership, per motivare le persone e spingere al cambiamento.

Al secondo posto troviamo curiosità, apertura mentale, flessibilità, capacità di apprendimento (70%). Si tratta di doti basilari per favorire la ricerca di nuove opportunità, riuscendo ad apprendere rapidamente dalle esperienze passate, essendo aperti e flessibili a valutare ed esplorare diverse opportunità.

Al terzo posto, indicata dal 60% dei rispondenti, troviamo visione strategica e di scenario, avere quindi la capacità di cogliere e captare anzitempo fenomeni che possono modificare l’ecosistema di riferimento, immaginando e scegliendo i trend che avranno un impatto determinante sui mercati in cui l’impresa opera o potrà operare, indicando la direzione che l’impresa deve seguire e motivando la propria organizzazione ad assumere questa direzione.

E poi l’Innovation Manager deve essere resiliente, non lasciarsi abbattere dai fallimenti e dagli ostacoli, imparare e costruire dagli errori.

Per usare una metafora, l’Innovation Manager è un combinazione di Mary Poppins e Indiana Jones: da un lato deve agire in punta di piedi, con persuasione e ascolto, stimolando il talento nascosto e lasciando il suo bagaglio agli altri; dall’altro lato deve essere capace di intercettare in modo impavido le novità, decriptando il futuro, senza arrendersi mai.

Sulla base dei tanti casi analizzati, non esiste un Innovation Manager per tutte le stagioni, ma tale figura deve approcciare l’innovazione secondo un modello contingente. Trattandosi di un abilitatore, deve sapersi trasformare col tempo.

Esiste una prima fase in cui l’Innovation Manager viene designato dal vertice aziendale, colto da un momento di realistica consapevolezza di urgenza, anche se a volte ancora vaga e senza chiari obiettivi. Ispirandoci al modello dei gruppi di Tuckman, è questa la fase del forming.

Inizia quindi una fase di prima perlustrazione in cui l’Innovation Manager svolge prime disordinate attività: si conosce qualche startup, si visita un incubatore, si prova a coinvolgere qualche collega. È la fase di storming: di poca coerenza, debole coordinamento e frequenti conflitti di competenza e tuttavia fondamentale per comprendere come impostare il nuovo modello operativo per l’innovazione e, quindi, per passare alla fase di norming. In questa fase si struttura progressivamente il nuovo modello con cui l’impresa fa innovazione, in termini di organizzazione, metodologie, metriche di valutazione, ecosistema, coordinamento interno, stage gate. È il momento in cui lanciare iniziative che coinvolgano le Line of Business come call4ideas, hackathon e poc, e mettere in pratica l’evangelizzazione. Questo conduce all’ultima fase, il performing, in cui si comincia a portare risultati concreti, a validare l’impianto definito, a migliorarlo attraverso la valutazione di indicatori. In questa fase l’evangelizzazione comincia a dare frutti con la diffusione della cultura dell’innovazione.

Prevediamo tuttavia un’ultima fase che chiamiamo de-forming in cui l’azione si è dimostrata così pervasiva e naturale che il ruolo dell’Innovation Manager diventa, per così dire, liquido. Non servono più strutture accentratrici e l’innovazione è cultura e processo diffuso nell’organizzazione.

L’Innovation Manager ha fatto bene il suo lavoro se sono gli altri a fare innovazione. Questo non significa che il suo percorso sia su un binario morto, anzi: se riesce nel suo compito, colmo di insidie, ostacoli e difficoltà, significa che è pronto per guidare l’organizzazione, come già alcuni casi ci mostrano.

 

Articolo a cura di Alessandra Luksch

Profilo Autore

Ingegnere, ha lavorato per 11 anni nella Direzione Sistemi Informativi di importanti gruppi multinazionali occupandosi principalmente di integrazione dei sistemi informativi e di sviluppo di progetti. Dal 2003 collabora con la School of Management del Politecnico di Milano come ricercatore senior nell’area Digital Innovation e Sviluppo Organizzativo; svolge attività in area HR management, ha svolto per molti anni supporto all’outplacemet; è Direttore degli Osservatori Digital Transformation Academy e Startup Intelligence degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano.

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