E’ praticamente più che superfluo ricordare che ci troviamo in un’epoca molto difficile in particolare per quanto riguarda il nostro Paese per ciò che concerne lo scottante tema del “lavoro”. Settori sempre più ampi della nostra società si trovano a dover affrontare il problema della disoccupazione o del declino del potere d’acquisto dei salari, tutti fattori che causano poi un effetto “loop” rilevante nella capacità di spesa e nella fiducia dei consumatori.
Poiché gli impieghi dove si richiedono elevate competenze e professionalità sembrano sempre più mete difficilmente raggiungibili, con pesanti ripercussioni sul fenomeno dei “cervelli in fuga”, molte persone qualificate si trovano nella necessità di ripiegare su lavori meno qualificati pur di poter portare a casa uno stipendio. Per questo motivo, sempre più spesso troviamo a svolgere lavori tutto sommato umili uomini e donne, ragazzi e ragazze ad esempio con titoli di studio di livello universitario. La cosa pone una serie di domande. Un numero sempre crescente di persone “high skilled” entrano in competizione (anche fra di loro) per lavori poco qualificati rendendo estremamente vulnerabile il destino delle persone “low skilled”. Inoltre l’espansione continua di nuove tecnologie, renderà sempre più precario ed incerto il futuro proprio di quei lavori “ultima spiaggia” che sono più esposti all’introduzione di sistemi di automazione di molte funzioni. Il problema è quale può essere il futuro di chi finisce con il perdere il proprio posto di lavoro poco qualificato. Tutto questo ha pesanti ripercussioni sul “valore” del lavoro che oggi sembra quindi diminuire sempre di più.
La sfida del domani è quindi non solo creare occupazione in uno scenario mutevole fortemente caratterizzato dall’evoluzione della tecnologia, ma fare in modo che si possa tutelare la dignità stessa del lavoro: insomma si tratta di creare delle traiettorie tecnologiche fondate sull’evoluzione di un’innovazione continua e sostenibile capace di generare un numero adeguato di posti di lavoro decenti e dignitosi per un ventaglio ampio e variegato di persone integrando la prospettiva quantitativa dell’occupazione con quella qualitativa. Se si considera allora un quadro così complesso e sotto molti aspetti oggi abbastanza deprimente, il problema dei “pointless jobs” appare in tutta la sua stridente paradossalità.
L’idea di “pointless jobs” è stata definita dall’antropologo David Graeber attraverso questa semplice domanda: “cosa accadrebbe se una certa categoria di lavoratori scioperasse per un periodo di tempo abbastanza lungo o sparisse del tutto?” Se la risposta è “niente” allora quella categoria di lavoratori rientra nell’alveo dei “pointless jobs”. Quando si parla di “categorie di lavoratori” si intende un gruppo di persone identificabili per le attività che (presumibilmente) svolge al di là della qualifica ricoperta (che può essere più o meno elevata: dagli operatori fino ai più alti dirigenti), dallo stipendio percepito (che può essere molto basso o decisamente molto alto) o dalle competenze professionali possedute. Insomma non importa “chi sei o “quanto guadagni” ma quello che “effettivamente fai”.
Secondo Graeber il problema dei “pointless jobs” deriverebbe sostanzialmente dal fallimento della predizione di Keynes secondo cui la tecnologia avrebbe dovuto farci lavorare tutti meno, guadagnare di più e farci vivere meglio. Gaeber nota che:
“la tecnologia è stata impiegata in tutti i modi per farci lavorare alla fine di più. Per conseguire questo scopo è stato necessario creare dei lavori in effetti inutili. Un numero sempre maggiore di persone, in particolare in Europa e in Nord America, dedicano tutta la loro vita lavorativa a svolgere compiti che personalmente sanno di non essere realmente necessari. Il danno morale e spirituale che viene da questa situazione è profonda. È una cicatrice attraverso la nostra anima collettiva. Di questo ancora praticamente nessuno ne parla”[1].
Bisogna considerare che effettivamente negli ultimi decenni il numero degli addetti prima in agricoltura poi nell’industria manifatturiera è sostanzialmente crollato (parallelamente ad un incremento notevole della produttività) mentre l’occupazione nel settore dei servizi e del management è fortemente aumentata. Graeber si è posto numerose domande non tanto sulla quantità, ma sulla qualità delle categorie professionali che, sulla base di questi trend storici, in questi decenni si sono marcatamente dilatate. In effetti con l’esplosione dell’economia dei consumi (almeno nei paesi più sviluppati) si è assistito alla proliferazione di attività lavorative che, come nota lo stesso Graeber, fondamentalmente non producono nulla né in senso materiale né in quello immateriale. L’evidente contraddizione che evidenzia l’antropologo inglese è che questo avviene proprio all’interno di un sistema economico che, per definizione, apparirebbe votato all’efficienza, all’innovazione, all’ottimizzazione dell’allocazione delle risorse umane, all’impiego di tecnologie avanzate, ecc… Insomma sembrerebbe che le professioni “inutili” si siano notevolmente diffuse rendendo oggi i sistemi capitalistici abbastanza simili alla vecchie economie di stampo sovietico, dove molte persone venivano pagate solo per il fatto che dovevano essere in qualche modo pagate. Il tutto poi avviene mentre sempre più uomini e donne (soprattutto giovani) che producono in senso materiale (ad es. nella manifattura) o in senso immateriale (ad esempio i maestri, i professori, gli infermieri, ecc…) sono sempre meno pagati mentre altri uomini e donne sono spinti ai margini o fuori del mercato del lavoro nonostante la loro preparazione professionale.
Graeber individua tre categorie di “pointless jobs”:
Il professor Peter Fleming della City University of London ha inoltre rilevato un paradosso molto particolare: “the more pointless the task, the higher the pay (più il compito è senza senso, maggiore è la paga). Non è quindi a caso che Graeber indichi questo genere di lavori anche come “bullshit jobs”; la traduzione è superflua.
Un “bullshit job” può essere quindi definito come un lavoro la cui domanda è stata artificialmente creata e la cui attività non crea alcun valore all’impresa o all’organizzazione (pubblica o privata) di riferimento. In particolare i bullshit jobs (la cronaca più o meno recente ne riporta parecchi casi) addirittura creano dei valori negativi per la società nel suo complesso come nel caso dei vari consulenti o dirigenti che hanno arricchito sé stessi o pochi azionisti facendo fallire le imprese da cui erano stipendiati gettando sulla strada centinaia di persone.
Per quantificare il valore di un lavoro si può fare riferimento ad alcuni parametri che si collocano all’interno di specifiche dimensioni analitiche:
Queste dimensioni possono essere descritte tramite due variabili: valore (dato oggettivo) e gratificazione (dato soggettivo) per essere riportate in un prospetto di analisi quali-quantitativa (tab. 1) per evidenziare gli eventuali lineamenti di un pointless o di un bullshit job. E’ evidente che i dati relativi ai valori sono più oggettivamente quantificabili, mentre la gratificazione è il risultato di una valutazione soggettiva.
Un pointless job avrà tendenzialmente livelli di valore e di gratificazione tutti piuttosto bassi in particolare la gratificazione ed il valore intrinseci. Un bullshit job invece avrà un valore intrinseco piuttosto basso, ma tutti gli altri valori piuttosto elevati. Un esempio di applicazione di un simile prospetto è riportato nella figura 1: si tratta di un pointless, un bullshit job o nessuno dei due?
Tab. 1: prospetto di valutazione quali-quantitativa
Indicatore | Valore | Gratificazione |
Intrinseco | ||
Economico | ||
Carriera | ||
Comodità | ||
Relazioni sociali | ||
Adeguatezza delle risorse |
Poiché sono presenti molti elementi di giudizio personale (considero la mia paga adeguata/inadeguata, il mio lavoro è utile/inutile, le risorse a mia disposizione sono appropriate/inappropriate, ecc…) è evidente che il risultato di questo tipo di analisi e auto-analisi non descriverà le proprietà oggettive di un certo tipo di lavoro, ma un mix di dati quantificabili numericamente, visioni, percezioni, elementi di soddisfazione/insoddisfazione, ecc… Non ci troviamo di fronte ad uno screening rigorosamente scientifico capace di stabilire con assoluta certezza se un certo tipo di lavoro è un pointless job, un bullshit job o meno. Certo è che però tutto questo può contribuire a far emergere alcuni interessanti elementi di riflessione. Dagli elementi indicati precedentemente ciascuno di noi può infatti capire da sé se sta svolgendo un pointless, un bullshit job o meno sulla base di alcuni punti:
Può capitare di domandarsi quale possa essere il significato ed il valore sostanziale del proprio lavoro o quello degli altri, andando al di là del mero calcolo della remunerazione economica. Ciò può accadere quando magari si sta seguendo l’ennesima inutile riunione o si sta svolgendo una mansione senza senso che produce risultati scarsi o nulli: se questa condizione si verifica abbastanza di frequente si potrebbero delineare i contorni di un “pointless job” (lavoro inconsistente) in cui la persona è sostanzialmente pagata per “sembrare occupata”. Peggio ancora è constatare la presenza di lavori molto ben pagati che non solo non apportano benefici a nessuno (se non al diretto interessato/a) ma spesso possono causare effetti nefasti (bullshit jobs). Queste situazioni appaiono come drammaticamente paradossali: il lavoro all’interno della cosiddetta “economia reale” ovvero quella che produce effettivamente dei beni e servizi appare sempre più sfruttato e sottopagato mentre un numero sempre maggiore di persone che lavorano nell’economia “non reale” (ovvero che non produce beni e servizi reali ma virtuali) appare sempre più destinataria di elevati vantaggi economici per non fare fondamentalmente nulla se non apparire come figure di prestigio come fantomatici manager, dirigenti o amministratori.
Il problema dei “pointless jobs” e dei “bullshit jobs” costituisce un momento importante per riflettere in modo critico e per ripensare il reale significato e valore del “lavoro”. Forse bisognerebbe cominciare a pensare che il valore di un lavoro o di una professione non può essere stabilito sulla base della busta paga o del titolo altisonante che gli viene affibbiato, ma dalla ricchezza materiale e immateriale che questo lavoro o professione possono apportare ad un’impresa, un’organizzazione, un’istituzione e alla società nel suo complesso.
NOTE
[1] David Graeber, ‘On the Phenomenon of Bullshit Jobs’, Strike! magazine, 2013.
A cura di: Carmelo Cannarella e Valeria Piccioni
Un tempo il compito di traghettare l'azienda verso il futuro tramite lo sviluppo di nuove…
Negli ultimi mesi causa il lento e inesorabile declino della redditività nella stipula delle Polizze…
Attiva da più di 30 anni e oggi parte del gruppo internazionale Zucchetti, Cybertec è…
Il focus sulla formazione professionale in Europa Nello spirito di favorire gli investimenti destinati a…
Nel complesso e volatile panorama aziendale odierno, le pratiche tradizionali delle supply chains non sono…
I dati sono chiari. L'Intelligenza Emotiva (EQ) è un fattore chiave di differenziazione per i…