Gruppo e leader: come si costruisce il “noi”

Innumerevoli studi psicosociali [1] hanno dimostrato il potenziale produttivo di un individuo quando opera, piuttosto che singolarmente, come membro di un gruppo. Riguardo al successo di molti fenomeni cruciali per la vita delle organizzazioni – leadership, la motivazione delle persone, l’empowerment, il commitment, l’identificazione in un obiettivo comune, la comunicazione, la persuasione, i processi di negoziazione e influenza, etc. – è stato dimostrato il ruolo che svolge il grado di appartenenza del singolo al “noi” o per meglio dire, all’identità sociale condivisa dal gruppo. Sia chiaro, non stiamo negando il valore dell’individualità quanto quella tendenza a sopravvalutarne l’autonomia; si portano come paragoni le azioni di certi individui e come hanno cambiato la sorte di una squadra, di un popolo, di un’azienda, di un progetto. Ci si dimentica però, ogni volta, del ruolo fondamentale che hanno svolto i gruppi di persone che ne sostenevano l’azione e solo grazie ai quali quei raggiungimenti sono stati possibili.

Nei nostri precedenti lavori abbiamo analizzato a fondo la leadership[2]; ne abbiamo studiato i segreti alla luce dei meccanismi legati all’identità sociale. In quest’articolo scaveremo all’interno delle dinamiche dei gruppi per osservare il momento cruciale in cui quest’ultima si struttura; quella fase delicatissima in cui il gruppo nasce e i singoli si riconoscono in questa entità collegiale, decidendo spontaneamente di contribuire a realizzarne il bene. Così da completare il quadro e fornire a tutti quelli che i gruppi li gestiscono, la possibilità di contribuire alla riuscita di questo processo e come conseguenza, al successo del proprio gruppo e della propria leadership.

Gruppi e appartenenze

Quando si parla di gruppi, tutti diamo per assodato cosa essi siano. Nell’ambito professionale ognuno di noi lavora all’interno di aziende, progetti, organizzazioni di vario tipo (sportive, ospedali, enti pubblici, albi, categorie professionali specifiche, etc.) e spesso si pensa che il farne parte sia più che sufficiente per considerarsi tali. Questi sono, è vero, insiemi di individui ma tutte le aggregazioni di persone possono considerarsi gruppi? Oppure c’è qualcosa che li caratterizza?

Secondo quella branca di studi, che più di altri, ne ha indagato la natura – la psicologia sociale – un gruppo è tale quando i membri che lo costituiscono sono legati da relazioni reciproche e interdipendenti; non basta che essi interagiscano – come quando siamo riuniti con altre persone all’ufficio postale e il vicino di fila ci guarda, scuotendo la testa, lamentandosi perché sfinito dai tempi di attesa – ma debbono essere connessi, interrelati e focalizzati intorno a degli ideali, scopi, pratiche, valori comuni nei quali essi si immedesimano. Ovviamente i membri, attraverso questa identificazione, debbono anche aver maturato la consapevolezza di far parte di quel gruppo[3].

L’insieme di tutto questo materiale (ideali, scopi, pratiche, etc.) è ciò che identifica quel gruppo all’interno del contesto socioculturale in cui esso opera e prende il nome di “identità sociale condivisa”. Questa lo rende non solo distinguibile da tutti gli altri gruppi ma gli fornisce regole e modelli che guidano gli atteggiamenti, i comportamenti che i membri, in maniera affina, adottano e grazie ai quali si riconoscono simili e riconoscibili agli occhi di chi li guarda da fuori. Immaginate un gruppo religioso, la sua identità sociale riguarda il culto, la forma religiosa dalla quale i membri traggono valori spirituali e civici, scopi espressi dal proprio sentimento religioso (espiare peccati, omaggiare l’Altissimo, etc.), pratiche (il modo in cui pregare, le modalità e l’ordine con cui si compiono gli atti rituali, le festività religiose con le funzioni sacre associate, etc.), precetti come ad esempio cosa mangiare e cosa no, i comportamenti da adottare, come vestire, alcune norme igieniche e così via.

Dobbiamo soffermarci ancora brevemente sul ruolo che l’identità sociale riveste per i singoli, poiché quando questo processo psicologico è attivo e un individuo si scopre, si percepisce più che in termini di singola individualità (“identità personale”) attraverso i tratti che costituiscono il gruppo sociale cui appartiene (quei valori, ideali, norme, etc., cui ci riferivamo poco fa), diversi studi[4] hanno provato che la persona, spontaneamente, è portata a mettere da parte i propri interessi per prendersi a cuore il bene del gruppo, per realizzarne gli obiettivi, anche quando questi confliggono con i propri.

Si tratta di un aspetto cruciale per la qualità del lavoro e delle performance del gruppo, poiché questa appartenenza influenza in maniera favorevole e significativa: la sua produttività; il modo in cui i membri comunicano, collaborano, reagiscono allo stress; il commitment di ciascuno di essi, i processi decisionali di gruppo e più in generale, l’influenza sociale tra membri; la tipologia, il carisma e il potere della leadership che si affermerà; la motivazione e la gestione dei conflitti, etc., etc., etc.. Quando, al contrario, questa identità non si coagula i gruppi restano tali solo sulla carta; poiché nella realtà, anche nei casi in cui i membri si riempiono la bocca con il “noi”, essi continuano a restare focalizzati solo su se stessi, quindi sui propri interessi e sui propri fini personali, esacerbando la competizione e i conflitti a discapito della salute del gruppo stesso. Il che determina tutta una serie di conseguenze nefaste.

Gruppi e “comunità di pratica”

Cosa deve fare chi guida il gruppo, per far sì che questa identità si formi beneficiando così dei suoi vantaggi?

Prima di ragionare sulla risposta, ricordiamoci che in questo articolo stiamo analizzando il caso in cui il gruppo, insieme al manager che ne guiderà le sorti, viene riunito per la prima volta su un preciso mandato (come avviene nei gruppi di lavoro o in quelli sportivi). Cosicché rispetto alle circostanze già affrontate nei nostri precedenti lavori[5]  – quello del gruppo già formato cui viene assegnato un nuovo manager a guida e quello in cui il leader emerge spontaneamente tra i membri stessi del gruppo – si aggiunge questa terza situazione a completamento del quadro che chi guida gruppi può trovarsi a dover affrontare.

La psicologa italiana, Cristina Zucchermaglio[6], partendo dalle conclusioni fruttuose di un filone di studi molto cospicuo – avviato dallo psicologo padre della Psicologia sociale George Herbert Mead – ha fornito innumerevoli spunti di riflessione sul come, chi guida gruppi, può agevolare la formazione di un’identità condivisa. Il riferimento è al lavoro di Étienne Wenger[7], il pioniere degli studi sulle comunità e l’ideatore della famosa definizione “comunità di pratica”, riferita a tutte quelle entità collegiali che vantano «una connessione pratica piuttosto che formale con il mondo»[8] organizzativo, dove producono aumento di efficienza e innovazione proprio perché basano la loro forza su un grado molto alto d’ingaggio, di motivazione, condivisione verso gli obiettivi, i valori, gli interessi della comunità[9].

Al centro di tutta questa visione si pone il valore inestimabile, in termini di acquisizione di competenze e produzione di valore, della partecipazione attiva dei singoli alla vita della comunità. Immaginiamo un’azienda con Funzioni e mandati organizzativi differenti, dove i dipendenti, di là dai diversi perimetri, volontariamente decidono di riunirsi in maniera informale e trasversale per risolvere un problema pratico sentito da tutti loro. Oppure pensiamo a una categoria di professionisti, dei project manager, che seppur provenienti da culture organizzative differenti sentono il bisogno di organizzarsi in una comunità per condividere conoscenze, saperi, esperienze e aumentare così le proprie competenze. Ebbene, gli elementi grazie ai quali queste comunità raggiungono il loro successo sono gli stessi che se riprodotti nei gruppi di lavoro formali, con i dovuti aggiustamenti poiché questi ultimi nascono da presupposti completamente diversi, possono senz’altro contribuire ad agevolarne la riuscita.

Alla luce di queste conoscenze, vediamo di seguito come un candidato alla leadership può patrocinare questa costruzione.

Vademecum per la formazione del “noi”[10]

I gruppi che nascono su un ingaggio esterno solitamente riuniscono le persone in funzione delle loro differenti competenze e queste, agli inizi, si presentano vestite delle sole proprie idee (su quello che sarà il lavoro da fare), le proprie aspettative (riguardo al valore che quella partecipazione riveste per loro), la propria scala di valori (sulla quale sono sancite le priorità anche in funzione delle passate esperienze). Il gruppo, in poche parole, non esiste se non formalmente; nella realtà, invece, i singoli debbono ancora negoziare il senso del loro stare assieme; l’identità sociale condivisa non si è ancora formata poiché non basta dire alle persone “siete stati scelti per fare questo”, poiché per aderire a qualcosa, esse debbono prima comprenderne il senso e ciò è possibile solo dove sono stati aperti spazi di confronto, dialogo, riflessione, discussione, approfondimento sugli scopi, i valori, le pratiche che rappresentano il gruppo.

Incontri, workshop, brainstorming, sessioni formative, etc., organizzati con questo fine serviranno alle persone per informarsi su tutti i temi principali che hanno a che fare con l’esistenza del gruppo. Questi discuteranno tra loro, raffrontando ogni volta i propri diversi punti di vista anche tornando più volte a ragionare sugli stessi aspetti (ma da prospettive differenti) così da chiarirne ogni volta meglio il senso[11]. Mentre tutto questo si svolge le persone, anche solo ascoltando i pareri degli altri, inizieranno a formulare una rappresentazione condivisa del lavoro che li aspetta e di quello che sarà, all’interno di esso, il loro preciso ruolo. Inoltre, il singolo inizierà a commisurare le proprie attese con quelle del gruppo, adeguandole di conseguenza.

Affinché quest’operazione abbia successo, chi guida il gruppo, deve preoccuparsi di far sì che tutto questo si svolga in un clima basato sul riconoscimento dell’“uguale valore delle differenze”[12], considerate una ricchezza inestimabile per il successo del lavoro di gruppo. In poche parole, i diversi punti di vista, esperienze, conoscenze di cui ogni membro è portatore piuttosto che frammentare il gruppo, diventano produttivi per lo stesso, in termini di innovazione, collaborazione, aiuto, solo quando è assicurata la paritarietà tra i membri. Di là dai ruoli, posizione gerarchica, cultura organizzativa, formazione, specializzazione, i membri debbono sentirsi liberi di esprimere i propri dubbi, cosa pensano e di discuterne con gli altri in un clima aperto di confronto e rispetto reciproco. Nello sforzo vicendevole di comprendersi si creeranno le basi per rendere fruttifera l’interazione futura.

Questo comporta, non solo, garantire un clima di equanimità rispetto ai diritti e ai doveri di tutti ma l’accesso paritetico a tutte le informazioni salienti che riguardano l’“impresa comune”[13], cosicché ciascuno abbia le medesime opportunità, in termini di analisi e valutazione, riguardo ai numerosi aspetti che il gruppo si troverà a dover affrontare e risolvere.

Questa elaborazione e poi comprensione, prepara le basi per quello che è l’ingaggio delle persone. In effetti, anche all’interno di un mandato preciso (dove sono già stati decisi molti degli aspetti che riguardano il gruppo: gli obiettivi, le risorse umane e non, i tempi, etc.) il dettaglio del lavoro da fare, sarà chiarito prima e durante lo svolgimento delle attività. Immaginiamo di far parte di un gruppo di progetto convocato perché l’azienda per cui lavoriamo, vuole sostituire alcune piattaforme informatiche con una nuova di ultima generazione. I processi saranno replicati? Oppure si coglierà quest’occasione per ottimizzare ciò che oggi non funzionava o addirittura, per introdurre nuove funzionalità e nuovi servizi? Quali sono gli aspetti prioritari da considerare in sede di migrazione dei dati? Queste priorità avranno impatti su altri processi? Nasceranno assunti o vincoli di cui il lavoro di progetto dovrà tenere conto?

Alcuni manager tendono a mettere le persone davanti al fatto compiuto, sostituendosi loro stessi in tutte le decisioni da prendere. In realtà si dovrebbe fare in modo di lasciare le risposte a tutti gli interrogativi che hanno a che fare con il lavoro di gruppo, sul gruppo stesso; al pari della responsabilità di individuare le soluzioni e le modalità migliori per affrontarli.

È in questo modo che le persone sentono, guidando scelte e decisioni, di essere rilevanti e di contribuire attivamente a determinarne il destino. Comprendono, inoltre, quale sia il proprio apporto e come questo, correlato a quello degli altri, sia importante per gli scopi da raggiungere. In questo modo emerge la funzione che ciascuno svolge come membro in relazione agli altri a esso collegati; il suo ruolo, le sue specificità e i legami, i meccanismi e le forze che lo collegano agli altri membri.

Il gruppo, in poche parole, si autodetermina, nasce come entità collegiale e quando quest’operazione è riuscita, le persone sentono quest’ultimo come proprio e se ne prendono a cuore il bene.

Questa libertà deve riflettersi anche a livello di pratiche.

L’identità di un gruppo non è costituita solo da valori e scopi ma anche, anzi soprattutto, da pratiche identitarie. Nell’accezione wengeriana la parola “pratica” abbraccia un concetto ampio che si estende ai linguaggi tecnici e specialistici, alle routine necessarie sul come organizzare e svolgere il lavoro (es. frequenza degli allenamenti, disciplina psicofisica, etc.), ai libri, alle conoscenze, alle metodologie, agli eventi ricorrenti che segnano momenti importanti per il lavoro che si va svolgendo, all’utilizzo di particolari strumenti, insomma tutto quel “repertorio condiviso” che rappresenta il collante di una data comunità e conferisce significato e senso a ciò che i suoi membri sono e fanno.

Non sottovalutiamo questo aspetto poiché, riprendendo l’esempio del gruppo religioso di poco fa, abbiamo visto come ogni membro dimostra la sua appartenenza proprio attraverso la partecipazione a queste pratiche.

Facciamo l’esempio dello Yoga, ci riferiamo alle posizioni yogiche (chiamate “asana”) che le persone assumono con il corpo. Queste sono testimoniate in libri antichissimi e scolpite nella pietra dell’esperienza religiosa indiana, ciò nonostante sono nate innumerevoli scuole intorno ad esse ciascuna delle quali anche quando ne ha rispettato l’essenza, le ha organizzate in percorsi unici e differenti. Diversi maestri hanno dato vita a scuole che oggigiorno hanno identità tra loro anche molto differenti, dove queste pratiche (insieme ai riti, all’uso dei mantra, etc.) sono riadattate su quella che è stata la visione e il trascorso personale di ciascun maestro. Ma la stessa cosa avviene nei diversi team, a fronte di una stessa disciplina sportiva e nei gruppi di lavoro; oggigiorno si parla di metodologie “Agile” per la conduzione dei progetti, queste prevedono una serie di prassi e strumenti specifici, routine giornaliere, un vocabolario tecnico. Ci sono corsi, esami, certificazioni che documentano l’idoneità di quella persona a quella professione; eppure, come ogni project manager sa bene, i gruppi di progetto che utilizzano questi metodi li riadattano continuamente alle esigenze specifiche dei progetti e dei praticanti. Omettendo, dove servisse, passaggi, istituendone di nuovi, creando nuove figure, eliminandone altre di là da quanto scritto nei manuali.

Il tutto perché le pratiche che si svolgono all’interno di un gruppo sono legate, tra le altre cose, alla sua vitalità, alla sua creatività e soprattutto al lavoro “pratico” che le persone svolgono. Debbono tenere conto certamente dei valori, delle culture organizzative, degli scopi ma al tempo stesso rispondere ai bisogni reali dei praticanti, alle necessità che nascono dall’interazione sociale e sono “vive” in quanto prendono una forma, perché rispecchiano tutta questa complessità. Da qui l’importanza, come nel punto precedente, di lasciare sul gruppo la libertà di organizzarle affinché tutti possano riconoscerle come proprie e affermare, tramite queste, la propria identità.

Chiaramente, quanto accennato, è l’inizio di un percorso che sta poi al gruppo e al suo o ai suoi leader portare a compimento. Sono i primi passi necessari che permettono ai singoli di dar vita a qualcosa di nuovo (l’identità del gruppo) per poi identificarsi in essa, avendo contribuito in prima persona a definirla. Nel frattempo il candidato alla leadership, mentre cerca di favorire la formazione di questo “noi”, deve saperne diventare il miglior interprete e rappresentante nei modi sui quali ci siamo già intrattenuti[14]. Cosicché gruppo da una parte e leader dall’altra, realizzino congiuntamente e pienamente il senso del loro essere unità e in quanto tali, affrontino tutte le sfide che da quel momento li attenderanno.

Note al testo:

[1] Per una rassegna dettagliata sugli studi psicosociali condotti su questi temi, si prenda come riferimento S.A. Haslam, “Psicologia delle organizzazioni”, Maggioli editore;

[2] Il riferimento è agli articoli, sul tema leadership, pubblicati su questo stesso sito. Il primo dal titolo “Costruire la propria leadership: carisma, potere e identità sociale”, il secondo titolato “Comunicare la propria leadership”;

[3] Un buon libro come introduzione allo studio dei gruppi è quello di G. Speltini, “Stare in gruppo”, Il Mulino;

[4] Si rimanda a quanto scritto in nota 1;

[5] Si rimanda a quanto scritto in nota 2;

[6] C. Zucchermaglio, “Cognizione al lavoro. Interazione Pratiche Comunità”, LED e C. Zucchermaglio, “Psicologia culturale dei gruppi”, Carocci;

[7] Per una panoramica sul generale sul lavoro di questo studioso, si legga Wenger E., Mc Dermott R., Snyder W.M., “Coltivare comunità di pratica”, Guerini Next e Wenger E., “Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità”, Raffaello Cortina Editore;

[8] C. Zucchermaglio, “Cognizione al lavoro. Interazione Pratiche Comunità”, LED, p.35;

[9] Si legga al riguardo nel nostro libro, il capitolo dedicato ai “gruppi”: R. Mandolini, “Project Management. Fondamenti psicosociologici di leadership e comunicazione nella gestione dei gruppi di lavoro”. Youcanprint;

[10] Per questa ricostruzione ci siamo ispirati a C. Zucchermaglio, “Manuale di Psicologia Sociale” a cura di G. Mantovani, cap.6, Giunti;

[11] Per approfondire il tema della costruzione del significato attraverso l’interazione comunicativa, si rimanda al nostro libro cit. in nota 9 oppure a questi due articoli:

https://www.leadershipcomunicazionegruppi.com/post/comunicazione_fondamenti

https://www.leadershipmanagementmagazine.com/articoli/comunicazione-e-leadership-il-noi-ad-ogni-costo/

[12] Questa meravigliosa espressione è stata tratta da L. Ferrajoli, “Manifesto per l’uguaglianza”, Laterza, 2018, p. 113, un libro che consigliamo a tutti di leggere;

[13] Si rimanda alla nota 10 e alle analisi che la Zucchermaglio ha fatto in quel contesto, utilizzando il lavoro di Wenger dove l’“impresa comune” è una delle tre condizioni che lo stesso ha identificato insieme all’“impegno reciproco” e al “repertorio condiviso”;

[14] Si rimanda di nuovo a nota 2;

 

Articolo a cura di Romina Mandolini

Profilo Autore

Romina Mandolini Classe 1971, certificata Project Management Professional presso il Project Management Institute (PMI), la più importante associazione internazionale di Project Management. Lavora presso un’importante azienda di Telecomunicazioni italiana dove ha ricoperto diversi ruoli e maturato un’importante esperienza in termini di partecipazione e guida di progetti e gruppi di lavoro. Laureata in “Comunicazione, Media e Pubblicità” continua i suoi studi di indirizzo psicosociale al di fuori del mondo accademico ed è impegnata nella diffusione di queste conoscenze, nell’ambito professionale. È autrice di due libri, l’ultimo “Project Management, Fondamenti psicosociologici di Leadership e Comunicazione nella gestione dei Gruppi di lavoro. (2021). Sensibile allo sviluppo del potenziale umano, si è dedicata allo studio della Philosophia Perennis e in questo contesto ha approfondito lo Yoga e le diverse forme di meditazione.
Cura il blog https://www.leadershipcomunicazionegruppi.com/

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