Lo sviluppo tecnologico, dobbiamo riconoscerlo, ha svolto un ruolo decisivo nel favorire l’engagement dei collaboratori, in quanto li ha resi protagonisti, autonomi e ha permesso loro di essere sempre più parte integrante di un meccanismo di co-costruzione nell’ambito dell’attività che svolgono. Questa esigenza, però, è andata di pari passo con la necessità sempre crescente che ognuno sente dentro di sé di contribuire direttamente alla realizzazione del sistema, soddisfacendo un’esigenza culturale che si è fatta più impellente negli ultimi tempi.
Chiariamo meglio questo punto. Un tempo per i collaboratori era sufficiente essere all’interno di una organizzazione, farne parte anche in modo passivo, per sentirsi integrati, oggi la persona ha assunto un’importanza maggiore rispetto al sistema di cui fa parte, che non è più l’unico riferimento.
Il motivo è evidente: pensiamo alla disaffezione ormai diffusa verso i partiti, le istituzioni e le stesse imprese. Se guardiamo bene, questa mentalità hanno contribuito a crearla proprio le imprese, mettendo al centro il cliente (interno ed esterno), favorendo la personalizzazione dei prodotti e facendo passare l’idea che non sia necessario accettare passivamente ciò che ci viene proposto ma che sia possibile e auspicabile contribuire, ognuno dal proprio punto di vista e secondo le proprie capacità, alla creazione di qualcosa di nuovo.
Grazie alla digital disruption, sono nati nuovi modelli di business. Il lavoro è cambiato, è diventato sempre più smart, le nuove tecnologie hanno aperto praterie per quanto riguarda le possibilità di innovazione, chi lavora all’interno di un’azienda ormai non si limita più a seguire le indicazioni che gli arrivano dall’alto, vuole metterci del suo, co-creare, anche perché le competenze non gli mancano. Ma non tutte le aziende sembrano essersene accorte.
E’ vero, l’organizzazione si modifica, cambia il rapporto tra collaboratori e manager, la gerarchia perde progressivamente senso rispetto a come l’abbiamo intesa in passato, si sviluppano altri sistemi a rete, crescono relazioni peer to peer, e chi lavora, per farlo bene, con passione, deve sentirsi realmente coinvolto (engagement) in quello che fa, deve capire il senso del suo lavoro, operare in massima trasparenza, godere di autonomia, fiducia, altrimenti il meccanismo è destinato a non funzionare o, addirittura, a bloccarsi. Questo le aziende ormai lo sanno, ma lo mettono in pratica?
Sembra proprio di no. E questa volta a dirlo è una ricerca scientifica svolta recentemente dall’IULM (i dati sono stati presentati l’11 aprile scorso) che ha affrontato il tema “Engagement e disengagement dei collaboratori”. La ricerca, svolta dal Working Group Employee Communication tra il 2016 e il 2018 ha coinvolto un campione di 375 imprese con più di 500 dipendenti e 147 collaboratori, con un supporto di 10 interviste ad esperti del settore. Da essa è scaturito un libro che riporta i dati della ricerca, a cura di Alessandra Mazzei che consigliamo vivamente. Secondo la ricerca, in Europa poco più di un collaboratore su due è “ingaggiato” e la situazione italiana va anche peggio. Ma ci torniamo dopo.
Partiamo dall’inizio e cerchiamo anzitutto di capire quando in un’azienda l’engagement è alto. Ci sono diversi fattori, ormai noti a tutti, che segnalano questo “stato di grazia” dei collaboratori. Riassumendo, possiamo citare i più importanti: l’alto livello di motivazione/soddisfazione, l’adesione al progetto dell’impresa, la fiducia nella gestione aziendale, il legame emotivo, la possibilità di offrire una partecipazione attiva e consapevole al raggiungimento degli obiettivi.
Ma non è solo questo. C’è chi parla anche di una nuova mentalità che si sta sviluppando nelle aziende più lungimiranti e cioè l’“intrapreneurship”, vale a dire la trasformazione dei dipendenti in imprenditori. Al punto che questa nuova definizione potrebbe quasi rimpiazzare la parola innovazione. Questo fenomeno dovrebbe partire dai manager e scendere a cascata ai livelli più bassi.
Ecco quel che ne pensa il prof. José d’Alessandro, della Business School della Luiss che su questo tema ha svolto interessanti ricerche: “Sembra che tutto quello che abbia valore sia creato da imprenditori, mentre i manager, i poveri vecchi manager, sembrerebbero capaci soltanto di disastri finanziari o nel migliore dei casi di ottimizzazione. Quindi l’unica via sembrerebbe quella di portare gli imprenditori in azienda o di trasformare i manager in imprenditori. Più facile a dirsi che a farsi, ma esistono approcci ormai consolidati che possono aiutare le aziende a decidere le condizioni sotto le quali e le modalità per realizzare questo cambiamento che è soprattutto culturale”. Per chi volesse approfondire il tema può leggersi l’intervista che lo stesso professore ha concesso a “Capoverso”.
E non basta, ancora. Oggi, l’engagement, sempre di più, si allarga fino a contemplare il benessere soggettivo che è un insieme di aspetti diversi e concomitanti che riguardano, oltre al lavoro (reddito, clima, percorso di carriera, ambiente, ecc.) anche la vita personale e le valutazioni soggettive della persona (soddisfazione in ambito familiare, affettività).
Recenti sviluppi in questo ambito, hanno discusso la possibilità di integrare il concetto di engagement lavorativo con l’idea di benessere soggettivo individuale per arrivare al concetto più esaustivo e determinante di full engagement che tiene conto anche di un work-life balance, un giusto equilibrio tra lavoro e vita privata. Comunque sia, è su tutti questi elementi che ormai si gioca il vantaggio competitivo delle imprese.
Prima di passare ai risultati che vengono evidenziati dalla ricerca della IULM, esaminiamo quali sono le variabili sulle quali è stato possibile valutare il livello di engagement delle diverse aziende. Per comprensibili e ovvie ragioni pratiche, si è dovuto limitare a tre, gli aspetti più significativi e in certo qual modo “misurabili”, su cui incentrare l’analisi:
Per offrire una visione più diretta delle diverse posizioni occupate dalle aziende secondo i parametri sopra riportati si sono creati, con una azzeccata metafora, quattro ecosistemi:
Ebbene, la ricerca sulle aziende italiane ha dato risultati piuttosto sconfortanti: solo il 13% si trova nell’eden, il 20% è nella savana, il 25% nella palude e ben il 42 % si trova ancora nel deserto.
Nella ricerca IULM, emerge la considerazione che l’engagement dei collaboratori passi prima di tutto dalla comunicazione interna. Per i collaboratori il rapporto con i top manager è importante, e mentre finisce in secondo piano ogni tipo di comunicazione istituzionale, assume valenza strategica l’aspetto informale, considerato uno dei motori essenziali per favorire l’accorciamento delle distanze gerarchiche.
L’auspicio da parte dei collaboratori è che le pratiche manageriali messe in atto possano favorire il più possibile il dialogo, si sviluppino sistemi efficaci di feedback, facendo emergere anche situazioni critiche, di confronto ma anche di dissenso, di dubbio.
Alla luce di quanto sopra, i manager devono ripensare una sorta di nuova alleanza con i collaboratori, il più possibile sullo stesso piano, che porti all’allentamento della gerarchia e a nuove, più autentiche forme di autonomia.
A cura di: Ugo Perugini
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