Dimissioni del dirigente per giusta causa

Così come stabilito dall’art. 2119 c.c. il dirigente può, naturalmente, dimettersi per giusta causa, ossia per una causa che non consenta la prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto, conservando il diritto all’indennità sostitutiva del preavviso. In ogni caso, “non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta dell’azienda”, nonché, per analogia (legge n. 95/1979, e successive modificazioni e/o integrazioni), l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (Cass. 18 luglio 2001, n. 9719, ha stabilito che la valutazione della giustificatezza del licenziamento dei dirigenti assume propri connotati, del tutto particolari e diversi da quelli caratterizzanti gli altri lavoratori dipendenti. In questo senso, tale giustificatezza può ravvisarsi anche nella nuova struttura aziendale che la società ha assunto a seguito dell’amministrazione straordinaria).

Il fallimento, o le altre procedure concorsuali, non determinano necessariamente la soppressione dell’azienda e dei posti di lavoro, dato che l’esercizio dell’impresa potrebbe essere continuato dal curatore o dal commissario, anzi, nel caso di amministrazione straordinaria, sembrerebbe questa l’ipotesi normale visto che si prevede, obbligatoriamente, la predisposizione di un programma contenente un piano di risanamento.

Le cc.dd. “dimissioni in tronco” devono, peraltro, essere motivate come tali, al fine di consentire una precisa valutazione – innanzitutto al datore di lavoro e, poi, eventualmente, al giudice – delle circostanze addotte dal dirigente per giustificare la tempestività del suo recesso, le quali si presentino con caratteristiche di oggettiva gravità, e non solo valutate gravi soggettivamente dal lavoratore, dalle quali si deduca un’effettiva incompatibilità per il dirigente di permanere nel posto occupato. Conseguentemente, nella giusta causa vanno compresi – oltre le ipotesi di inadempimento contrattuale – tutti quei fatti che, pur essendo oggettivamente determinati da un comportamento lecito avuto riguardo al concreto rapporto ed al suo oggetto, al suo modo di svolgimento ed a coloro che ne sono soggetti, appaiano idonei a determinare, in uno di essi, la immediata impossibilità di continuare a mantenere in vita il rapporto medesimo.

In questi termini, può comprendersi il contenuto di una sentenza di merito, che ha stabilito costituire giusta causa di dimissioni “il rifiuto da parte del datore di lavoro di ricevere la prestazione lavorativa, pur continuando a corrispondere per intero la retribuzione” (Trib. Monza 28 gennaio 1989, in Lav. 80, 1989, 511, che ha stabilito anche come non configurabile il diritto del dirigente dimissionario all’indennità supplementare contrattuale, esplicitamente connessa solo con un licenziamento ingiustificato. Sul punto può vedersi, più di recente, Pret. Torino 14 settembre 1995, in Giur. piem., 1996, 254, anche se già la S.C. aveva risolto questo equivoco molti anni or sono: Cass. 4 gennaio 1980, n. 12). Proprio il fatto che l’azienda – nel caso di specie – abbia proseguito a corrispondere al dirigente le normali retribuzioni, non vale ad escludere l’inadempimento dell’azienda: la mora accipiendi della società si configura ancora più evidente in ragione delle mansioni dirigenziali e all’indiscutibile interesse professionale dello stesso al loro concreto espletamento.

Un problema molto delicato si pone in merito all’individuazione del momento in cui il lavoratore è tenuto a contestare all’imprenditore l’esistenza di una giusta causa.

Stando alla lettera dell’art. 2119 c.c., sembrerebbe, infatti, che il dipendente debba immediatamente comunicare al proprio datore di lavoro quali sono i fatti che non consentono la prosecuzione del rapporto e legittimano le dimissioni “in tronco”.

Ma una siffatta soluzione, se ben si adatta alla fattispecie del licenziamento, suscita perplessità ove trasportata sul piano dell’altra parte del rapporto, di regola sempre svantaggiato dalla cessazione immediata del rapporto di lavoro, anche se decisa e determinata di sua iniziativa.

Il dirigente che, normalmente, non dispone di altri redditi se non di quelli derivanti dalla propria attività di lavoro, può in effetti trovarsi nella situazione di dover subire soprusi o inadempienze da parte dell’imprenditore, per il semplice motivo che, dimettendosi spontaneamente, resterebbe disoccupato; se però trova un’altra sistemazione è da ritenere che possa inoltrare al datore di lavoro le proprie doglianze anche successivamente al loro effettivo verificarsi (Cass. 5 maggio 1980, n. 2956. Secondo Trib. Padova 10 dicembre 2004, in Rass. giur. lav. Veneto, 2005, 2, 44, è irrilevante e non decisivo, ai fini dell’indagine della sussistenza di una giusta causa, che il dirigente si sia limitato a rassegnare le dimissioni senza addurre alcuna motivazione nella relativa lettera).

Resta quindi inteso che è salva la possibilità, per il giudice, di valutare caso per caso quali siano i criteri con cui deve essere stimata l’immediatezza della contestazione della giusta causa, immediatezza che potrebbe anche non essere ritenuta sussistente laddove, per esempio, il lavoratore abbia accettato, per lungo tempo, un mutamento di mansioni (Cass. 10 gennaio 1986, n. 83).

In via di principio, come già detto, la modificazione in peius, delle mansioni, disposta in violazione dell’art. 2103 c.c., costituisce giusta causa di dimissioni, nei termini individuati dalla giurisprudenza. Sussiste, così, la giusta causa quando il mutamento della posizione professionale del dirigente, in termini di dequalificazione, riguardi la quasi totalità delle mansioni. In questo caso, all’evidenza, non è più possibile “la prosecuzione anche temporanea” del rapporto di lavoro.

Diversa è, invece, l’ipotesi in cui il dipendente, anche contestando immediatamente, in “tempo reale”, l’inadempimento dell’imprenditore, si dichiari disponibile per il periodo di preavviso o, addirittura, inizi a lavorarlo salvo interromperlo successivamente. In questo caso, a meno che nel frattempo non siano sopraggiunti nuovi fatti, è invero lo stesso lavoratore a escludere, con il proprio comportamento, la ravvisabilità di circostanze tali da impedire la prosecuzione, anche solo temporanea, del rapporto (Cass. 20 marzo 1985, n. 2048).

Trattandosi di dimissioni per una causa che non consente la prosecuzione – nemmeno provvisoria – del rapporto, con effetti che operano dal momento stesso della comunicazione, indipendentemente dalla volontà del datore di lavoro, quest’ultimo non potrà, ovviamente, addurre in sua difesa di aver riproposto al dirigente la riassunzione alle proprie dipendenze, così come, al contrario, potrebbe validamente opporre nell’ipotesi di licenziamento successivamente ritenuto illegittimo, e ciò nemmeno nell’ipotesi di rimozione delle cause che hanno spinto il dipendente alle dimissioni.

Da notare, infine, che il dirigente può troncare il rapporto ai sensi dell’art. 2119 c.c., per giusta causa, anche nel corso del periodo di preavviso intimatogli dal datore di lavoro; e richiedere, per poi ottenere, secondo il contratto collettivo di riferimento, l’indennità supplementare prevista per il licenziamento ingiustificato.

A prescindere dalle disposizioni dei contratti di settore, che individuano singole fattispecie di risoluzione del contratto per una causa imputabile al datore di lavoro, l’individuazione della giusta causa di dimissioni è prevalentemente demandata alla giurisprudenza.

In questo senso si segnalano, tra le ipotesi generali di giusta causa, quelle relative a:

  • omessa o ritardata corresponsione della retribuzione ( 26 gennaio 1988, n. 648, secondo cui l’applicazione dei principi generali in tema di inadempimento dei contratti con prestazioni corrispettive e della disciplina speciale dell’art. 2119 c.c., non è esclusa dall’appartenenza del lavoratore alla categoria dirigenziale, mentre è irrilevante, a fronte dell’accertato grave inadempimento della controparte, il motivo per cui il lavoratore sia eventualmente indotto al recesso; Cass. 8 agosto 1987, n. 6830; Cass. 8 novembre 1983, n. 6599; Cass. 15 maggio 1980, n. 3222; Pret. Verona 7 gennaio 1995, in Rass. giur. lav. Veneto, 2002, 2, 53; Pret. Modena 30 maggio 1994, in Or. giur. lav., 1994, 368. Peraltro, secondo Cass. 7 dicembre 1989, n. 5448, anche con riguardo ai dirigenti il ritardo del datore di lavoro non può giustificare la risoluzione immediata allorché il dipendente abbia tenuto un comportamento incompatibile con la volontà di risolverlo tempestivamente e si sia, invece, avvalso di rimedi alternativi, non risolutori, per sollecitare il pagamento degli arretrati, sempre che il ritardo non assuma un livello di gravità per avere dovuto il lavoratore provvedere con mezzi sostitutivi della retribuzione non corrisposta alle scadenze), anche in caso di situazione di crisi nota al dirigente (Cass. 8 agosto 1987, n. 6830, che ha ritenuto non rilevante, ai fini dell’inadempimento del datore di lavoro, la crisi aziendale, che non può essere addotta come esimente della responsabilità dell’azienda, anche quando il dirigente ha continuato a fornire la propria prestazione, senza far valere, con immediatezza, la giusta causa del recesso; cfr., sul punto, Cass. 10 ottobre 1987, n. 5072), fattispecie questa che, peraltro, nell’attuale contesto temporale ed economico ammette una valutazione di carattere generale in termini di una certa – minima – tollerabilità (ad esempio, per qualche mese di ritardo);
  • mancata regolarizzazione della posizione previdenziale del dipendente/dirigente ( Milano 14 ottobre 1983, in Lav. 80, 1984, 227);
  • rifiuto dell’azienda di corrispondere un compenso adeguato alle prestazioni di lavoro svolte dal dipendente ( 15 ottobre 1984, n. 5176);
  • iniziative imprenditoriali illegittime e suscettibili di coinvolgere la responsabilità del dirigente (Legnano 3 marzo 1989, in Dir. prat. lav., 1989, 1241. In questo senso, il potere gerarchico dell’imprenditore non può estendersi sino alla imposizione di prestazioni o comportamenti oggettivamente in contrasto con le vigenti normative. In tali casi il dirigente è titolare di uno jus resistendi, di cui le dimissioni per giusta causa possono costituire una delle modalità di espletamento. Il caso di specie verteva sulla vendita di un prodotto farmaceutico, senza le opportune autorizzazioni del ministero della sanità, materia, questa, regolata da apposita normativa che prevede sanzioni anche a carico del direttore tecnico, quale era il dirigente. La sentenza ha stabilito doversi negare la spettanza, a favore del dirigente dimissionario, dell’indennità supplementare prevista dalla contrattazione per il (solo) caso di licenziamento privo di giustificazione. Sul punto v., già, Cass. 4 gennaio 1980, n. 12 e, sulla scia, per quanto necessario, Pret. Parma 26 ottobre 1982, in Riv. it. dir. lav., 1983, II, 645);
  • richiesta di prestazioni esorbitanti le normali mansioni ricoperte dal lavoratore ( Milano 24 luglio 1985, in Lav. 80, 1986, 303);
  • comportamenti ingiuriosi del datore di lavoro o del superiore gerarchico ( 29 novembre 1985, n. 5977).

 

Articolo a cura di Pasquale Dui

Profilo Autore

Avvocato - Partner presso DV-LEX DUI VERCESI & PARTNERS Studio Legale - Professore a contratto di diritto del lavoro - Revisore Legale - Giornalista pubblicista

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