Decorrenza, durata e ultrattività del contratto collettivo

La disposizione di riferimento testuale nel codice civile per la materia oggetto della presente questione è – formalmente – l’art. 2074 [Efficacia dopo la scadenza], secondo cui “Il contratto collettivo, anche quando è stato denunziato, continua a produrre i suoi effetti dopo la scadenza, fino a che sia intervenuto un nuovo regolamento collettivo”.

Questa norma pone una prima questione fondamentale, di per sé stessa, relativa alla applicabilità o meno ai contratti collettivi post-corporativi. A riguardo, secondo la dottrina pressoché univoca, la riconduzione del contratto collettivo post-corporativo nell’area del diritto comune dei contratti, rafforzata dalla mancata attuazione dell’art. 39 Cost., comma 4, pone la premessa essenziale e sufficiente per affermare l’inapplicabilità dell’art. 2074 e del principio di ultrattività del contratto collettivo ivi affermato al c.d. contratto collettivo di diritto comune.

In assonanza con l’orientamento della dottrina, anche la giurisprudenza ha di fatto e quasi unanimemente affermato l’inapplicabilità dell’art. 2074 al contratto collettivo di diritto comune, precisando oltremodo che “alla scadenza prevista del contratto collettivo regolarmente disdetto secondo quanto previsto dalle parti stipulanti non è applicabile la disciplina di cui all’art. 2074 c.c. o, comunque, una regola di ultrattività del contratto medesimo, ed il rapporto di lavoro da questo precedentemente regolato resta disciplinato dalle norme di legge (in particolare, quanto alla retribuzione, dall’art. 36 Cost) e da quelle convenzionali eventualmente esistenti” (Cass. 651/1995; Cass. 5393/1990).

Quindi, a fronte di una legittima disdetta del contratto collettivo, non può essere sostenuta l’ultrattività del contratto medesimo e ogni accertamento riguardo all’interpretazione della libera volontà delle parti collettive compete al giudice del merito, le cui valutazioni sono censurabili in sede di legittimità solo se non sorrette da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici.

Contrariamente all’orientamento maggioritario si sono espresse tre pronunce che hanno ritenuto ultrattivo il contratto collettivo scaduto (Cass. 5908/2004; Cass. 4563/1995). Secondo questo orientamento, la Cassazione aveva riconosciuto l’ultrattività affermando che il termine apposto dalle parti al contratto collettivo atteneva all’impegno programmatico più che giuridico, di astensione da ulteriori rivendicazioni fino alla data concordata, ma non già alla durata dei diritti dei singoli lavoratori, acquisiti in applicazione del contratto stesso. È stata sostenuta, nell’ambito di questo orientamento, anche una diversa argomentazione, la quale aveva collegato l’ultrattività alla funzione della retribuzione, volta ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa (ex art 36 Cost.) e la partecipazione alla vita sociale, politica ed economica del lavoratore (art. 3 Cost.). In particolare, secondo un orientamento specifico, si affermava che la quantità della retribuzione pattuita a mezzo della contrattazione collettiva, rappresentando al tempo stesso la misura dell’adeguatezza ed il conseguimento di un livello di esistenza libero e dignitoso, diviene un’entità oggettiva che fuoriesce dalla normale serie effettuale di un comune contratto acquistando una sorta di intangibilità e rimanendo perciò sottratta alla disponibilità delle parti.

Invero, nessuna delle pronunce in parola aveva effettuato uno specifico richiamo all’art. 2074, ma, nonostante ciò, la Suprema Corte si è preoccupata comunque di superare il predetto contrasto, sgombrando il campo da possibili dubbi circa l’effettiva ultrattività del contratto collettivo di diritto comune. Ci si riferisce alla nota sentenza a Sezioni Unite 30 maggio 2005, n. 11325, dove si ribadisce che la disposizione dell’art. 2074 c.c. non si applica ai contratti collettivi post-corporativi: in quanto manifestazione dell’autonomia privata, essi sono regolati dalla libera volontà delle parti cui soltanto spetta stabilire se l’efficacia di un accordo possa sopravvivere alla sua scadenza, con la conseguenza che non può ritenersi definitivamente acquisito al patrimonio del lavoratore un diritto nato da una norma collettiva che ormai non esiste più, perché caducata o sostituita da una successiva contrattazione collettiva. Ciò perché le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, dando luogo a diritti quesiti sottratti al potere dispositivo delle organizzazioni sindacali, ma operano, invece, dall’esterno sui singoli rapporti di lavoro come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale. Sulla base di tali riaffermate premesse, la corte ritiene di dover precisare ancora una volta il riconoscimento della temporaneità dell’efficacia dei contratti collettivi come espressione tipica dell’autonomia negoziale, rientrando, la stessa durata di un contratto collettivo, tra gli elementi disponibili da parte del sindacato e rimessa alla sua variabile e mutevole valutazione in ragione dei contingenti interessi dei lavoratori associati. In questo sistema, l’applicazione di un principio di ultrattività del contratto oltre la sua normale scadenza, in contrasto con l’intento espresso dagli stipulanti, si pone obiettivamente come un limite alla libera volontà delle organizzazioni sindacali, e prospetta un contrasto con la garanzia posta dall’art. 39 Cost., ove configuri – secondo l’orientamento qui avversato – una regola che sottrae alla disponibilità delle parti contraenti la quantità di retribuzione pattuita in sede collettiva attribuendo a tale elemento un carattere di intangibilità oggettiva tale da estendersi anche – come da orientamento avversato – oltre alle clausole relative alla retribuzione, fino alla regolamentazione negoziale nel suo complesso.

L’impostazione fatta propria dalla Suprema Corte, con il citato intervento a Sezioni Unite, è rimasta sostanzialmente ferma anche nelle successive e più recenti pronunce, dove si legge che i contratti collettivi di diritto comune, costituendo manifestazione dell’autonomia negoziale degli stipulanti, operano esclusivamente entro l’ambito temporale concordato dalle parti, atteso che l’opposto principio di ultrattività della vincolatività del contratto scaduto sino ad un nuovo regolamento collettivo, ponendosi come limite alla libera volontà delle organizzazioni sindacali, sarebbe in contrasto con la garanzia prevista dall’art. 39 Cost. . Cass. 25919/2016; Cass. 20441/2015)

L’unico temperamento riconosciuto al negato principio dell’ultrattività, in piena coerenza con la valorizzazione dell’autonomia privata ivi disciplinata, è rappresentato dalla possibilità di dare rilievo ad eventuali, implicite manifestazioni di volontà, l’ipotesi cioè che le parti abbiano inteso, anche solo per facta concludentia, proseguire l’applicazione delle norme precedenti. In molte occasioni, di fatto, la corte valorizzando una serie di elementi di fatto rappresentati in giudizio, quali l’assenza di una formale disdetta del contratto collettivo e l’avvenuta riproduzione della norma anche nel contratto collettivo successivo, ha ritenuto, con valutazione di merito incensurabile in sede di legittimità se non per vizi logici, che le parti avessero implicitamente prorogato l’efficacia del precedente contratto collettivo. (Ex multis, Cass. 4990/2011).

CCNL provvisto di termine finale e recesso ante tempus

Le parti collettive nell’esercizio della loro autonomia negoziale, possono definire in via preventiva l’ambito temporale di efficacia del contratto collettivo, apponendovi un termine finale. Non infrequentemente, invero, lo stesso contratto collettivo nazionale di categoria prevede con clausole piuttosto diffuse che la scadenza del regolamento contrattuale sia subordinata ad una formale disdetta, in mancanza della quale consegue l’automatico rinnovo del contratto per un periodo di tempo uguale a quello per il quale era stato all’inizio stipulato.

Il problema dell’ultrattività del contratto sottoposto a termine finale, seppure condizionato all’esercizio del potere di disdetta, è stato affrontato in occasione della disdetta degli accordi sulla scala mobile del 1975 e del 1983, i quali essendo privi della suddetta clausola di ultrattività hanno posto un problema sulle conseguenze derivanti dalla loro perdita di efficacia. Lo stesso tema, sia pure sotto il diverso aspetto delle condizioni di efficacia della disdetta si è presentato alla attualità in conseguenza delle vicende che hanno riguardato la disdetta del CCNL dei metalmeccanici del 20 gennaio 2008 e la conseguente sottoscrizione di accordi separati.

Sul punto specifico, nella giurisprudenza di merito si prospettano diverse posizioni. Da una parte, è stato affermato che la disdetta di un contratto collettivo nazionale prima della scadenza da parte di alcune delle parti contrattuali e la successiva sottoscrizione di un nuovo accordo tra le parti disdettanti non sono atti giuridicamente idonei a risolvere interamente il precedente contratto collettivo nazionale, non avendo la parte non disdettante prestato il proprio consenso.

Ancora più drasticamente è stato sostenuto, invero, in modalità non molto convincente, che la disdetta di un contratto collettivo non consente di sopprimere elementi della retribuzione applicati in ragione della pregressa disciplina contrattuale collettiva, facendo leva sul principio dell’irriducibilità della retribuzione.

Vi sono, peraltro, letture di segno opposto, secondo cui in presenza di clausola collettiva di ultrattività che non precisa se la disdetta da parte sindacale debba  essere espressione di tutte le sigle sindacali oppure può essere sufficiente solo la disdetta comunicata da alcune di dette organizzazioni, ciascuna sigla è autonoma, in qualità di distinto soggetto di libertà e poteri sindacali e in funzione del diverso orientamento dell’interesse dei lavoratori che ciascuna legittimamente rappresenta. In questi termini si è deciso che non costituisce condotta antisindacale l’adesione del datore di lavoro ad altro testo contrattuale se non viene negata in concreto la presenza del precedente contratto che resta applicabile in favore dei lavoratori iscritti all’associazione sindacale non disdettante e a quelli che tacitamente o espressamente aderiscano al contenuto del contratto unitario.

La posizione della giurisprudenza di legittimità è meno variegata, ritenendo che nel contratto di lavoro la possibilità di disdetta spetta unicamente alle parti stipulanti, ossia alle associazioni sindacali e datoriali che di norma procedono a disciplinare anche le conseguenze della disdetta; al singolo datore di lavoro, pertanto,  non è consentito recedere unilateralmente dal contratto collettivo, neppure adducendo l’eccessiva onerosità dello stesso, ai sensi dell’art. 1467 c.c., conseguente ad una propria situazione di difficoltà economica, salva l’ipotesi di contratti aziendali stipulati dal singolo datore di lavoro con sindacati locali dei lavoratori. Solo al momento della scadenza contrattuale sarà possibile recedere dal contratto ed applicarne uno diverso Cass. 24575/2013; Cass. 8994/2011).

Nonostante il panorama piuttosto variegato della giurisprudenza di merito, sembra potersi definire incontestato il dato per cui il decorso del termine non incide sui diritti quesiti, collegati alla prestazione. In caso di legittima disdetta del contratto, i diritti dei lavoratori derivanti dalla pregressa disciplina più favorevole, sono intangibili solo in quanto siano già entrati nel patrimonio del lavoratore, quale corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già esaurita, e non anche quando vengano in rilievo delle mere aspettative sorte alla stregua della precedente, più favorevole regolamentazione Cass. 18548/2009).

Il recesso dal contratto collettivo a tempo indeterminato

La previsione di un termine finale non è elemento necessario del contratto collettivo di diritto comune. Tale principio è consolidato nella giurisprudenza della Suprema Corte che ha escluso per detti contratti collettivi l’applicabilità della disciplina prevista dal codice civile (art. 2071), relativa all’obbligo di determinare la durata del contratto, con la conseguente possibilità che un contratto collettivo sia stipulato senza indicazione del termine finale, ovvero a tempo indeterminato. In tale ipotesi (non molto frequente nella pratica), la mancata indicazione di un termine finale non implica che gli effetti del contratto perdurino nel tempo senza limiti, dovendo riconoscersi alle parti la possibilità di farne cessare l’effetto anche in mancanza di una espressa previsione legale.

Come noto, invero, la suprema Corte, allineata alla dottrina quasi unanime, ha tradizionalmente ammesso la facoltà di recesso dal contratto collettivo a tempo indeterminato. Gli argomenti di riferimento sono svariati e significativi. Primeggia, innanzitutto il divieto nel nostro ordinamento di vincoli obbligatori perpetui, cui si unisce quello della naturale temporaneità delle obbligazioni, della necessità di salvaguardia delle parti contraenti, intesa sia sotto il profilo contrattuale, sia sotto il profilo della libertà di iniziativa economica. È stato segnatamente statuito che il contratto collettivo, senza predeterminazione di un termine di efficacia, non può vincolare per sempre tutte le parti contraenti, perché finirebbe in tal caso per vanificarsi la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina, da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati, deve parametrarsi su una realtà socio economica in continua evoluzione, sicché a tale contrattazione va estesa la regola, di generale applicazione nei negozi privati, secondo cui il recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, che risponde all’esigenza di evitare – nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto – la perpetuità del vincolo obbligatorio.

Il recesso dal contratto collettivo senza predeterminazione di durata è, dunque, stato ammesso dalla giurisprudenza come un recesso acausale e sostanzialmente libero e, comunque, a prescindere dalla volontà dell’altro contraente, il quale non può, quindi, con il suo veto, cristallizzare la situazione in essere (Cass. 19351/2002).

Vi sono, peraltro, decisioni di segno opposto.

Secondo un primo, diverso orientamento, si è ritenuto che il recesso unilaterale costituisca un inadempimento contrattuale. Nel caso specifico si trattava di una controversia avente ad oggetto un emolumento retributivo previsto da un contratto aziendale privo del termine di durata, dal quale l’azienda aveva receduto. La Cassazione ha respinto la tesi della società statuendo che in tema di rapporto di lavoro subordinato, le obbligazioni delle parti si inseriscono all’interno di un rapporto contrattuale sinallagmatico di carattere continuativo che rende inapplicabile il principio, valido per le obbligazioni unilaterali, secondo cui le obbligazioni non possono avere carattere perpetuo, dovendosi ritenere che le erogazioni da parte del datore di lavoro trovano la loro causa nelle prestazioni lavorative dei dipendenti, intesi sia come singoli che come collettività, mentre queste ultime traggono, a loro volta, la giustificazione nelle erogazioni a carico del datore, tra le quali rientrano tutte le somme di denaro, a qualsiasi titolo, anche diverso dallo stipendio di base e dalle voci previste dalla contrattazione collettiva, corrisposte ai dipendenti in maniera stabile e continuativa. Ne consegue che il datore di lavoro non può recedere unilateralmente, senza accordo preventivo, dall’obbligo a suo carico di corrisponderle, integrando l’eventuale loro cessazione, in assenza di specifica giustificazione di carattere giuridico (e non semplicemente di natura economica), una forma di inadempimento contrattuale che può essere, secondo i casi, totale o parziale (Cass. 23614/2010).

Più di recente, può vedersi un’altra decisione, Cass., ordinanza, 23105/2019) strutturata sulla considerazione del principio secondo cui qualora il contratto collettivo non abbia un predeterminato termine di efficacia, non può vincolare per sempre tutte le parti contraenti, perché finirebbe in tal caso per vanificarsi la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina, da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati, deve parametrarsi su una realtà socio economica in continua evoluzione, sicché a tale contrattazione ve estesa la regola, di generale applicazione nei negozi privati, secondo cui il recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, che risponde all’esigenza di evitare – nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto – la perpetuità del vincolo obbligatorio. Ne consegue che, in caso di disdetta del contratto, i diritti dei lavoratori, derivanti dalla pregressa disciplina più favorevole, sono intangibili solo in quanto siano già entrati nel patrimonio del lavoratore quale corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già esaurita, e non anche quando vengano in rilievo delle mere aspettative sorte alla stregua della precedente più favorevole regolamentazione.

In ordine alle modalità del recesso, occorre ricordare che la giurisprudenza ha affermato che il recesso e la disdetta devono essere azionati dalle parti stipulanti, per cui il singolo datore di lavoro non può chiamarsi fuori dal contratto collettivo nazionale di cui non è direttamente firmatario, con la precisazione, onde evitare situazioni di incertezza, che è necessaria una manifestazione di volontà espressamente ed univocamente diretta alla risoluzione del rapporto.

 

Articolo a cura di Pasquale Dui

 

Profilo Autore

Avvocato - Partner presso DV-LEX DUI VERCESI & PARTNERS Studio Legale - Professore a contratto di diritto del lavoro - Revisore Legale - Giornalista pubblicista

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