Come tradurre in pratica quotidiana il bisogno di cambiamento

“… poiché troppo spesso, di fronte a un problema, si ha la tendenza a cercare la spiegazione piuttosto che la soluzione. La trappola è che la soluzione non necessita prima della spiegazione del problema, anzi sarà ciò che porterà al suo effettivo svelamento …”
Giorgio Nardone, Problem Solving strategico da tasca, Ponte delle Grazie, 2013, p. 13.

Cambiamento: chi non ha già letto qualcosa sull’argomento? O partecipato ad un seminario sull’urgenza di modificare radicalmente i propri stili relazionali e di approccio ai problemi? Chi non ha detto qualcosa, in circostanze informali o istituzionalizzate, su quanto sia necessario cambiare?

Tra l’altro il momento storico-sociale che stiamo attraversando, segnato da un forte stato di incertezza generalizzato, obbliga a rivedere in modo significativo i propri comportamenti nel sociale così come nel lavoro. Siamo obbligati a cambiare, insomma. A innovare, se con questo termine intendiamo adottare e proporre nuove modalità di azione derivanti dall’assumere prospettive e riferimenti originali rispetto alle dinamiche sociali e professionali che ci vedono protagonisti.

Eppure chiunque, in una organizzazione, sia coinvolto nella questione nel suo ruolo di manager o di team leader oppure da consulente e formatore, conosce bene l’intensità delle resistenze manifestate da coloro che sono chiamati al ripensare i propri stili di risposta agli stimoli ambientali (ovviamente anche il manager e il team leader, così come il consulente e il formatore, soffrono delle stesse indisposizioni, quando tocca a loro).

Che fare? Insistere o arrendersi? E si si vuole persistere, come proporre il cambiamento e trasmetterne significato ed obiettivi?

Proviamo a dare qualche sintetica risposta.

Poniamoci prima alcuni quesiti:

  1. che significa cambiamento?
  2. perché cambiare?
  3. cosa deve effettivamente cambiare?
  4. come mettere in atto il cambiamento? Cioè, com’è che si cambia?
  5. quali sono, in genere, i principali motivi per cui una persona o un gruppo di persone resiste al cambiamento?
  6. cosa succede, se non si cambia?

1. Che significa cambiamento?

In genere questo termine indica un processo attraverso cui qualcosa o qualcuno, in parte o in tutto, viene sostituito da qualcos’altro o da qualcun altro, in parte o in tutto. Si tratta di un avvicendamento: qualcosa o qualcuno, a seconda dei casi, prende il posto, in parte o in tutto, di qualcosa d’altro o qualcun altro.

Pertanto se ne deduce che cambiare non è semplicemente migliorare un processo o uno stile comportamentale, ad esempio: in tal caso non viene messa in atto una vera sostituzione bensì si lasciano le cose come sono, rendendole solo un po’ più efficaci ed efficienti. Non è, insomma, una questione di contenuti bensì di sola forma.

Cambiare, invece, è una faccenda che chiama in causa contenuti e forme.

2. Perché cambiare?

Cambiare non è bello. Si cambia perché è necessario. Perché così è richiesto dalle circostanze. Che possono essere esterne (vedi, oggi, la questione pandemia con tutto ciò che ne consegue in termini di rapporti sociali e professionali, di mercato, di stili di acquisto dei consumatori) o interne, quando ad esempio si aspira a raggiungere mete più ambiziose, quando cambia il punto di vista personale rispetto alla propria professione, agli obiettivi raggiunti, alle proprie risorse materiali ed immateriali.

3. Cosa deve effettivamente cambiare?

Si è accennato al fatto che il cambiamento è una questione di contenuti e, conseguentemente, di forme. Qual è, allora, il contenuto che va effettivamente sostituito?

Immaginiamo un membro della gerarchia aziendale e il suo stile comportamentale che, a seconda del ruolo specifico, può tradursi in tecnica di vendita, in scelte strategiche e decisionali, in modalità relazionali con colleghi e con i vari membri della gerarchia organizzativa. O in attività formativa e consulenziale. Immaginiamo che a questa persona si chiederà, o lui/lei stessa se lo chiederà, di modificare un dato comportamento (semplice o complesso, generalmente complesso) per renderlo più consono al mutamento ambientale esterno o interno all’organizzazione (i vasi comunicanti tra interno ed esterno sono sempre tanti e sempre aperti). Sappiamo che il comportamento ha una derivazione cognitiva, vale a dire che quella persona dà quella risposta a quell’evento sulla base delle sue convinzioni in merito allo stesso evento e all’emozioni che le/gli suscita.

Anche se si tratta di trasformare il solo comportamento o, per meglio dire, un solo comportamento, probabilmente l’interessato/a percepirà il cambiamento come conseguenza di una radicale modifica delle sue convinzioni ed emozioni connesse all’evento in questione. E tale dinamica interna si affermerà sia che il cambiamento sia richiesto dall’esterno sia che riguardi una decisione assunta in autonomia.

Facciamo un esempio,

In occasione di un incontro formativo su strategie di vendita nel Teleselling un’operatrice outbound dichiarò con forza che i consumatori maschi preferiscono interagire telefonicamente con gli uomini e, dunque, tendono a chiudere bruscamente la comunicazione appena sentono che all’altro capo del telefono c’è una donna. Ecco spiegata, affermava l’operatrice in tutta sincerità ovvero senza cercare alibi, l’origine delle sue difficoltà a intraprendere trattative commerciali con consumatori maschi.

È facilmente immaginabile la discussione che immediatamente si sviluppò in aula tra chi le dava ragione e chi no, tra chi affermava “È proprio il contrario, il cliente maschio preferisce la voce femminile” e chi invece sosteneva “È vero. Gli uomini non danno tempo di parlare a noi donne“.

Il confronto all’interno del gruppo fu breve ma intenso, quanto interessante: emergeva fortemente come l’oggetto della discussione non fosse il comportamento della operatrice – ossia come interagiva con il consumatore dell’altro sesso – bensì la convinzione che ne era all’origine. Dunque coloro che erano in disaccordo la esortavano a modificare la sua prospettiva riguardo al cliente maschio, altrimenti non avrebbe mai avuto il coraggio di farsi sentire e farsi valere. Con le conseguenze del caso sulla qualità della performance professionale.

Insomma la discussione mirava a spiegare il problema intendendo la stessa spiegazione come soluzione del problema stesso. Tutti dimenticavano di porre l’attenzione sul comportamento ossia sulla risposta dell’operatrice all’evento voce maschile. Tutti davano per scontato che senza mutare l’opinione la loro collega non avrebbe mai potuto modificare il comportamento.

È proprio così? Se non si cambia idea in merito ad un evento non si può trasformare la propria reazione riguardo a quel medesimo evento come se fossimo intrappolati in un rigido meccanismo Stimolo-Risposta?

La linearità e la rigidità dello schema causa-effetto non appartiene al comportamento umano, eppure spesso agiamo come se non avessimo altra scelta che quella che mettiamo in atto automaticamente.

Proprio da questa condizione deriva, a volte, il dispendio di energia e di tempo impiegati nel cercare di modificare, in noi o negli altri, la convinzione e ciò nell’attesa (speranzosa) che da questo mutamento derivi automaticamente una nuova risposta allo stimolo, quella più utile.

Raramente, invece, l’attenzione si dirige verso le diverse modalità con cui si può rispondere a partire dalla stessa convinzione. Su come cambiare comportamento, cioè, senza modificare la prospettiva di partenza.

4. Come mettere in atto il cambiamento?

Il primo passo verso il cambiamento è, dunque, comprendere che è possibile dare risposte diverse dallo standard anche a partire dalla stessa idea che è alla base di quello standard.

Il secondo passo è avere ben chiaro quale sia la meta del cambiamento.

L’operatrice a cui abbiamo fatto cenno poc’anzi, ad esempio, dovrà impegnarsi ad elaborare una modalità più autorevole e professionale a cui ricorrere quando sentirà all’altro capo del telefono una voce maschile. Questa dovrà essere la sua meta. Tutto senza intaccare la sua convinzione.

Successivamente bisogna addestrarsi ad allineare il più possibile l’intenzione, con cui si mette in atto un comportamento, con i contenuti e le modalità attraverso cui si sviluppa il comportamento stesso. Non basta volere il cambiamento, non basta crederci: bisogna agire.

Quindi è necessario essere attenti nel cogliere gli esiti effettivi del comportamento, che non vanno confusi con ciò che ci si aspettava e si desiderava ottenere. Tale consapevolezza è fondamentale per comprendere se e cosa, e in che misura, bisogna aggiustamenti al nuovo stile comportamentale. L’operatrice di cui sopra, ad esempio, dovrà chiedersi, in caso di insuccesso, se l’esito indesiderato è frutto di una condizione di mercato (quel cliente non ne vuole proprio sapere di entrare in trattativa) o della sua nuova strategia.

Cambiare è dunque uno sperimentare, verificare, riprovare. Eppure non alla cieca, non affidandosi al caso. Bensì avendo bene in mente motivi e scopi del cambiamento (e anche in quanto tempo lo si vuole concretizzare). Ricordando che ogni cambiamento avviene per gradi e il primo passo è un atto decisionale. Non esiste mi sento pronto o non mi sento pronto al cambiamento. Si agisce. Punto.

5. Quali sono, in genere, i principali motivi per cui una persona o un gruppo di persone resiste al cambiamento?

Questo interrogativo trova le sue risposte in quanto affermato in precedenza.

Le difficoltà cambiare, in genere, derivano da:

  • non è chiara la meta del cambiamento. La persona, o un gruppo, ha chiaro che cosa vada modificato nelle scelte comportamentali/strategiche adottate fino a quel momento eppure non ha ben definito con che cosa lo standard vada sostituito. A volte tale inconsapevolezza è l’esito proprio della resistenza a cambiare: pertanto, in tale circostanza, si è intrappolati in un logorante e rischioso circolo vizioso;
  • è forte il legame con il passato: può trattarsi della storia personale, delle esperienze professionali pregresse, della cultura aziendale. Al passato, piacevole o spiacevole che sia, sono connessi vissuti emotivi e cognitivi. A volte, perciò, il cambiamento viene sperimentato – che si tratti del singolo o del gruppo – come una rinuncia, o messa in discussione, ad aspetti significativi della propria storia;
  • in questa prospettiva, il cambiamento è perciò sperimentato come un azzeramento della propria identità individuale o collettiva. Quasi come una punizione per errori (immaginari) commessi in precedenza.

Queste considerazioni non esauriscono certo i motivi che sostengono la resistenza al cambiamento: ne sono soltanto alcuni tra i più significativi, quelli con cui, in genere, si confronta il consulente aziendale e il formatore in aula.

6. Cosa succede se non si cambia?

A questa domanda verrebbe da rispondere: niente, resta tutto così com’è. Può darsi. Se si agisse all’interno di un sistema statico. Ma il motto se fai sempre la stessa cosa ottieni sempre lo stesso risultato non vale per un individuo e per un’organizzazione che procedono all’interno di sistemi dinamici, in costante mutamento. A volte si tratta di variazioni minime, limitate nel tempo e nello spazio. Altre volte, invece, i cambiamenti sono effettivamente epocali e globali, come quello che stiamo vivendo data la pandemia. E quando l’ambiente cambia, e noi diamo sempre le stesse risposte, non otteniamo i risultati di sempre bensì generiamo effetti inferiori, rispetto ai precedenti, in quantità e quantità. Insomma non restiamo sempre allo stesso posto (magari) bensì facciamo significativi passi indietro.

 

A cura di Alfonso Falanga

Profilo Autore

Formatore specializzato in Analisi Transazionale.

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