E benvenuto sia anche l’errore: lo sbaglio è fondamentale per crescere

Chissà cosa avrebbe pensato oggi il grande saggista Roland Barthes quando definì il ventesimo secolo come un periodo di rapidi mutamenti dove l’invenzione rappresenta un atto rivoluzionario.

Eravamo alla fine degli anni 70 e la vera rivoluzione doveva ancora compiersi. Una rivoluzione tecnologica prima che sociale che avrebbe influenzato negli anni a seguire persone e organizzazioni. Barthes viveva quei mutamenti con stupore e meraviglia, atteggiamento forse fanciullesco ma che rappresenta la misura dell’apertura al cambiamento.

Nel tempo liquido che viviamo forse abbiamo smarrito quell’effetto sorpresa che rappresenta un po’ la parte emozionale del nostro vivere presi come siamo da un vortice di quotidianità che centrifuga le nostre buone intenzioni. In sostanza abbiamo talmente metabolizzato le novità che ormai nemmeno le vediamo più e le accettiamo come se fossero un fatto dovuto. Non ci troviamo nulla di rivoluzionario perché la vera rivoluzione è l’ordinarietà. Ognuno poi potrebbe dare una definizione di rivoluzione, a me personalmente piace la decodifica che ha fatto un cantautore che si chiama Marco Parente quando afferma che “la mia rivoluzione è a colpi di grazie”. Un sentimento di riconoscenza o forse una provocazione, dipende da quale visuale la si guarda.

Eppure in tutto questo c’è una violenta contraddizione in termini dovuta al fatto che in un periodo in cui le invenzioni non fanno più notizia e l’innovazione è talmente rapida che si fa fatica a starle dietro, le persone si scoprono improvvisamente indifese. Succede in quasi tutte le organizzazioni soprattutto in quelle in cui si fa fatica a comunicare il cambiamento e le persone si scoprono obsolete da un giorno all’altro.

Ora sarebbe facile e semplicistico demonizzare l’Azienda e certi comportamenti organizzativi quando invece è da evidenziare una certa corresponsabilità tra Azienda e dipendenti specie quando questi ultimi mostrano forti resistenze al cambiamento intese come un nuovo modo di essere considerati cittadini all’interno dell’Organizzazione.

Tutta questa resistenza ha origini antiche ed è la risultante di una cultura punitiva dell’errore che ha di fatto disciplinato in maniera silente la triangolazione tra Azienda, dipendenti e funzione HR. Ma se prima l’errore (stante l’immobilismo che regnava nelle Organizzazioni in cui si veniva assunti per svolgere quel determinato tipo di mansione che ti accompagnava fino al momento della quiescenza) assumeva una valenza molto ridotta, oggi che viene chiesto alle persone di cambiare frequentemente mansioni e di rimettersi in gioco continuamente, l’errore si fa potenzialmente esponenziale.

Ciò che non è cambiato è appunto l’approccio dell’Azienda che rimane spesso punitivo figlio di una logica conservatrice in cui l’errore è la certificazione dell’incapacità di ricoprire quel determinato ruolo. Quante patenti Pirandelliane abbiamo affibbiato a dipendenti che semplicemente erano nel posto sbagliato al momento sbagliato. A volerle analizzare le cause sono numerose e molto spesso correlate fra loro.

Le enormi aspettative, ad esempio, che riponiamo nella Formazione che ancora oggi consideriamo la panacea di tutti i mali e che viene spesso veicolata come uno di quei gadget da fiera di paese. Corsifici seriali il cui unico potere taumaturgico è quello dell’illusione. O la testardaggine di muoversi all’interno di schemi superati in cui ancora ci si interroga sulle aree di miglioramento senza valorizzare i punti di forza. E potremmo continuare ancora.

In questo contesto dominato dalla complessità, in cui si forniscono risposte vecchie a problemi nuovi, la HR dovrebbe recuperare una funzione che spesso non le viene riconosciuta e che si traduce nel “take care” di stampo anglosassone. Prendersi cura, farsi garanti di una parola che si traduce come “spendibilità”, far capire alle persone che il cambiamento non è una scelta ma una necessità e solo se investiamo, prima di tutto noi stessi, sul rafforzamento delle competenze sia di tipo tecnico che di natura comportamentale possiamo avere concrete possibilità di essere considerati a tutti gli effetti cittadini all’interno dell’Organizzazione.

Per gli uomini e le donne HR la sfida è senza dubbio complessa e costringe giocoforza a una revisione del set di competenze necessarie a svolgere il ruolo di HR Manager. Non più un approccio dalle forti connotazioni amministrative ma un’evoluzione sempre più marcata verso modelli di coaching funzionali a recuperare le persone sia in termini motivazionali che incrementando la produttività. In questo scenario lavorare su una dimensione che valorizzi l’errore come un’occasione di crescita di chi si sperimenta su una nuova attività rappresenta una sfida senza precedenti e legittima ancora di più il ruolo strategico della famiglia HR.

Un modo concreto di essere Business Partner è lavorare sul tema della corresponsabilità che spesso viene disatteso per l’abitudine pilatesca di molti capi di pensare unicamente agli aspetti di tipo tecnico che caratterizzano la prestazione. Ci si accorge dei comportamenti solo quando questi ultimi sono distonici rispetto al contesto. L’ingaggio della funzione HR avviene quasi unicamente in questa specifica fase e spesso è troppo tardi per dare risposte diverse da quelle sanzionatorie.

Questo per dire che le funzioni HR hanno un compito sempre più complesso, lavorare contemporaneamente sulla popolazione dei capi e su quella dei followers. Difficile da realizzare ma è uno sporco lavoro e qualcuno dovrà pur farlo. E si commetteranno molti errori, alcuni da matita rossa altri da sottolineare con quella blu ma ci verranno in soccorso le parole, ad esempio, di Fabrizio De André quando cantava quasi sottovoce “e benvenuto sia ogni abbaglio del cuore, e benvenuto sia anche l’errore”.

Le Organizzazioni sono pronte a far proprio questo principio? Probabilmente no e il motivo è che le Organizzazioni dimostrano nei fatti una rigidità di fondo che finisce col contagiare anche le persone in una spirale autoreferenziale che ingessa l’innovazione.

Lavorare sulla dimensione dell’errore probabilmente non risolve tutti i problemi ma aiuta nella gestione del capitale umano con indubbi effetti motivazionali. Lo diceva anche il filosofo Francese Gaston Bachelard secondo cui “la rivalutazione dell’errore comporta una concezione dinamica e non statica della conoscenza”. E se c’è una cosa di cui oggi si avverte un grande bisogno è proprio il dinamismo da contrapporre alle sabbie mobili in cui spesso precipitano Persone, Organizzazioni e Funzioni HR.

A cura di: Giovanni Di Muoio

Profilo Autore

Giovanni Di Muoio, esperto di Narrazione d’Impresa, ha maturato una lunga e consolidata esperienza in ambito HR. Attualmente ricopre il ruolo di HR Business Partner in BNL ‒ Gruppo BNP Paribas, in precedenza ha lavorato in SIAE e come libero professionista. Ha collaborato con diverse testate su tematiche HR e ha pubblicato cinque libri di Narrativa. Specializzato in Short Stories ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti per la sua attività di scrittore.

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